GUARIGLIA, Raffaele
Nacque a Napoli il 19 febbr. 1889, figlio unico di Alfonso, professore universitario e noto giureconsulto, e di Giulia Tajani, figlia di Raffaele, avvocato e giurista.
Apparteneva a una facoltosa famiglia salernitana con molti agganci con il mondo politico e la diplomazia: suo prozio era E. Gianturco, sottosegretario e ministro, mentre per parte di madre era imparentato con i diplomatici G. De Viti De Marco e C. Troysi.
Dopo gli studi liceali e la laurea in giurisprudenza, conseguita a Napoli il 17 luglio 1908, svolse attività pubblicistica su riviste politiche, trattando temi relativi all'emigrazione. Sostenne, quindi, il concorso di accesso al ministero degli Affari esteri, risultando primo fra i candidati alla carriera consolare, nei cui ruoli fu ammesso con decreto ministeriale 10 ott. 1909. Fu assegnato all'ufficio del personale e, al termine del periodo di prova, nel dicembre 1910 inviato in qualità di viceconsole presso l'importante consolato generale di Parigi diretto da F. Lucchesi Palli, di cui avrebbe più tardi sposato la figlia Francesca Maria (Napoli, 20 nov. 1919). Il 26 apr. 1913, per intercessione di A. Salandra, gli fu concesso il trasferimento nella carriera diplomatica con il grado di addetto di legazione. Con la destinazione a Londra, nel maggio 1913, fu subito introdotto nell'"inner circle", il circuito delle grandi ambasciate.
Nel suo breve stage londinese, accanto alle attività di routine si occupò di questioni coloniali, dimostrandosi acuto osservatore della situazione inglese e dei programmi riformatori del governo liberale.
Verso la fine dello stesso anno venne trasferito all'ambasciata di San Pietroburgo, dove collaborò con l'ambasciatore A. Carlotti, che fu tra i pochi diplomatici di alto rango a perorare la causa dell'intervento, posizione condivisa dal Guariglia.
Di simpatie filofrancesi ed estimatore del sistema politico inglese, il G. aveva, tuttavia, comprensione per le aspirazioni di grande potenza della Russia zarista, anche se nutriva dubbi sulla tenuta bellica del paese e non condivideva gli eccessi del nazionalismo panslavo.
Rientrato a Roma nel marzo 1915, venne di nuovo assegnato all'ufficio del personale, allora diretto da S. Contarini, qualche anno dopo segretario generale; entrata l'Italia in guerra, il G., che era stato dispensato dal servizio militare, avrebbe desiderato arruolarsi come volontario, ma Contarini lo "costrinse" ad accettare il trasferimento a Parigi, dove rimase per tutto il periodo della guerra mondiale.
Qui si occupò dei feriti italiani e dei lavoratori che erano stati trasferiti per prestare opera nelle industrie belliche francesi. Inoltre seguì le questioni relative alle forniture militari, problema che, dopo Caporetto, era divenuto drammatico, dimostrandosi un prezioso tramite tra l'ambasciata e le varie parti in causa, italiane e francesi.
Nel febbraio 1919 il ministero decise di inviarlo a riaprire, in qualità di incaricato d'affari, l'ambasciata di Bruxelles, semidistrutta durante l'occupazione tedesca, con il compito di riprendere il filo interrotto dei rapporti diplomatici italo-belgi. Nel novembre 1919, richiamato al ministero, fu nominato primo segretario e assegnato alla divisione III degli Affari politici.
M. Lago, preposto all'ufficio e appartenente al "gruppo Contarini", come il G. del resto, aveva ristrutturato la direzione secondo competenze per aree geografiche, in questo precedendo il senso di quella che fu la riforma Sforza del settembre 1920.
Successivamente Lago venne posto a capo della Direzione generale degli Affari politici, commerciali e privati d'Europa e Levante, impostata secondo le nuove direttive, dove il G. lo seguì alla testa dell'ufficio V, continuando a occuparsi degli affari africani; con questo incarico si chiudeva per lui il periodo di formazione nel corso del quale era diventato uno dei maggiori specialisti di problemi coloniali, consultato in qualità di esperto dai ministri C. Sforza e C. Schanzer e utilizzato nei negoziati diplomatici e in incarichi speciali. Nel 1922 fu quindi il G. ad accompagnare Schanzer, da poco in carica, a Londra, in una missione riguardante la retrocessione all'Italia del Giubaland, la quale, tuttavia, si concluse al momento con un fallimento.
Di fatto il nuovo ministro non aveva ancora un'adeguata conoscenza degli affari in corso ma, soprattutto, per quanto concerneva il problema specifico, gli Inglesi non avevano alcuna intenzione di "fare regali" a un governo pericolante. Spettò poi al G. occuparsi di quel dossier e preparare a livello tecnico il terreno favorevole alla cessione del territorio avvenuta poco più tardi, sotto il nuovo governo Mussolini (convenzione italo-inglese del maggio 1924).
L'avvento del fascismo non ebbe conseguenze negative sulla carriera del G. grazie anche alla protezione di Contarini che B. Mussolini, nella fase del suo apprendistato, aveva deciso di "rispettare".
Secondo quanto egli stesso ammise, il cambiamento politico colse il G. impreparato anche se non sfavorevolmente disposto, viste le sue idee, liberali ma inclini al nazionalismo. D'altra parte, come riconobbe negli scritti autobiografici, egli era inizialmente convinto che il fascismo non avrebbe condotto una politica estera ideologizzata ma, al contrario, avrebbe solo difeso con maggior forza gli interessi nazionali. Inoltre il G. condivideva il giudizio di Contarini sia riguardo alla possibilità di tenere sotto controllo gli eccessi della politica "personale" di Mussolini, sia circa quella di ottenere vantaggi agitando lo spauracchio fascista presso le cancellerie straniere e, contemporaneamente, mostrando la moderazione della diplomazia italiana.
Di Mussolini personalmente il G. non ebbe una buona impressione, allorquando lo accompagnò alla Conferenza di Losanna per il trattato di pace con la Turchia, i cui negoziati seguì sino alla conclusione, nel luglio 1923. Da parte sua, Mussolini nutrì sentimenti contraddittori nei confronti del G. di cui apprezzava la competenza, ma di cui mal sopportava la libertà di giudizio anche se dovette spesso riconoscere la fondatezza dei pareri da lui espressi, come nel caso della crisi di Corfù, quando il G. e Contarini lo convinsero a risolvere la questione per via diplomatica rinunciando all'occupazione.
Il G. continuò a seguire gli affari africani e mediorientali: oltre alla questione del Giubaland, portò avanti a livello tecnico le trattative per la delimitazione della frontiera cirenaico-egiziana, definita in occasione della Conferenza del Cairo (23 ottobre - 14 dic. 1924) alla quale partecipò come secondo delegato; infine, lavorò alla preparazione dell'intesa con l'Inghilterra per la determinazione delle sfere di influenza in Etiopia, in applicazione dell'accordo tripartito del 1906.
D. Grandi, allora sottosegretario agli Esteri con delega al personale, promosse il G. prima reggente della Direzione generale per gli Affari politici per l'Europa ed il Levante, quindi, il 12 dic. 1926, direttore generale, ruolo che il G. poté ricoprire senza prendere la tessera del Partito nazionale fascista (fu iscritto d'ufficio quando divenne un obbligo); l'anno dopo venne nominato ministro plenipotenziario di seconda classe.
Di ritorno da una missione in Etiopia al seguito di Luigi Amedeo di Savoia duca degli Abruzzi, in un appunto al ministro il G. formulava riguardo alla questione etiopica due alternative: sostenere la politica accentratrice di ras Tafari, ovvero approfittare dell'anarchia abissina per estendere, d'accordo con l'Inghilterra, la presenza italiana in vista di un ingrandimento territoriale delle colonie italiane confinanti. Il G. lasciava capire di propendere per la seconda soluzione ma, contrariamente alle sue aspettative, dopo gli accordi italo-etiopici del 1928, venne scelta la prima.
Da quel momento in poi la politica africana passò in secondo piano e l'attenzione del G. dovette concentrarsi sulla grande politica europea: da una parte, d'intesa con Grandi, si adoperò per imbrigliare l'attivismo personale di Mussolini nella sfera diplomatica, dall'altra si sforzò di promuovere una realistica difesa degli interessi nazionali in un quadro internazionale in movimento.
La conclusione del patto di Tirana del 1926, l'appoggio alle rivendicazioni ungheresi e al nazionalismo croato e lo stesso accordo italo-tedesco erano atti che caratterizzavano la politica estera italiana in senso più dinamico e vennero interpretati come segni di un revisionismo che suscitò preoccupazioni nelle cancellerie europee. Grandi e il G., consapevoli del rischio, cercarono di preservare lo spirito di Locarno, temperando le impazienze di Mussolini; tentarono, poi, di costruire un sistema diplomatico che facesse perno sulla tradizionale amicizia con l'Inghilterra, essenziale ai fini della realizzazione delle nostre aspirazioni coloniali (in questo contesto va ricordato l'accordo italo-inglese del 1927 sul Mar Rosso). L'alleanza con l'Inghilterra non era meno indispensabile per garantire un sistema di sicurezza in Europa, anche se in questo caso non si poteva prescindere dalla ricerca di un modus vivendi accettabile pure con la Francia. Per raggiungere tale ultimo obiettivo, il G., nella scia di Grandi, si adoperò per tranquillizzare Parigi circa le ambizioni italiane nei Balcani perseguendo una politica di distensione con la Iugoslavia, e proponendo alla Francia un coordinamento delle rispettive posizioni nei confronti della Germania. Inoltre, sempre per favorire la distensione con Parigi, il G. consigliava di accantonare le "ipoteche tunisine" e la richiesta di modifiche della frontiera della Libia meridionale. L'azione del G. era in perfetta corrispondenza con il programma Grandi che puntava alla sicurezza in Europa e all'espansione in Africa nel quadro di una cooperazione italo-inglese a livello bilaterale e nell'ambito della Società delle Nazioni. Tali linee erano contenute in una relazione (16 dic. 1931) e in un appunto al ministro (18 febbr. 1932), che peraltro lasciavano trasparire le dissonanze esistenti tra il direttore generale, dietro il quale stava il ministro, e il capo del governo.
Di lì a qualche mese l'incompatibilità tra Mussolini e Grandi portò alle forzate dimissioni di quest'ultimo e all'allontanamento del suo entourage, con un esteso movimento in cui venne inserito anche il G., per il quale Grandi ottenne la nomina ad ambasciatore a Madrid. Anche se Madrid non era all'epoca nell'"inner circle", si trattava comunque di un posto abbastanza gratificante per un capo missione di prima nomina.
Nella Spagna laboratorio della crisi europea, particolarmente interessante per l'Italia di Mussolini negli anni che precedettero la guerra civile, il G. dovette barcamenarsi, non senza abilità, tra un governo repubblicano - con cui si sforzò di mantenere rapporti formalmente corretti - molto sospettoso nei riguardi del regime fascista e un'opposizione di destra (monarchici e cattolici tradizionalisti) con la quale non mancò di prendere contatti, evitando però di farsi coinvolgere in un aperto fiancheggiamento del nascente falangismo. Pur convinto che il fascismo non fosse un genere d'esportazione, dopo l'avvento di Hitler al potere cercò di evitare che il movimento falangista finisse per gravitare nella sfera nazista e si adoperò per far sì che esso prendesse come punto di riferimento Roma piuttosto che Berlino. Il G. non intendeva favorire la diplomazia di partito, alla quale rimase estraneo (per esempio non fu informato degli accordi segreti intercorsi tra Mussolini e I. Balbo ed esponenti della Destra spagnola tradizionale), ma considerava importante, ai fini della politica estera italiana nel Mediterraneo, mantenere buoni collegamenti, nel caso la Destra giungesse al potere, senza tuttavia scoprirsi con il governo repubblicano: di qui la necessità di fare un doppio gioco (il G. parlò di un "decuplo gioco"). Non ravvisando spazi per un'azione politico-diplomatica nei confronti del governo repubblicano, il G. si orientò, infine, verso una strategia di lungo periodo che privilegiava l'attività culturale (si adoperò per la costituzione di un centro culturale italo-spagnolo, da istituirsi all'interno dell'Università di Madrid sul modello dell'Institut d'études hispaniques presso la Sorbona, e per la creazione di un'associazione culturale italo-spagnola).
Nell'aprile 1935 il G., rientrato in Italia per l'improvvisa morte della moglie, fu nominato coordinatore degli uffici che si occupavano della questione etiopica, di nuovo all'ordine del giorno dopo gli incidenti di Uàl-Uàl.
Estraneo all'infelice preparazione diplomatica della guerra, in un primo momento cercò, senza riuscirci, di trovare una soluzione accettabile per la Società delle Nazioni e per gli anglo-francesi, quindi lavorò per trovare una giustificazione politica all'intervento già deciso da Mussolini. Personalmente egli non era contrario all'annessione dell'Etiopia ma non condivideva i metodi spicci con cui il duce tagliò il nodo etiopico.
Nell'agosto 1936 venne destinato a Buenos Aires, dove rimase fino al 1938.
Trasferito a Parigi, il G. si sentì costretto in un esilio dorato, viste le cattive relazioni tra i due paesi. Nonostante il successo della conferenza di Monaco (1938), peraltro da lui considerato un bluff, egli non nutriva più alcuna fiducia nei confronti della politica estera del duce e di fatto non aveva più rapporti personali con Mussolini.
Infatti, prima della partenza per Parigi non fu ricevuto da Mussolini, mentre il ministro degli Esteri, G. Ciano, nel corso dell'udienza riservata, gli dette l'istruzione verbale di "non far niente", cui egli rispose "che sarebbe stato difficile ma avrebbe fatto il suo meglio". Nella nuova sede il G. cercò di esercitare un'influenza moderatrice sulla politica antifrancese del governo e con notevole coraggio prese le distanze da episodi come quelli del 30 nov. 1938, quando a Roma si ebbero alla Camera manifestazioni antifrancesi; quindi si sforzò di ammorbidire le reazioni antitaliane e di mantenere rapporti per quanto possibile amichevoli con esponenti di governo francesi che ne apprezzarono le qualità umane e professionali. Quando il governo italiano, nel settembre 1939, si produsse in un'inutile mediazione nell'impossibile tentativo di scongiurare la guerra, ricorse al G., contando sul suo prestigio personale. Questi, che non aveva visto con simpatia il Patto d'acciaio, si illuse che la non belligeranza si potesse trasformare in neutralità e non nascose nei suoi rapporti la preoccupazione per una pax Germanica.
Fino all'ultimo si sforzò di tenere aperta una trattativa con la Francia che dovette infine lasciare nel giugno 1940, in seguito alla dichiarazione di guerra. Tornato a Roma scrisse articoli nel settimanale di fronda Oggi, diretto da L. Longanesi, e tenne conferenze, in cui erano contenute critiche, neppure tanto larvate, alla politica estera fascista. Rimase praticamente senza incarico sino al febbraio 1942, quando fu nominato rappresentante italiano presso la S. Sede.
In questo incarico il G. si trovò a svolgere una missione delicata, dovendo attutire le conseguenze del ritorno di fiamma anticlericale di Mussolini che considerava il Vaticano un "covo di disfattismo"; favorì, poi, la mediazione vaticana per evitare il bombardamento di Roma.
Nel febbraio 1943 fu inviato ad Ankara. Dopo il 25 luglio, su indicazione del re e su suggerimento di G. Visconti Venosta, P. Badoglio lo nominò ministro degli Esteri in quanto considerato un tecnico tra i meno compromessi con il fascismo e di provata lealtà dinastica. Tenne la carica per 45 difficilissimi giorni, durante i quali dovette contemporaneamente tenere a bada i Tedeschi, che sospettavano lo sganciamento dell'Italia, e seguire la complessa trama delle trattative con gli Alleati che portarono all'armistizio di Cassibile. Dopo l'8 settembre rimase a Roma e, per mettersi al riparo da una sicura rappresaglia tedesca, si rifugiò nell'ambasciata di Spagna, dove rimase sino alla Liberazione di Roma; raggiunse, quindi, il re a Salerno ospitandolo per un certo tempo nella sua villa al Raito. Sottoposto a procedimento di epurazione, dopo l'archiviazione del procedimento fu riammesso in servizio. Quindi, dopo il 2 giugno 1946, chiese con una dignitosissima lettera ad A. De Gasperi di essere collocato a riposo perché non si sentiva di svolgere il proprio ufficio "dopo l'avvenuto cambiamento della forma statale, delle funzioni rappresentative quali erano quelle di ambasciatore".
Nel 1947 fu rappresentante del Sovrano Militare Ordine di Malta in Spagna e nel 1948 candidato come indipendente nella lista del Partito liberale italiano nel collegio di Salerno. Nelle elezioni del 1953 venne eletto senatore nello stesso collegio per il Partito nazionale monarchico, continuando a svolgere un'intensa attività pubblicistica.
Il G. morì a Roma il 25 apr. 1970.
Fra i vari scritti del G. si vedano: Ricordi 1922-1946, Napoli 1950; Ambasciata in Spagna e primi passi in diplomazia, 1932-1934, a cura di R. Moscati, ibid. 1972; Scritti storico-eruditi e documenti diplomatici 1936-1940, a cura di R. Moscati, ibid. 1981. Tradusse inoltre G. Trubezkoi, La Russia come grande potenza, Milano 1915.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. stor. del Ministero degli Affari esteri, Carte Guariglia (2 buste); Centro studi di Vallo di Diano (Salerno), Fondo Guariglia (12 buste); Documenti diplomatici italiani, s. 7, voll. I-III, V-VI, VIII-XI; s. 8, voll. I, III, XII-XIII; s. 9, voll. I-V; s. 10, voll. I-II, ad indices; Atti parlamentari, Senato della Repubblica, legisl. II, Discussioni, ad ind.; G. Ciano, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Milano 1980, ad ind.; R. G., Roma 1982 (antologia di rapporti diplomatici con bibliografia, a cura del Servizio storico e documentazione del Ministero degli Affari esteri); F. Suvich, Memorie (1932-1936), Milano 1984, ad ind.; G. Salvemini, Mussolini diplomatico, Bari 1952, ad ind.; G. Bastianini, Uomini, cose e fatti, Milano 1959, ad ind.; E. Di Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana, Padova 1960, ad ind.; G. Rumi, Alle origini della politica estera fascista, Bari 1968, ad ind.; G. Carocci, La politica estera dell'Italia fascista (1925-1928), Bari 1969, ad ind.; R. Moscati, R. G. e la sua ambasciata a Madrid, in Clio, IX (1973), pp. 63-79; D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Bologna 1985, ad ind.; P. Cacace, Vent'anni di politica estera, Roma 1986, ad ind.; R. De Felice, Mussolini il fascista, I, Torino 1966; Id., Mussolini l'alleato, I, 2, ibid. 1990, ad indices; Bibliografia orientativa del fascismo, a cura di R. De Felice, Roma 1991, ad ind.; S. Romano, Guida alla politica estera, Milano 1993, ad ind.; E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, Bari 1994, ad ind.; Il regime fascista, a cura di A. Del Boca - M. Legnani - M.G. Rossi, Bari 1995, ad ind.; F. Scarano, Mussolini e la Repubblica di Weimar. Le relazioni diplomatiche tra Italia e Germania dal 1927 al 1933, Napoli 1996; Università degli Studi di Lecce, La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915). Repertorio biobibliografico, Roma 1987, sub voce.