VIVIANI, Raffaele
VIVIANI, Raffaele. – Nacque a Castellammare di Stabia il 9 gennaio 1888, ultimogenito di Raffaele Viviano e di Teresa Sansone.
Il padre, piccolo impresario teatrale, era vedovo e con due figlie grandi prima di sposare la madre, dalla quale ebbe, prima di Raffaele, Vincenzo, Salvatore e Luisella (attrice e cantante). Fu Raffaele a far cambiare il cognome in Viviani, ritenendolo poco aristocratico per la ‘o’ finale (1904).
«In pieno battesimo» – scrive Viviani nella sua autobiografia – la famiglia si trasferì a Napoli e il padre, che nel frattempo «s’era creato un vasto corredo di attrezzi teatrali e indumenti, [...] cominciò a fornire i teatrini dei quartieri popolari» (Dalla vita alle scene. L’altra autobiografia (1888-1947), a cura di M.E. Nardo, 2012, p. 28). Il piccolo lo accompagnava e tutte le sere chiedeva di essere lasciato alle recite dell’opera dei pupi. Era un bambino, ma in quell’assidua frequentazione aveva già scelto la sua strada, trovato il suo ritmo e alcuni dei suoi futuri temi. Il teatrino era quello di Porta S. Gennaro gestito da Aniello Scarpati, uno dei luoghi d’elezione dell’Opera dei pupi napoletana, conosciuto come S. Carlino a Foria o Nuovo S. Carlino, dove operavano i celebri pupari Buonandi. Le gesta dei paladini di Francia e quelle del ciclo dei guappi (storie tratte da fatti e vicende contemporanee ispirate a personaggi della malavita del vicino rione Sanità) erano inframmezzate da numeri di varietà affidati ad attori di carne, tra i quali furoreggiava il tenore e comico Gennaro Trengi, che una sera si ammalò. A Papiluccio (così lo chiamava la mamma), che conosceva tutti i numeri a memoria, fu chiesto di salvare lo spettacolo. Fu vestito con il fracchettino di un pupo: «avevo quattro anni e mezzo e cantai... Il successo fu entusiastico. Trengi, riabilitatosi, chiedeva il suo posto; ma come sempre accade nella vita, non l’ebbe più» (pp. 28 s.).
È una sorta di iniziazione, l’‘inizio’ del suo apprendistato: in un comico-cantante in erba, in un corpo che, nei suoi «ottanta centimetri, compreso il tubino che m’avevano messo in capo», si muoveva al ritmo spezzato dell’incedere delle marionette, come fosse scandito dal cozzare delle loro spade (p. 28).
Nel 1895 debuttò nella prosa con il Masaniello di Arturo Quadretti, nel primo teatrino napoletano gestito dal padre, il Masaniello, situato nei pressi di Porta Capuana. Nel 1898 cominciò a eseguire canzoncine da solo e duetti con la sorella Luisella, in un secondo teatro Masaniello, anche questo di gestione paterna. Nel 1900, quando il padre morì, dopo lunga malattia, la famiglia era allo stremo: Viviani dovette lavorare per mantenere sé stesso e i suoi. Decise di farlo nel teatro. Non era più un enfant prodige e nessuno voleva dar credito a una fama che si riteneva legata alla fascinazione della giovane età. Non si scoraggiò e discese tutti i gradini della gavetta teatrale. Ripartì dal circo di Don Ciccio Scritto (1902) dove venne ingaggiato come Don Nicola nel contrasto settecentesco La Canzone di Zeza, «in arte conosciuta come “Zeza-Zeza”. Gli attori che la facevano erano considerati come i più guitti e spregevoli; tant’è vero che per ingiuriare un artista si diceva: “Vattene! Tu devi andare a fare soltanto ‘Zeza-Zeza’”» (pp. 46 s.). L’anno successivo venne scritturato per la tournée in Nord Italia della compagnia di varietà Bova e Carmelingo; tornato a Napoli venne ingaggiato come comico macchiettista al Petrella (1905), casotto di terz’ordine frequentato dalla plebe «infima e popolare» dei vicoli del basso porto, dove ottenne il suo primo, straordinario, successo con Lo scugnizzo (testo di Giovanni Capurro, musiche di Francesco Buongiovanni), fino ad allora cavallo di battaglia del celebre Peppino Villani.
Quell’interpretazione fu una rivelazione: «compresi che quella non era la solita macchietta e che avrei potuto trovare nella mia ricreazione le corde artistiche necessarie perché da quei versi si sprigionasse un autentico dramma di vita reale» (p. 59). Da quello Scugnizzo, che la stampa definì un ‘prodigio di verità’, nacque la sua leggenda: «la fantasia popolare, specie nel mio paese, ha creato intorno alla mia origine, castelli e tragedie... Chi dice che io sia stato veramente uno scugnizzo e perciò poi ho potuto riprodurlo sulle scene alla perfezione: perché lo avevo nel sangue! Chi dice che io abbia cantato veramente, accompagnato dalla musica dei pianini per le strade di Napoli; e chi dice che io abbia addirittura dormito per terra, da ragazzo. Niente di più falso» (p. 27).
Salì un altro gradino passando all’Arena Olimpia di piazza Ferrovia, dove creò Fifi Rino (1905), la sua prima canzone comica (versi, prosa e musica). In poco tempo aveva compreso che per emergere avrebbe dovuto non solo differenziarsi dagli altri, ma crearsi un proprio genere: imparò a leggere e scrivere per poter essere autore dei suoi testi e studiò musica per divenirne melodista non trascrittore. La frequentazione dei pupi e l’apprendistato nel circo e nei varietà popolari fu la sua scuola, quella dalla quale ricavò le regole base del suo fare teatro, impostato o, come dirà, ‘impastato’, di musica, parole e corpo in azione: Fifi Rino, caricatura del tipo del gagà, si distaccava dal genere di Nicola Maldacea e dalle creazioni scarpettiane, era «una nuova stilizzazione marionettistica in virtù della musica che seppi comporre per il tipo stesso, il quale, cantando e danzando, fu la prima incarnazione di un genere umoristico che fu molto imitato da Gaspare Castagna a Gustavo De Marco al moderno Totò» (p. 108).
Scalò, fino alla vetta, tutti i gradini del varietà: nel 1909, a Roma, inaugurò, con Ettore Petrolini, il teatro Jovinelli, e tra il 1909 e il 1912 girò tre film prodotti dalla Cines (di Amore selvaggio, nel quale lavorò anche la sorella Luisella, è rimasta la pellicola restaurata dal Nederland Filmmuseum di Amsterdam, degli altri solo alcune foto). Il 1912 è un anno importante: recitò al Fewarosi Orpheum di Budapest; girò, per la Partenope di Napoli, il film Testa per testa (anche questo perduto), e sposò Maria Di Majo, dalla quale avrebbe poi avuto quattro figli: Vittorio, Yvonne, Luciana e Gaetano.
Macchiettista e cantante di grande richiamo, «stellissimo» del varietà, in quegli anni Viviani recitò in tutta Italia, spesso alternandosi con Petrolini, suo amico fraterno, arrivando all’Olympia di Parigi (1916). Sempre nel 1916 creò la Tournée di Varietà Viviani, una piccola troupe con la quale iniziò a girare i teatri di varietà proponendo, oltre al suo numero, di sicuro richiamo, tutti i numeri che componevano lo spettacolo (cosa, per il periodo, assolutamente desueta). Dal 1910, del resto, all’attività di attore e autore aveva affiancato quella di impresario e capocomico, gestendo, anche dal punto di vista impresariale, il duo che formava con la sorella (la Coppia Viviani).
Nel 1917, anche a seguito della disfatta di Caporetto e del conseguente ordine governativo di chiusura dei varietà, decise di passare alla prosa. Prese in affitto il teatro Umberto di Napoli, organizzò una compagnia di prosa, che affiancò alla Tournée Viviani, e debuttò con ’O vico, il suo primo atto unico. Da comico di razza qual era, nel passare alla prosa tenne conto anche delle esigenze del mercato, dei gusti del suo pubblico, che non voleva perdere. Per questo ogni spettacolo era composto da un atto unico, recitato dalla compagnia formata per la prosa, più una serie di numeri di varietà affidati, invece, agli artisti della sua Tournée.
Per passare dai numeri staccati all’unitarietà dell’atto unico immaginò un contesto (che agli inizi era un luogo, come si evince dai titoli delle sue prime opere, ’O vico, Tuledo ’e notte, Porta Capuana, Piazza Ferrovia, Borgo Sant’Antonio) capace di contenere alcuni dei tipi creati per le sue macchiette tessendo intorno a loro una trama che ne intrecciasse le azioni. «Inventò una tecnica dell’impasto fra dramma personale e ambiente pittoresco, fra musica e parole, fra senso e colore. L’impasto era uno dei caratteri salienti della sua forma mentis artistica. Chi lo conobbe, ricorda il particolarissimo gesto delle mani rigirate l’una nell’altra con cui accompagnava la sua convinzione basilare: che in teatro i diversi elementi non dovessero essere intrecciati, ma impastati, di modo che non fosse più possibile separare, neppur volendo, la musica dall’intonazione della battuta, la composizione della messinscena dall’invenzione degli attori, la premeditazione dall’improvvisazione» (Taviani, 1995, p. 113).
Caporetto fu l’occasione per dare realtà al suo sogno: già dagli inizi del Novecento, Viviani parlava del progetto di una sua compagnia e di un suo teatro altro: altro rispetto ai generi da lui praticati – opera dei pupi, circo, zeza, varietà – e altro, anche e soprattutto, rispetto al teatro di prosa nel quale aspirava a entrare pur volendosene differenziare. Ne nacque un teatro diverso, una prosa impastata di canto, musica e danza con attori capaci, in primis, di cantare, di alternare parole, versi e concertato, e di usare voce, toni e corpo in accordo con la musica. Ne nacque quello che la critica definì ‘genere Viviani’, una nuova forma di teatro dialettale napoletano, un’arte nuova, come decise di ribattezzare il suo ensemble di prosa, Compagnia d’arte nuova napoletana (1918), che divenne la compagnia stabile dell’Umberto di Napoli.
L’attività di quegli anni fu intensissima: in poco tempo scriveva, metteva in scena, recitava e formava i suoi attori. Ai dieci atti unici scritti nel 1918 (Via Toledo di notte, Porta Capuana, Santa Lucia Nova, Piazza Ferrovia, Scugnizzo, ’Nterr ’a ’Mmaculatella, Borgo Sant’Antonio, For’ ’a loggia, Piazza Municipio, Osteria di campagna), seguirono i sette dell’anno successivo (Caffè di notte e giorno, Eden teatro, La marina di Sorrento, Santa Lucia Nova [ampliata a 2 atti], Borgo Sant’Antonio [ampliato a 2 atti], La festa di Piedigrotta, Campagna napoletana). Nel 1919 arrivò ai due atti con Eden Teatro e nel 1921 ai tre con Circo equestre Sgueglia. Insieme agli atti aumentava il numero degli elementi in compagnia e, con essi, il numero dei personaggi in commedia: dai dodici di ’O vico (1917) ai trentacinque di Fatto di cronaca (1922).
La compagnia è uno dei cardini del suo fare teatrale: nonostante defezioni e tradimenti, Viviani creò un nucleo fisso di attori (scelti, non a caso, tra le fila del varietà e tra i ‘nuovi alle scene’) che addestrò al suo teatro. Un gruppo stabile che rimase con lui fino alla fine e che costituì una delle sue forze d’autore: la compagnia funzionava come il suo laboratorio mentale, i suoi attori, che tecnicamente conosceva come sé stesso, erano materiali sui quali costruire le sue drammaturgie, giocate, queste ultime, su un doppio livello: all’esterno una confezione classica, eseguita nel rispetto dei canoni imposti dal genere, all’interno un tarlo che ne rosicchiava i contorni stravolgendone le funzioni. Fuori la drammaturgia dell’azione, classica della prosa; dentro quella dell’attrazione, tipica dell’energia sintetica del varietà.
Nel 1925, con Pescatori, arrivò al dramma. In realtà dramma e tragedia erano sempre stati nel suo teatro: sospesi, celati, ma costante cifra della sua comicità. È qui la differenza. In una crudeltà comica di cui l’umorismo è solo la superficie; in un comico che ha anche funzione di straniamento, di distacco e riflessione su quanto rappresentato in scena.
Gli anni Venti e Trenta furono quelli del grande successo: Viviani e il suo ensemble recitavano nei teatri di tutta Italia, spingendosi anche all’estero: nel 1925 (e poi nel 1937) a Tripoli, nel 1929, per sei mesi, in America Latina, e nel 1936 a Tunisi.
È «l’ora di Viviani», come titolavano i giornali: nel 1930 fu protagonista di Il cerchio della morte di Enrico Cavacchioli, al fianco di Andreina Pagnani (regia di Mario Mattoli); nel 1931 venne nominato grande ufficiale della Corona d’Italia «per l’opera sua geniale di attore, autore e poeta dialettale napoletano»; nel 1932 fu protagonista del film La tavola dei poveri, tratto dalla sua commedia omonima e diretto da Alessandro Blasetti. Il 1933 segnò la sua affermazione di autore: trionfò con Pensaci, Giacomì da Luigi Pirandello (del quale, in accordo con l’autore, firmò l’adattamento in napoletano) e scrisse e rappresentò I vecchi di San Gennaro, L’ombra di Pulcinella, Leggiamo la commedia e L’imbroglione onesto che conquistarono anche la stampa più diffidente.
Quella che si andava affermando era un’immagine inedita di Viviani: un uomo di teatro completo, capace di incarnare contemporaneamente i diversi ruoli della scena, non più solo attore e autore, ma anche maestro d’attori, melodista non trascrittore, capocomico e impresario; un uomo di scena che concepiva lo spettacolo come un unicum nel quale ogni elemento trova la sua complementare definizione nell’unità assoluta e armonica dell’insieme. Un regista ante litteram da inquadrare, storiograficamente, in un contesto teatrale nazionale ed europeo.
Suoi spettatori, in questi anni, Nemirovič Dančenko e Maksim Gor′kij, entrambi colpiti dal realismo che contraddistingueva il suo essere autore, attore e maestro d’attori; dal suo improntare scrittura e recitazione (la sua e quella della sua compagnia) al precetto che è oggi l’esergo del suo teatro: ‘umano, umano’. A venire in primo piano era la realtà che, seppur trasfigurata in materia artistica, continuava a scorrere così come scorreva nella vita, in barba alle convenzioni teatrali: «Non mi fisso sempre una trama, ma un ambiente; scelgo i personaggi più comuni a questo ambiente e li faccio vivere come in questo ambiente vivono, [...] parlare come li ho sentiti parlare. [...] Solo alla metà del primo atto comincio a pensare alla chiusa più logica per il taglio del primo finale. Ecco perché il più delle volte un mio primo atto potrebbe vivere anche da solo e per se stesso, e a ciò si deve se, dopo la prima calata di velario di un lavoro, come nel Fatto di cronaca, pubblico e critica si domandano: ‘E che viene adesso se il fatto è finito?’, seguono invece due atti di commento» (R. Viviani, Dalla vita alle scene, Napoli 1977, p. 125). «Un lavoro che vuole essere anche e soprattutto un brano di vita, [...] non può rimanere imprigionato nelle vecchie impalcature del ‘teatro tipo’. Mentre là vigono e spesso pesano le regole, qui vige unicamente la realtà. Una vicenda umana non può essere narrata per filo e per segno, secondo un’orditura preconcetta, ma deve essere colta da un occhio attento, in mezzo ai mille altri avvenimenti che interferiscono in essa [...] e che alla fine, quando l’opera è finita, avranno contribuito a creare l’organicità del tutto» (R. Viviani, Dalla vita alle scene. L’altra autobiografia..., cit., p. 151).
Alle recite con la sua compagnia Viviani continuò ad alternare ingaggi singoli: fu Don Marzio della commedia La Bottega del caffè di Carlo Goldoni allestita da Gino Rocca al primo festival della Biennale di Venezia (1934) e ‘l’ultimo scugnizzo’ del film omonimo, tratto, anch’esso, da un suo lavoro (1938, regia di Gennaro Righelli, film perduto).
Alla fine degli anni Trenta, il clima di austerità imposto dal fascismo determinò un cambiamento nel pubblico che ora chiedeva al teatro distrazione e non specchi in cui guardare, seppure dietro il riso, le miserie della realtà. Il teatro vivianeo iniziò a perdere spettatori e il regime ne approfittò per squalificarlo culturalmente escludendolo dalle piazze più importanti. Viviani non si piegò: anziché mutare il suo teatro, abbandonando il dialetto e cambiando di segno i suoi personaggi, ridusse al silenzio l’autore. Affidò al figlio Vittorio la direzione scenica della compagnia, retrocedendo al ruolo di attore, e iniziò a rappresentare (con grande successo di pubblico, critica e incassi) altri autori e altri testi, vicini alle corde del suo teatro: 1936, L’ammalato immortale da Molière; 1940, Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta e Chicchignola di Petrolini; 1941, Siamo tutti fratelli da So’ muorto e m’hanno fatto turna’ a nascere di Antonio Petito.
Nella stagione 1942-43, nonostante l’infuriare della guerra, continuò a dar voce al suo teatro, recitando continuativamente, a Napoli, nei teatri minacciati dall’offesa aerea (il teatro delle Palme, il Diana e l’Aurora), interpretando Bellavita di Pirandello, riprendendo tutto il suo teatro e riformando la sua compagnia, accostando agli attori fedeli nuovi elementi da plasmare.
Nel 1942 collaborò al progetto di trasposizione cinematografica del suo Pescatori (regia di Luchino Visconti, sceneggiatura di Gianni Puccini, Gino Doria e Vittorio Viviani, protagonista Raffaele Viviani). Il film avrebbe visto la luce nel 1946 ma con altro titolo e altri nomi: Notte di tempesta, regia di Gianni Franciolini, sceneggiatura di Edoardo Anton e Renato Castellani, protagonista Fosco Giachetti.
Nel giorno di Pentecoste del 1945 Viviani recitò per l’ultima volta il suo ’O vico: l’aggravarsi della malattia che lo avrebbe portato alla morte lo costrinse a fermarsi. Ad abbandonare le scene, ma mai il suo teatro: aveva scritto Muratori (1942, a oggi mai rappresentato) e, con la collaborazione del figlio Vittorio, I dieci comandamenti (1944-47); riordinò le sue Poesie e la sua autobiografia e compose altre tre commedie, rimaste incompiute (Cavalli ed asini, 1943; I sette peccati e Trovare un posto, 1949). Continuò a lottare perché il teatro napoletano, passato attraverso l’«imperversare della guerra e le traversie del dopoguerra», potesse ritrovare la forza e la gloria di un tempo. È il sogno di un teatro stabile, di una «compagnia stabile di arte popolare» capace di riunire vecchie e nuove leve del teatro napoletano, attori e autori; il sogno di una «scuola in cui possano venir pienamente valorizzate tutte le forze nuove» (R. Viviani, Napoli dovrà avere il suo teatro stabile, in Il Giorno, 26 marzo 1945). Il sogno di un teatro nel quale non smise mai di credere, come mai smise di credere nel suo altro teatro: non vi lascio beni materiali – disse ai figli prima di morire – ma un patrimonio artistico che, ne sono certo, crescerà nel tempo.
Raffaele Viviani morì il 22 marzo 1950. Ma il suo teatro è rimasto al teatro italiano ed europeo come un’autentica eredità.
Opere. Scrisse 67 testi teatrali, 25 adattamenti e 220 componimenti per il varietà. La prima pubblicazione del suo teatro si deve a Ettore Novi: Viviani. Trentaquattro commedie scelte da tutto il teatro di Raffaele Viviani, I-II, a cura di L. Ridenti, Torino 1957; a questa seguirono i sei volumi editi da Guida: Teatro, a cura di G. Davico Bonino - A. Lezza - P. Scialò, Napoli 1987-1994, e diverse edizioni (I capolavori, a cura di A. Lezza - P. Scialò, Napoli 1992; 10 commedie, a cura di V. Venturini - G. Longone Viviani, Napoli 2019). Scrisse, inoltre, numerose liriche e poemetti (Tavolozza, Milano 1931; Poesie, a cura di V. Pratolini - P. Ricci, Firenze 1956; Poesie. Opera completa, a cura di A. Lezza, Napoli 2010) e un’autobiografia, Dalla vita alle scene (Bologna 1928, ristampata dall’editore Guida di Napoli nel 1977 con l’aggiunta di ‘numeri di varietà’, e nel 2012 pubblicata in una versione inedita rivista dallo stesso Viviani: Dalla vita alle scene. L’altra autobiografia (1888-1947), cit.).
Fonti e Bibl.: M. Corsi, Il realismo di un attore napoletano, in Comoedia, XVII (1924), 6, pp. 7-11; A. Spaini, Un capocomico nei ranghi (1926), in V. Pandolfi, Antologia del grande attore, Bari 1954, pp. 457-461; S. D’Amico, V., in Id., Tramonto del grande attore, Milano 1929, pp. 123-126; L. Postiglione, V., in Id., Disegni a carbone, Napoli 1932, pp. 117-123; R. V., in Poesia dialettale del Novecento, a cura di M. Dell’Arco - P.P. Pasolini, Parma 1952, pp. XXVII-XXIX; G. Trevisani, R. V., Bologna 1961; A. Spaini, R. V., in Enciclopedia dello spettacolo, IX, Roma 1962, pp. 1744-1748; V. Pandolfi, R. V., in Letteratura italiana. I contemporanei, III, Milano 1969, pp. 127-140; V. Viviani, R. V., in Id., Storia del teatro napoletano, Napoli 1969, pp. 721-786; P. Ricci, Ritorno a V., Roma 1979; G. Longone, Intervista a Maria Di Majo Viviani, Napoli s.d. [1981 circa], in V. Venturini, R. V. La compagnia, Napoli e l’Europa, Roma 2008, pp. 343-373; F.C. Greco, R. V. o della omologazione interdetta, in F.C. Greco et al., La scrittura e il gesto. Itinerari del teatro napoletano dal Cinquecento a oggi, IV, Napoli 1982, pp. 25-30; G. Fofi, V., da riscoprire, in Id., La grande recita, Napoli 1990, pp. 26-34; S. De Matteis, La realtà in scena, in Id., Lo specchio della vita, Bologna 1991, pp. 179-198; F. Taviani, R. V. inventa un teatro, in Id., Uomini di scena uomini di libro, Bologna 1995, pp. 106-123; L. Viviani, La solitudine di V., in La porta aperta. Bimestrale del Teatro di Roma, II (2000), 8, pp. 29-31; V., a cura di M. Andria et al., Napoli 2001; R. V.: teatro, poesia e musica, a cura di A. Lezza - P. Scialò, Napoli 2003; V. Venturini, R. V. La compagnia…, Roma 2008; F. Taglialatela, Echi di guerra tra voci di quartiere: R. V. e la grande guerra, in Musica, Arte e Grande Guerra. Atti del Convegno nazionale di studi… 2018, Avellino 2019, pp. 143-173.