MATARAZZO, Raffaello
– Nacque a Roma il 17 ag. 1909, da Ciro e da Anna Bologna, in una famiglia di origine napoletana.
Il M. perse presto il padre e per proseguire gli studi fino alla licenza liceale lavorò come fattorino telegrafico; quando la madre si risposò con un giornalista, trovò nel patrigno un valido aiuto per approfondire la sua formazione culturale e indirizzare i molteplici interessi – musica, pittura, letteratura, filosofia in particolare (il M. era un convinto crociano) – che avrebbe continuato a coltivare per tutta la vita.
Probabilmente fu sempre il patrigno a guidarne i primi passi nell’ambiente giornalistico, dove il M. si orientò subito verso la critica cinematografica. I primi suoi scritti apparvero, nel 1927, ne Lo Spettacolo d’Italia, ma il primo vero impiego il M. lo ebbe, nel 1929, al quotidiano Il Tevere, dove si occupava della pagina degli spettacoli, cui si accompagnò, dal febbraio all’ottobre 1931, la collaborazione a L’Italia letteraria, per la critica cinematografica. Contemporaneamente fu anche capo ufficio stampa del Dopolavoro dell’Urbe.
Come critico cinematografico il M. fu un sostenitore della rinascita del cinema italiano da realizzarsi nel solco della tradizione nazionale, sia nelle forme sia nelle tematiche, e su tale linea – comune al gruppo della rivista Cinematografo, raccolto intorno ad A. Blasetti, di cui fece parte – auspicò da subito la creazione di una specifica scuola (quando questa fu effettivamente fondata, il M. vi fu, per un periodo, segretario della commissione di vigilanza). Nell’ambito internazionale mostrò di preferire il cinema sovietico (in particolare F. Ozep, di cui apprezzava la coerenza dello sviluppo narrativo) a quello americano, anche se ammirava la sensibilità di W. Wyler, il respiro epico di R. Walsh, e soprattutto il ritmo perfetto di C. Chaplin e E. Lubitsch; fra gli italiani prediligeva Blasetti, G. Alessandrini, M. Camerini.
Nel 1931 il M. fu assunto alla Cines come supervisore delle sceneggiature (in questa fase firmò, tra le altre, quelle di Due cuori felici, di B. Negroni, Fanny, di M. Almirante, La telefonista, di N. Malasomma; nel corso della sua carriera avrebbe partecipato alla stesura di circa 400 tra soggetti e sceneggiature); fu anche aiuto regista (di significativa importanza l’esperienza con Camerini per Figaro e la sua gran giornata, del 1931) e autore di cortometraggi. Il M. passò per la prima volta dietro la macchina da presa con due documentari: Littoria, del 1932 e Mussolinia di Sardegna, del 1933.
Ambedue affrontano il tema, classico nella propaganda di quegli anni, della palude e del suo risanamento che il M. – il quale non fu mai in autentica sintonia con il fascismo né si può considerare autore di regime, anche se non prese mai esplicitamente posizione – trattò soprattutto attraverso immagini immediate della natura, prima e dopo l’intervento dell’uomo, a implicita ma evidente valorizzazione del lavoro di bonifica attuato, mostrando già una notevole padronanza del linguaggio cinematografico sul piano tecnico e su quello, più complesso, della struttura narrativa.
L’esordio nella vera e propria regia avvenne nel 1933, con Treno popolare, finanziato dalla Cines, con attori poco noti, a eccezione di una Maria Denis comunque al secondo film, o presi dalla strada, aiutato per la sceneggiatura da G. Bosio, e N. Rota, anch’egli esordiente, come autore della musica.
È la garbata storia di una giornata diversa, appunto sul treno popolare del titolo, per una breve gita da Roma a Orvieto. Il racconto, che include una molteplicità di personaggi, si sviluppa intorno al terzetto composto da una civettina corteggiata da due giovanotti, uno serio e timido, l’altro più intraprendente il quale, naturalmente, avrà infine la meglio. Il film, sgradito sul momento a pubblico e critica, venne in parte rivalutato nel dopoguerra in quanto parzialmente anticipatore del linguaggio neorealista e in polemica opposizione alla produzione di maggior successo del Matarazzo. In realtà è soprattutto un film «à la Camerini» da cui mutua, per affinità elettiva, l’attenzione alla piccola gente e alla sua psicologia, semplice ma tuttavia autentica, trattata con cordiale disinvoltura, girato non in studio ma nei luoghi reali dell’azione, dove mancano però l’ironia, il pur partecipe distacco, la sicurezza dell’ispirazione stilistica e narrativa del più autorevole collega.
L’esito fallimentare di questo primo tentativo agì in profondità sul carattere, già molto insicuro, di un giovane di ventiquattro anni: il M. proseguì nell’attività – né negli anni successivi gli mancò mai il lavoro, a generale e costante riconoscimento di una grande professionalità e anche del senso di responsabilità sempre manifestato nei confronti del produttore, di chi impegnava il capitale nell’impresa cinematografica – ma, da allora, egli cercò sempre punti di appoggio e linee direttive sicure a sostegno della conduzione registica individuandoli nel cinema di genere, con le sue regole fisse e i passaggi obbligati, sia nei temi sia nelle forme. Come ulteriore ammortizzatore, usò quasi sempre opere letterarie, teatro o narrativa, quale base di riferimento per i soggetti da realizzare. Si circondò, inoltre, di un gruppo di collaboratori abituali e di fiducia (fra gli altri: E. Anton, A. De Stefani, A. De Benedetti per le sceneggiature; U. Arata, A. Tonti, C. Montuori, per la fotografia; M. Serandrei, al montaggio; Rota, per le colonne musicali). Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale si indirizzò al giallo e, soprattutto, alla commedia nell’accezione dei «telefoni bianchi».
Tra la quindicina di titoli realizzati dal 1934 al 1943, tutti di decorosa fattura, alcuni pregevoli, vale la pena di citare: Joe il rosso, del 1936, tratto da una commedia scritta da Dino Falconi per il padre Armando, noto attore teatrale, in cui il M. mostra la sua raggiunta maturità padroneggiando abilmente la gradevole parodia del gangster-movie di matrice americana, storia di un autentico gangster che, a fin di bene, riesce a sgominare una banda familiare di disonesti «dilettanti» che cercano di taglieggiare l’amata nipote. Il M. sostiene ma controlla la recitazione del «mattatore», senza divenirne succube (come avrebbe fatto poi con molti nomi celebri del palcoscenico che diresse per lo schermo: Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, E. Viarisio, P. Stoppa, Andreina Pagnani, Dina Galli) e riesce a risolvere, attraverso il ritmo sostenuto di una scaltra regia, l’eccessiva teatralità dei dialoghi. L’anno seguente in Sono stato io!, con un’Alida Valli sedicenne, il M. lascia trasparire la materia melodrammatica presente nelle vicende di un poveraccio disoccupato – usato in ogni circostanza come capro espiatorio dai parenti che lo mantengono –, volte in farsa amarognola dalla irresistibile comicità dei tre De Filippo protagonisti. Ne L’albergo degli assenti (1939), un giallo questa volta, basato su un romanzo quasi surreale nel suo complicatissimo intreccio, il M. è impegnato nella definizione di ambienti cupi e claustrofobici che anticipano i conventi, le carceri, le sbarre, corredo del suo approdo al melodramma. Del 1941 è una delle commedie migliori, L’avventuriera del piano di sopra, da un soggetto del M. sceneggiato con Anton; al montaggio e come spalla un altro outsider di successo del cinema italiano, l’amico e collega R. Freda; interpreti un poker d’assi del cinema autarchico (V. De Sica, Clara Calamai, Giuditta Rissone, C. Campanini): con questo classico «telefono bianco», di ambientazione borghese ed elegante, basato sul gioco degli equivoci generato dalle tentazioni extraconiugali dei protagonisti, declinate in varie forme, se il M. è ben lontano dal «Lubitsch touch» di Partita a quattro e Mancia competente, cui forse si ispirò, tuttavia raggiunge, per leggerezza e ironia, il più che onorevole livello della graziosa commedia Due dozzine di rose scarlatte dell’abituale collaboratore De Benedetti, tradotta in film, l’anno prima, dall’attore De Sica. Due pellicole del 1942, Giorno di nozze e Il birichino di papà, quest’ultima soprattutto, già mostrano una certa propensione a ibridare la commedia con qualche seme di malinconia, con qualche situazione al limite della credibilità. Certamente in tutta la produzione di questi anni il M. dimostrò di non temere le complicazioni narrative, le situazioni e i sentimenti eccessivi ai limiti del ridicolo che talvolta spuntavano nella trama del giallo e della commedia, atteggiamento che gli avrebbe facilitato senz’altro il prossimo approccio a un genere come il melodramma.
Nel 1943 il M., per evitare le conseguenze di una guerra che non condivideva, accettò l’invito di un amico, R. Forte, giornalista italo-americano di una certa notorietà, a raggiungerlo a Madrid. Qui riuscì a girare due film (Dora la espia con Francesca Bertini ed Empezó en boda). Per sbarcare il lunario riprese anche a scrivere commedie, attività che praticava fin dalla prima gioventù, che non interruppe mai, intensificandola nei periodi in cui fu costretto a rallentare la produzione cinematografica, e che costituiva forse la sua autentica vocazione, in quanto anche l’approccio al cinema era per il M. eminentemente letterario, legato cioè più alla parola scritta, alla sceneggiatura, che non all’immagine.
Nel corso degli anni alcuni testi teatrali del M. vennero pubblicati ne Il Dramma, e anche rappresentati: Simmetria, farsa in sei quadri (Roma, teatro Valle, 21 genn. 1936, compagnia del teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia); La moglie di papà (scritta con S. De Stefani, Genova, teatro Margherita, 13 genn. 1940, compagnia Dina Galli); Una donna fra le braccia (tratta dalla sceneggiatura di L’avventuriera del piano di sopra, Madrid, teatro Calderón, 1944, compagnia Irene López de Heredia); Una famiglia immorale (Roma, teatro delle Muse, 25 maggio 1960, compagnia Dominici - Giletti). Sei commedie del M. sono state pubblicate con il titolo Una famiglia immorale (Roma 1966).
Rientrato in Italia nel 1946 il M. trovò che tutto era cambiato; l’anno prima era uscito Roma città aperta, di R. Rossellini, di fatto era scoppiato il neorealismo e non era certo più tempo di telefoni bianchi. Riprese i contatti con la produzione (oltre che con la Cines il M. aveva lavorato per la Tirrenia di G. Forzano e per la Lux di R. Gualino), ma i suoi progetti stentarono a trovare udienza, anche perché egli allora, come in seguito, non volle mai affrontare le tematiche socio-politiche che erano al centro della cinematografia neorealista.
In perfetta linea con questo approccio un po’ passatista al cinema, la sua prima regia del dopoguerra, nel 1947, si concreta con la riesumazione di un vecchio personaggio del muto, Za-la Mort, in Fumeria d’oppio o Ritorna Za-la Mort, dove accentuò il carattere patetico del ruolo a scapito dell’elemento avventuroso. Più interessante il successivo Paolo e Francesca (1949), in cui la vicenda dei due mitici amanti è trattata non in chiave di romanzo storico né di racconto poetico ma risulta già tutta interna alla morfologia del melodramma.
In quel medesimo 1949 il M. girò anche Catene, che avrebbe dato inizio al suo periodo mélo portandolo per alcuni anni ai vertici nell’apprezzamento del pubblico e nel box office e contestualmente provocando il giudizio unanimemente contrario della critica contemporanea.
Sembra che il M. avesse pensato a questo vecchio soggetto di L. Bovio (la felicità di una famigliola di semplice estrazione – lui è meccanico – viene messa in crisi dalla presenza di un ex fidanzato, forse amante, della donna che viene da lui ricattata; la situazione precipita e implode con l’assassinio dell’uomo da parte del marito, il quale, fuggito in America viene ripreso e condannato. La donna, benché innocente, si confessa adultera per configurare il delitto d’onore che salverà il marito dal carcere, infine la coppia si riunisce accanto al figlioletto), ma non ne fosse pienamente convinto; consigliato da M. Monicelli e Freda, lo presentò alla Titanus di G. Lombardo che lo accettò di buon grado. Particolarmente felice si rivelò la scelta dei protagonisti: il virile A. Nazzari, già celebre presso le platee italiane, e una nuova stella, Yvonne Sanson, non italiana ma perfettamente in linea con il tipo fisico delle «maggiorate» di moda, all’epoca, nel nostro cinema.
A questo primo exploit seguirono per circa cinque anni altri successi siglati dalla regia del M., e spesso con la stessa coppia di protagonisti, tutti incentrati sul classico repertorio di «matrimoni ostacolati, colpe presunte o reali, rapimenti, agnizioni, violenze, testimonianze inaspettate, scioglimenti improvvisi delle vicende» (Prudenzi, p. 43): Tormento (1951, questa volta con soggetto e sceneggiatura del M.); I figli di nessuno (1951); Chi è senza peccato (1952); La schiava del peccato (1954, con Silvana Pampanini al posto della Sanson); Torna! (1954); Vortice (1954, Pampanini e M. Girotti); Angelo bianco (1955, un vero e proprio sequel de I figli di nessuno).
Il genere, nato da un’antica e talvolta illustre tradizione che includeva il melodramma musicale, il romanzo d’appendice ottocentesco italiano e straniero, il romanzo larmoyant, coniugati con l’appeal della cronaca nera a sfondo sentimentale e sessuale (dopo i silenzi imposti sull’argomento dalla censura fascista), incontrava evidentemente il gusto di un pubblico semplice e di fatto molto più ampio di quanto si volesse riconoscere (come dimostravano i coevi successi del genere nel cinema hollywoodiano, per non parlare della diffusione del fotoromanzo), poiché da molti era sentito e condiviso il fascino della passione infelice, contrastata, spesso impossibile, che rende il normale sentimento d’amore «più grande del vero», mitico e memorabile.
Lo specifico successo del M. nasceva, in parti uguali, dalla sua capacità di aderire sinceramente alla materia trattata senza remore o snobismi (ci sono numerose testimonianze che il M. talvolta aveva le lacrime agli occhi, mentre girava il film), rispettando sia il suo lavoro sia il suo pubblico; e, ben più significativamente, dal suo modo di affrontare la materia con una sorta di «dimessa semplicità», portando le linee narrative e i personaggi alla massima essenzialità, cui corrispondeva una speculare semplicità della cifra stilistica fatta di primi piani sul volto degli attori, campi medi, uso significativo del contrasto nel bianco e nero e di una dominante quando cominciò a usare il colore. Con il procedere della produzione si venne anche evidenziando la specifica chiave melodrammatica che interessava il M., non solo melodramma di sentimenti eminentemente patetico, ma, in particolare, melodramma sulla condizione femminile nell’ambito della famiglia, con particolare riguardo alle relazioni prematrimoniali, alla situazione delle ragazze madri, l’orgoglio e la gelosia femminili, l’irresponsabilità maschile.
Quando il clima sociale che favoriva questo genere di spettacolo cambiò, con il modificarsi dei costumi in un’Italia che procedeva verso il miracolo economico, anche l’interesse del pubblico diminuì. Il M., da quel sensibile uomo di cultura che sicuramente era, lo comprese e cercò di cambiare strada, purtroppo inascoltato dai produttori che continuarono a sfruttare il filone finché fu possibile per poi lasciarlo cadere insieme con il regista, oramai, volente o nolente, identificato con esso (si veda la polemica, con vari interventi e a varie riprese, nelle pagine de L’Unità fra il novembre 1955 e l’aprile 1956, in particolare la risposta del M. il 12 dic. 1955).
Della produzione del M., fino al 1957, oltre ai titoli già ricordati vale la pena di citare la biografia di Giuseppe Verdi (1953), cui il M., pur subentrando nella regia, a lavorazione avanzata, a G. Gentilomo, seppe comunque attribuire una propria specificità non solo sottolineando il carattere mélo e per l’effettivo incontro tra il genere cinematografico e una delle sue principali fonti di riferimento, il melodramma musicale; ma soprattutto perché egli sembra identificarsi nell’artista Verdi costretto dal «mercato» a dedicarsi a una produzione che non ama e che non sente. Ancora, La nave delle donne maledette (1954, sceneggiato dal M. con De Benedetti e E. De Concini, prodotto dalla Ponti - De Laurentis), ambientato nel Settecento, in cui si seguono le vicende, al solito complicatissime, di un battello di deportate, e che si caratterizza per una sorta di gusto dell’eccesso: «erotismo, sadismo, personaggi, situazioni limite, claustrofobia» (Morandini, Dizionario dei film 1999, s.v.) non abituale al M., molto apprezzato dalla critica straniera, soprattutto francese, che vi volle vedere una qualche parentela con un barocchismo alla E. von Stroheim, quando di fatto l’interesse del M. per il feuilleton anche in questo caso non si rivolgeva al suo lato fantastico ma, come d’uso, a quello patetico. Infine La risaia (1955, con Elsa Martinelli e R. Battaglia), tentativo più legato al desiderio del M. di uscire «all’aria aperta» in un ambiente naturale, per tentare di allargare i limiti abituali del genere a cui si sentiva oramai incatenato (e il fatto che si trattasse del suo primo cinemascope modificò anche il modo di girare, obbligandolo ai campi lunghi e a limitare i primi piani), che non al tentativo di inserirsi nel mélo neorealista alla G. De Santis.
Dopo il 1957 l’attività del M. si ridusse drasticamente; non aveva mai avuto la stima della critica – che lo avrebbe rivalutato solo dopo la metà degli anni Settanta, nell’ambito di una globale revisione del cinema di genere –, i produttori, cui aveva fatto guadagnare cifre enormi con le quali era stato possibile finanziare autori più blasonati, lo abbandonarono completamente. Girò dunque pellicole insignificanti quali Malinconico autunno, nel 1958, in Spagna, con la coppia Nazzari - Sanson; il musicale Cerasella (1960); Adultero lui adultera lei (1963); I terribili sette (1964). Diverso l’ultimo film, un insuccesso quasi interamente autofinanziato, Amore mio (1964), storia malinconica e crepuscolare, ma non drammatica, dell’amore di un malmaritato per una ragazza molto più giovane.
Il M. morì a Roma il 17 maggio 1966.
Fonti e Bibl.: Per una filmografia e un quadro critico completi si rimanda a R. M.: materiali, I, a cura di A. Aprà et al., Torino 1976 e anche A. Prudenzi, M., Roma 1991; vedi ancora: A. Aprà - C. Carabba, Neorealismo di appendice. Per un dibattito sul cinema popolare: il caso M., Rimini-Firenze 1976; L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di G. Fofi - F. Faldini, Milano 1979, ad ind.; G.P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Roma-Bari 1991, ad ind.; C. Terron, Poltrona al buio, a cura di A. Pesce, Milano 1996, ad ind.; La fortuna del melodramma, a cura di O. Caldiron, Roma 2004, ad indicem.