SANTI, Raffaello
SANTI (Sanzio), Raffaello. – Nacque a Urbino il 28 marzo o il 6 aprile 1483: la prima data si basa sulla testimonianza vasariana («Nacque adunque Raffaello in Urbino [...] l’anno 1483, in Venerdì Santo a ore tre di notte»: Vasari, 1550 e 1568, 1976, pp. 156 e 210), ma, prim’ancora, di Marcantonio Michiel (Diarii, in Cicogna, 1860, pp. 409 s.): «Morse a hore 3 di notte di Venerdì Santo venendo il Sabato, giorno della sua Natività»; la seconda risulta invece desumibile dall’epitaffio, redatto da Pietro Bembo o da Antonio Tebaldeo, per la tomba dell’artista nel Pantheon (Pagliaroli, 2013). Il padre, Giovanni Santi, era un pittore in rapporto con la corte dei Montefeltro, mentre la madre, Magia di Battista di Niccolò Ciarla, morì agli inizi di ottobre del 1491, probabilmente dando alla luce una bambina, scomparsa alla fine dello stesso mese.
Nel testamento di Giovanni Santi, redatto in tre versioni tra il 26 e il 29 luglio 1494, risultano nominati eredi universali il figlio undicenne e il fratello Bartolomeo di Sante: tra i testimoni sono presenti lo scultore e architetto milanese Ambrogio Barocci, attivo nel cantiere del palazzo ducale di Urbino, e il pittore Evangelista da Pian di Meleto, principale collaboratore del padre di Raffaello. Giovanni morì il 1° agosto 1494: negli anni successivi una causa legale, per controversie ereditarie, contrappose Raffaello e lo zio Bartolomeo di Sante a Bernardina di Piero di Parte, seconda moglie di Giovanni.
Il padre dovette offrire al giovanissimo Raffaello un decisivo stimolo intellettuale, incarnando il modello, tutt’altro che consueto nella società quattrocentesca, di pittore consapevolmente colto, capace di rivelare notevoli ambizioni letterarie, sia come uomo di teatro, sia come vero e proprio poeta in volgare. In particolare è la sua opera più impegnativa, il poema in terza rima La vita e le gesta di Federico da Montefeltro duca di Urbino, poema in terza rima, redatto negli anni Ottanta del Quattrocento (Città del Vaticano 1985), a rivelare pienamente l’ampiezza della sua cultura, non solo figurativa (palese nei versi della cosiddetta Disputa de la pictura, dove viene disteso un ampio periplo del panorama artistico quattrocentesco), e la capacità di orientamento incarnata da questa originale figura di artista-letterato.
Il 10 dicembre 1500 «Rafael Johannis Santis de Urbino», già definito «magister» (Magherini Graziani, 1908, pp. 88 s.) pur non avendo ancora compiuto diciotto anni d’età, ed Evangelista da Pian di Meleto, che doveva avere circa quarant’anni, siglarono con Andrea Baronci il contratto per l’esecuzione di una pala d’altare per la cappella di famiglia nella chiesa di S. Agostino a Città di Castello; il 13 settembre 1501 i due pittori ricevettero da Baronci il saldo di 16 ducati per il completamento dell’opera, identificabile con l’Incoronazione di s. Nicola da Tolentino, danneggiata da un terremoto nel 1789, di cui sopravvivono quattro frammenti, due a Napoli (Museo nazionale di Capodimonte), uno a Parigi (Musée du Louvre) e uno a Brescia (Pinacoteca Tosio Martinengo).
Se l’alunnato di Raffaello nella bottega del Perugino (tuttora oggetto di discussione), ricordato per la prima volta da Giorgio Vasari nelle Vite del 1550, non risulta documentato, intorno al 1502 l’artista fu sicuramente in rapporto con Bernardino Pinturicchio: collaborò, a Siena, alla progettazione degli affreschi raffiguranti una serie di episodi della vita di Enea Silvio Piccolomini per la Libreria Piccolomini nel duomo, commissionati a Pinturicchio il 29 giugno 1502 dal cardinale Francesco Todeschini Piccolomini; realizzò «con grandissimo amore» (Bottari - Ticozzi, 1822, p. 393) la predella per una pala d’altare perduta di Pinturicchio per Filippo Sergardi dedicata alla Natività della Vergine, già nella chiesa di S. Francesco nella medesima città; infine, fornì disegni per l’Incoronazione della Vergine dipinta, tra il 1503 e il 1505, da Pinturicchio e da Giovan Battista Caporali per S. Maria della Pietà a Umbertide (Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca; Raphael, die Zeichnungen, 1983, catt. 56-57; Joannides, 1983, catt. 60-61).
Nel gennaio e nel marzo del 1503 Raffaello risiedette a Perugia; l’indicazione «MDIII» compare nell’iscrizione incisa sull’altare della cappella di S. Girolamo nella chiesa di S. Domenico a Città di Castello, già decorato dalla Crocifissione Mond (Londra, National Gallery), un’opera firmata da Raffaello e commissionata da Domenico de’ Gavari. Il 12 gennaio 1504 Raffaello è ricordato in un documento notarile come «abitante a Perugia»; l’indicazione «MDIV» compare, insieme alla firma, nello Sposalizio della Vergine (Milano, Pinacoteca di Brera), realizzato, su commissione di Filippo di Lodovico Albizzini, per la cappella di S. Giuseppe nella chiesa di S. Francesco a Città di Castello.
Se già il foglio di Lille con studi per l’Incoronazione di s. Nicola da Tolentino (Musée des beaux-arts, inv. PL 475), del 1500-01 circa, mostra un precoce interesse per l’architettura (uno schizzo di un porticato, in basso a destra: Raphael: from Urbino to Rome, 2004, trad. it. 2004, scheda 17 e nota 1, p. 103), lo Sposalizio della Vergine, restaurato nel 2008-09, rivela già, nelle proporzioni della tavola e nel tempio dello sfondo – esadecagonale, cupolato, rinforzato agli spigoli del tamburo da contrafforti a voluta, circondato da un portico ad archi su colonne ioniche –, una sensibilità architettonica unita a competenze teorico-pratiche e prospettiche dovute alla formazione urbinate (nella ricca biblioteca di Federico da Montefeltro si conservava una copia del De prospectiva pingendi di Piero della Francesca). È verosimile, inoltre, che Raffaello fosse al corrente sia del bramantesco tempietto di S. Pietro in Montorio a Roma (commissionato nel 1502 e concluso attorno al 1508-09) sia dei suoi antecedenti martiniani (Rosenthal, 1964; De Vecchi, 1996). Il tempio dello Sposalizio colloca l’Urbinate all’apice della ricerca pittorica sul tema della pianta centrale, indagato da non pochi artisti, in specie dal Perugino e da Luca Signorelli.
La disponibilità intellettuale del giovane Raffaello, evidenziata già da Paolo Giovio quando, a metà degli anni Venti del Cinquecento, apriva la Raphaelis Urbinatis vita (il più antico tentativo biografico dedicato all’artista) sottolineando la «meravigliosa amabilità e alacrità di un talento duttile» (Giovio, 1525-1526 circa, 1999, pp. 260 s.), emerge dalle opere del cosiddetto periodo umbro (1500-04 circa), dove spicca l’ampiezza del dialogo e del confronto intrattenuti con le più moderne esperienze figurative maturate negli anni precedenti in Italia centrale (documentabili mediante vari fogli del cosiddetto Libretto veneziano di Raffaello, conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia: Gallerie dell’Accademia..., 1984, pp. 13-140): Perugino, Pinturicchio e Signorelli, ma anche le antichità di Roma, le stampe mantegnesche, i ritratti fiamminghi dello Studiolo di Urbino e le rivoluzionarie idee leonardesche a Firenze.
Nell’autunno del 1504 Raffaello si trasferì a Firenze, per quanto la celebre lettera di presentazione al gonfaloniere Pier So-derini, da parte della duchessa Giovanna Feltria Della Rovere, in data 1° ottobre, pubblicata per la prima volta da Giovanni Gaetano Bottari nel 1754 (Raccolta di lettere sulla pittura..., I, pp. 1 s.), sia stata ritenuta da alcuni studiosi un falso settecentesco.
Il 12 dicembre 1505 Raffaello siglò un contratto per realizzare, in collaborazione con Berto di Giovanni, una pala d’altare per la chiesa del convento delle clarisse di S. Maria di Monteluce, fuori dalle mura di Perugia: la cosiddetta Pala di Monteluce (Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca), raffigurante l’Incoronazione della Vergine, che avrebbe dovuto essere finita entro due anni: avviata da Raffaello, venne in realtà conclusa solo tra il 1523 e il 1525, dopo la morte dell’artista, da Giulio Romano e Giovan Francesco Penni (Sartore, 2011; Pasti, 2012). L’indicazione «MDV», che compare sotto alla Trinità e santi affrescata da Raffaello nella chiesa perugina di S. Severo, è contenuta in un’iscrizione che fu integrata dal Perugino nel 1521, una volta conclusa l’opera con i sei Santi del registro inferiore.
La data «MDV» (o «MDVI»?) figura sulla Pala Ansidei (Londra, National Gallery), commissionata probabilmente dai fratelli Niccolò e Giovanni Ansidei per la cappella di S. Nicola di Bari nella chiesa di S. Fiorenzo a Perugia; l’indicazione «MDV» (o «MDVI»?) è presente anche sulla Madonna del prato (o del Belvedere; Vienna, Kunsthistorisches Museum), dipinta forse per il fiorentino Taddeo Taddei.
Fu allora che cominciarono anche i primi accrediti letterari del giovane pittore, che visse la propria breve, ma intensa stagione cortigiana, a contatto con i raffinatissimi ambienti culturali delle corti dei Montefeltro a Urbino e degli Este a Ferrara (Agosti, 2003; Ballarin, 2010): in un abbozzo poetico del 6 dicembre 1506 (rielaborato nel sonetto del 1513 Ecco la bella fronte) Baldassarre Castiglione, da Londra, dove si trovava per ricevere l’Ordine della giarrettiera per conto del duca Guidubaldo da Montefeltro, si rivolgeva al ritratto della duchessa Elisabetta Gonzaga, opera di Raffaello, da lui posseduto (da identificarsi ipoteticamente con il dipinto realizzato intorno al 1503-04 e conservato oggi a Firenze, Galleria degli Uffizi). Al 1506 o prima del 1508 sono riferiti gli studi del Pantheon (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 164 Ar-v) certamente non realizzati dal vero, come ha invece supposto John Shearman (1977), ma copiati dal Codex Escurialensis (Thoenes, 2005) o dallo stesso modello cui aveva guardato l’autore del codice della Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo del Escorial (Frommel, 1984a).
Nel maggio del 1507 Raffaello, a Urbino, realizzò per Elisabetta Gonzaga un Cristo nell’orto degli ulivi (perduto), ricordato in una lettera di Pietro Bembo («una imagine [...] per mano d’un gran maestro della pittura», Bembo, 1548, p. 361) come dono a Don Michele di Ventura Pini di Camaldoli; il 25 ottobre Giovanni Martino Spanzotti accompagnò una copia di una Madonna fiorentina con una lettera da Chivasso a Carlo II duca di Savoia nella quale parlava del «tabuleto con la ymagine de la Madonna supra picto a la similitudine di quella florentina che V. S.ria me remise in le mane» (Baudi di Vesme, 1920, p. 6), opera identificabile con la Madonna di Orléans di Raffaello (Chantilly, Musée Condé). Nello stesso anno Raffaello firmò e datò il Trasporto di Cristo per la cappella di S. Matteo nella chiesa perugina di S. Francesco al Prato, tavola centrale della pala commissionatagli, forse nel 1504, da Atalanta Baglioni (la cosiddetta Pala Baglioni, restaurata nel 2005, Roma Galleria Borghese), e la Sacra Famiglia con l’agnello (Madrid, Museo nacional del Prado). L’indicazione «MDVII» compariva sul verso di una perduta effigie in miniatura del padre Giovanni Santi, in un’iscrizione che testimoniava come questo dipinto si trovasse nel 1520 nella collezione del banchiere fiorentino Bindo Altoviti (Raphael..., 2003, pp. 66 s., 95) – quest’ultimo ritratto da Raffaello attorno al 1516 (Washington, National Gallery of art, Samuel H. Kress Collection) –, e probabilmente anche sulla Madonna con il Bambino e s. Giovannino, la cosiddetta Belle Jardinière (Parigi, Musée du Louvre; Shearman, 2003, 1508/3, legge «MDVIII»).
Il 21 aprile 1508 Raffaello scrisse allo zio materno Simone Ciarla a Urbino, compiangendo la morte del duca Guidubaldo, raccomandando di onorare degnamente l’imminente visita nella città marchigiana di Taddeo Taddei, riflettendo sul prezzo della Madonna del baldacchino (Firenze, Galleria Palatina) e chiedendo, per il tramite dello scultore Giovan Cristoforo Romano, una lettera di presentazione del duca Francesco Maria Della Rovere al gonfaloniere Pier Soderini, in vista di «una certa stanza da lavorare» (Pelli Bencivenni, 1779, p. 138; Shearman, 2003, I, pp. 21 s.). Commissionata nel 1506 o nel 1508 da Bernardo Dei per la sua cappella in S. Spirito, la Madonna del baldacchino reca un potente sfondo architettonico (un’abside con catino a lacunari e rosette, paraste e semicolonne corinzie con capitelli a foglie lisce) che rinvia al Pantheon (Frommel, 1984a e 2002) e anche all’architettura della stessa basilica brunelleschiana che la accoglieva (Thoenes, 2005). Tra il maggio e il luglio del 1508 due pagamenti a un «Raffaello di Giovanni dipintore» (verosimilmente da identificarsi con il Santi; Caglioti, 2000, pp. 336-338; Shearman, 2003, 1508/2; Caglioti, 2005) documentano l’esecuzione della doratura di una ghirlanda di metallo per coprire la nudità del David di Michelangelo Buonarroti e di una Madonna col Bambino per la sala dell’udienza dei Nove in Palazzo Vecchio (ipoteticamente identificabile con la Grande Madonna Cowper o Madonna Niccolini-Cowper della National Gallery of Art di Washington, datata «MDVIII»).
Negli anni del cosiddetto periodo fiorentino (1504-08 circa) la cultura del giovane Raffaello matura improvvisamente a contatto con la grande tradizione quattrocentesca toscana (Masaccio, Donatello e Luca Della Robbia) e con le primissime novità della ‘maniera moderna’, ravvisabili nelle opere di Piero di Cosimo, Fra Bartolomeo, Leonardo da Vinci e Michelangelo. Se nella ritrattistica il confronto decisivo è con la rivoluzione psicologica ravvisabile nei dipinti leonardeschi, il Trasporto Baglioni instaura un confronto a tutto campo con i capolavori scultorei e pittorici della giovinezza michelangiolesca.
Anche il momento del trasferimento di Raffaello a Roma non è conosciuto con sicurezza: la celebre lettera dell’artista da Roma, datata 5 settembre 1508, a Francesco Francia a Bologna è stata convincentemente giudicata un falso seicentesco prodotto da Carlo Cesare Malvasia (1678, p. 45). Il primo pagamento a Raffaello per lavori nei palazzi vaticani è datato 13 gennaio 1509: vengono versati 100 ducati «ad bonum comptum picture camere de medio eiusdem Santitatis testudinate» (Golzio, 1936, p. 370), e cioè per decorazioni ad affresco (nella volta e probabilmente sulla parete con la Disputa del Sacramento) realizzate in quella che oggi è nota come stanza della Segnatura. Intorno al 1509-10 si datano alcuni tentativi poetici di Raffaello: cinque sonetti petrarcheschi riportati su una serie di disegni in rapporto con la Disputa del Sacramento e con il Parnaso affrescati nella stanza della Segnatura. La prima sicura attestazione dei rapporti intrattenuti da Raffaello con Agostino Chigi il Magnifico è costituita da un pagamento, il 10 novembre 1510, di 25 ducati da parte del banchiere senese all’orafo perugino Cesarino Rossetti per due tondi di bronzo (conservati oggi all’abbazia di Chiaravalle), «secundum ordinem et formam eidem dandam per magistrum Raphaelem Johannis Sancti de Urbino pictorem» (Fea, 1822, p. 81).
Il 12 luglio 1511 Giovan Francesco di Luigi Grossi, detto il Grossino, scrivendo da Roma a Isabella d’Este a Mantova, la informò che «il papa [...] anchor in Palazo fa depinzer due camere [le stanze oggi dette della Segnatura e di Eliodoro] a un Rafaello de Urbino, che ha gran fama di bon pictore in Roma, qual son beletissime» (Shearman, 2003, 1511/1); il 16 agosto del medesimo anno il Grossino, dopo aver ricordato con un sorprendente errore anche la prima porzione della volta michelangiolesca della cappella Sistina come opera di Raffaello, dette notizia a Isabella che Giulio II aveva espresso la volontà che il figlio della marchesa, l’undicenne Federico Gonzaga ostaggio presso la corte papale dall’anno precedente, venisse ritratto dall’Urbinate «in una camera che fa depinzer in Palazo dove è anchora Sua Santità dal natural con la barba» (I, p. 5 e 1511/2; in questo caso è incerto se il riferimento sia a un affresco nella stanza della Segnatura o in quella di Eliodoro). Il 4 ottobre 1511 Raffaello, «Johannis de Urbino scolari», fu nominato da Giulio II «scriptor brevium apostolicorum» per garantirgli una comoda e continua fonte di sostentamento economico. Nel novembre dello stesso anno Raffaello fu in rapporto con l’architetto e pittore senese Baldassarre Peruzzi, con il quale di lì a poco avrebbe collaborato nel cantiere della villa di Agostino Chigi. È probabile (Frommel, 2002) che proprio al 1511 risalgano, inoltre, gli incarichi per le stalle Chigi, presso la Farnesina, e per la cappella Chigi in S. Maria del Popolo. Alle prime si lavorò fino al 1518 e, ancora, nel 1520 (un pagamento all’architetto Giovanni di Antonio di Cristoforo Pallavicini è registrato alla data del 23 maggio 1514). Il 30 aprile 1518 Agostino Chigi ricevette papa Leone X proprio nelle scuderie per un celebre banchetto, prima che l’edificio, abbattuto nel 1808, «equorum usui cederet» (Biblioteca apostolica Vaticana, Chig. a.I.1; Frommel, 1973; Coffin, 1979). L’ordine dorico del basamento, i cui resti ancora si vedono in via della Lungara, è ripreso dal tempio di Minerva nel foro di Nerva (Burns, 1984). Due iscrizioni nella stanza della Segnatura, nell’intradosso delle finestre delle pareti dedicate al Parnaso e alla Giustizia, suggeriscono, per la conclusione della decorazione ad affresco di queste porzioni dell’ambiente, l’ottavo anno del pontificato di Giulio II (e cioè il periodo tra il 1° gennaio e il 25 novembre 1511).
Gli affreschi realizzati da Raffaello nella stanza della Segnatura (1508-11 circa) rappresentano un culmine assoluto del primo classicismo cinquecentesco e costituirono, per secoli, un modello di armonica fusione non solo tra le varie maniere italiane, ma anche tra la lingua figurativa moderna e quella esemplare degli antichi: si tratta di opere fondamentali, in cui Raffaello cominciò a mettere a punto quella «emulsione meditatissima, dapprima tra le varie parlate italiane, poi tra latinità e italianità, tra storia e natura, che pare talvolta ai semplici un facile accomodamento ed è invece un apice di gusto e di genio» (Longhi, 1940, 1956, p. 160). L’architectura picta nella prima delle Stanze rivela, inoltre, il forte interesse per l’Antico che Raffaello seppe far rivivere, rielaborandolo, più d’ogni altro suo contemporaneo. E se la grandiosa architettura della Scuola d’Atene, pur citando il cassettonato del catino absidale della campata centrale (delle tre che rimangono) della basilica di Massenzio, ripropone criticamente lo stile di Bramante, come si era manifestato in particolare nel nuovo S. Pietro e nel cortile del Belvedere, nella Consegna delle decretali il catino a lacunari in forma di losanghe rinvia a quegli stessi della doppia abside del tempio di Venere e Roma (Burns, 1984).
Il 24 maggio 1512 Isabella d’Este scrisse a Matteo Ippolito a Roma, chiedendogli di far eseguire da Raffaello un ritratto del figlio Federico, «dal pecto insuso armato. E quando no gli fusse Raphaelle, ritrova il miglior dopo di lui, ché per farlo ritrare a pictore triviale non volemo, desideranda haverlo di mano di bon maestro» (Luzio, 1886, p. 548). L’11 luglio del medesimo anno una lettera del Grossino a Isabella informa che Alfonso I, duca di Ferrara, quel giorno si era recato a visitare in Vaticano l’appartamento Borgia decorato da Pinturicchio per Alessandro VI e a incontrare Michelangelo sui ponteggi della Sistina, evitando di recarsi nelle stanze «che dipingie Rafaello», avendo avuto «grandissimo rispecto andar i[n] la camera dove dormea il Papa» (Menegatti, 2007, pp. 12 s.); due giorni prima, comunque, Alfonso I aveva accompagnato il pontefice nelle sue camere private, dopo il concistoro pubblico del 9 luglio, potendo così verosimilmente vedere gli affreschi realizzati da Raffaello nella stanza della Segnatura, già conclusa, e in quella di Eliodoro, solo avviata (Farinella, 2014, p. 686 nota 42 e pp. 820 s.). Un’iscrizione nella stanza di Eliodoro, nell’intradosso della finestra della parete della Messa di Bolsena, cita, come indicazione cronologica per il completamento di questa parte della decorazione dell’ambiente, il nono anno del pontificato di Giulio II (e cioè il periodo tra il 1° gennaio e il 25 novembre 1512).
Dopo il 24 giugno 1512, quando la città di Piacenza, cacciati i francesi, decise di entrare a far parte dello Stato della Chiesa, e con ogni probabilità dopo il 26 luglio, quando l’ambasceria piacentina fu ricevuta in concistoro da Giulio II, Raffaello dovette ottenere l’incarico di dipingere la Madonna Sistina (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister) per la chiesa di S. Sisto: il dipinto (privo di qualsiasi documentazione contemporanea) fu compiuto verosimilmente prima della morte del pontefice (21 febbraio 1513) e sicuramente prima del ritorno di Piacenza sotto il regime sforzesco (il 6 marzo 1513 Massimiliano Sforza, duca di Milano, scortato da Raimondo de Cardona, viceré di Napoli, e da 1500 cavalieri e 10.000 fanti spagnoli, rioccupò la città padana, rendendo quindi inopportuno l’arrivo di un’opera così dichiaratamente celebrativa della committenza pontificia roveresca; Farinella, in corso di stampa).
Agli inizi di gennaio del 1513 il ritratto di Federico Gonzaga commissionato da Isabella d’Este risultava cominciato, ma venne interrotto nel febbraio a causa della morte di Giulio II: questo dipinto, oggi perduto, fu comunque portato a compimento, come dimostra una lettera di Baldassarre Castiglione al marchese di Mantova del 1° gennaio 1521 (Castiglione, 2016, I, lettera 480), e quindi inviato a Mantova nel febbraio di quell’anno. Il 7 luglio 1513 Raffaello venne pagato 50 ducati dal tesoriere papale Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena, per un incarico non specificato. Il 12 settembre dello stesso anno il suo Ritratto di Giulio II (probabilmente quello a Londra, National Gallery), eseguito un paio di anni prima, venne esposto per otto giorni «su l’altar» della chiesa di S. Maria del Popolo: come riporta Marino Sanuto nei suoi Diari, riferendo il contenuto di una lettera di Vettor Lipomano, «tutta Roma core a vederlo; par uno jubileo, tanta zente vi va» (Sanuto, 1496-1533, 1898, col. 60).
Un’iscrizione nella stanza di Eliodoro, nell’intradosso della finestra della parete con la Liberazione di s. Pietro dal carcere, fornisce come indicazione per il completamento dei lavori di decorazione di questo ambiente il secondo anno del pontificato di Leone X (cioè il periodo tra il 19 marzo e il 31 dicembre 1514).
Gli affreschi della stanza di Eliodoro vedono una vera e propria sfida a tutto campo ingaggiata da Raffaello con i linguaggi figurativi del suo tempo: l’artista vuole dimostrare di padroneggiare contemporaneamente l’eroismo anatomico di Michelangelo, l’appassionato sentimento cromatico dei Veneti, la scioltezza narrativa e compositiva dei rilievi antichi e gli effetti luministici della pittura nordica. Una sfida che si avverte anche, in questi primi anni del secondo decennio, nel campo della ritrattistica e delle grandi pale d’altare, dove vengono raggiunti risultati che per secoli furono ritenuti «perfetti»: in realtà oggi Raffaello colpisce per la sua continua ansia sperimentale, che lo spinge a mettere costantemente in crisi i risultati conseguiti, per affrontare sempre nuove sfide intellettuali. Ancor più che nella prima stanza, in questa seconda aumentano i rinvii all’architettura contemporanea e a quella antica. Se la Messa di Bolsena è ambientata in un interno ispirato direttamente al calidarium delle terme di Diocleziano oltre che alla basilica di Massenzio (Ermers, 1909; Burns, 1984), la Cacciata di Eliodoro ricorda il progetto – non approvato – di Fra Giovanni Giocondo per la nuova S. Pietro e, nell’alternanza di cupole e volte a botte dal caldo colore dorato, gli interni della basilica di S. Marco a Venezia (Ermers, 1909; Wolff Metternich, 1972; Burns, 1984); nell’Incontro di Leone Magno e Attila, infine, è l’intera città di Roma che viene raffigurata e resa attraverso la precisa citazione dei suoi edifici antichi che ne definiscono l’identità più immediatamente riconoscibile, a partire dal Colosseo.
Il 23 maggio 1514 il vescovo di Adria, Beltrando Costabili, oratore estense a Roma, venne incaricato di versare 20 ducati d’oro a Raffaello per un compito non specificato. Il 19 giugno 1514 Raffaele Riario, cardinale di S. Giorgio, ottenne da Raffaello delle copie dei ritratti di Luigi e Ferrante Gonzaga realizzati da Francesco Bonsignori per Francesco Gonzaga. Il 1° luglio Raffaello scrisse allo zio «carissimo in locho de patre» (Pungileoni, 1829, p. 158) Simone Ciarla a Urbino, informandolo dei nuovi remunerativi incarichi affidatigli da Leone X: la responsabilità della Fabbrica di S. Pietro in collaborazione con l’anziano e «doctissimo» Fra Giocondo (come conseguenza della morte di Bramante), scomparso nel luglio 1515 e sostituito da Antonio da Sangallo il Giovane (a partire dall’autunno 1516), e l’avvio del cantiere decorativo di una nuova stanza dell’appartamento papale (identificabile con quella detta dell’Incendio di Borgo; le prime due stanze gli furono saldate prima del 1° agosto); Raffaello informò inoltre lo zio che il cardinale Bernardo Dovizi (ritratto dall’artista, con l’assistenza di un collaboratore, attorno al 1516, Firenze, Galleria Palatina di palazzo Pitti) gli aveva offerto in sposa una propria nipote, Maria o Marietta, che sarebbe forse morta prima dell’artista (sicuramente prima del 1° dicembre 1521; Pagliaroli, 2013). Secondo Vasari Raffaello avrebbe esitato ad accettare questo prestigioso matrimonio per la possibilità, ventilatagli dal pontefice, di diventare cardinale (Vasari, 1550 e 1568, 1976, pp. 208 s.). Il 1° agosto 1514 Raffaello venne nominato da Leone X architetto della Fabbrica di S. Pietro, carica già ottenuta de facto a partire dal 1° aprile e nell’agosto ufficialmente confermata, a seguito della presentazione di un proprio modello per la nuova basilica. Il 4 dicembre Alfonso I d’Este da Ferrara scrisse a Roma al fratello, il cardinale Ippolito, perché versasse a Raffaello 50 ducati come acconto per la realizzazione di un Trionfo indiano di Bacco per il cosiddetto camerino d’alabastro (il camerino delle pitture nell’appartamento privato ducale situato nella via Coperta): la commissione potrebbe risalire all’anno precedente, quando il duca, giunto a Roma per le cerimonie susseguenti all’elezione di Leone X, non attese, come dichiarato in una lettera di Mario Equicola (16 aprile 1513), «ad altro che ad far fare picture e vedere antichità» (Menegatti, 2002, p. 104).
Dopo il dicembre 1514, a Roma, successivamente al tracciato del nuovo vicolo di S. Eligio, furono iniziati – su commissione della corporazione degli orafi – i lavori per la chiesa di S. Eligio degli Orefici, il cui progetto, dall’originario impianto a croce non iscritta (Valtieri, 1984 e 1986), potrebbe risalire al 1512 (Frommel, 2002); un pagamento a Sebastiano Pellegrino da Como per lavori nella chiesa è registrato in data 11 settembre 1516. L’edificio fu completato nel 1538, mentre modifiche furono apportate da Flaminio Ponzio nel 1602-04.
Il 7 giugno 1515 Raffaello si impegnò a realizzare un ‘quadretto’ per Isabella d’Este: la marchesa, nel novembre, inviò all’artista, tramite Baldassarre Castiglione, una tela con le indicazioni delle misure e della fonte luminosa, ma verso la fine del 1519 l’opera (di cui non sono noti né il soggetto né il destino successivo) risultava non ancora conclusa. Il 15 giugno 1515 Raffaello ricevette il primo pagamento documentato per i cartoni degli arazzi della cappella Sistina (Londra, Victoria and Albert Museum), una nuova prestigiosa commissione di Leone X.
L’Incendio di Borgo e i cartoni per gli arazzi segnarono una nuova svolta nella lingua figurativa raffaellesca: secondo Roberto Longhi questo momento del percorso dell’Urbinate rappresenta «il più grande discorso che sia stato fatto in pittura nostra, l’oratoria rivolata a poesia» (Longhi, 1940, 1956, p. 160). In tali opere di alta enfasi declamatoria, venne messo a punto un linguaggio commovente e patetico, uno «stile tragico» che preludeva ai risultati protobarocchi degli ultimi dipinti raffaelleschi, mentre le citazioni dall’Antico diventavano pervasive sia nella stanza dell’Incendio sia nei cartoni (Shearman, 1972). Allo stesso tempo si consolidò l’interesse di Raffaello nei riguardi della teoria architettonica (tutti gli ordini greco-romani – dorico/tuscanico, ionico, corinzio e composito – sono raffigurati nell’Incendio), per la volontà e la necessità di padroneggiare la sintassi classica, dalla forte valenza normativa, conseguentemente all’assunzione della direzione della Fabbrica di S. Pietro.
Nella Leggenda anonima di Elena Duglioli, uno scritto agiografico redatto intorno al 1530, «la bella Cecilia», cioè la pala raffaellesca con l’Estasi di s. Cecilia (Bologna, Pinacoteca nazionale) per la cappella funeraria fatta costruire dal vescovo Antonio Pucci e dalla gentildonna Elena Duglioli dall’Oglio nella chiesa bolognese di S. Giovanni in Monte, viene detta iniziata nel 1513 e finita «nel mese di agosto 1515» (sulla controversa data d’esecuzione del dipinto cfr. Di Teodoro, 1998a e 2007).
Al 9 agosto 1515 risale la prima menzione di palazzo Alberini (Frommel, 1973 e 2010; Pagliara, 1990-1992), che, ancora in costruzione, venne affittato da Giulio Alberini ai banchieri fiorentini Bernardo da Verrazzano e Bonaccorso Rucellai. Pier Nicola Pagliara (1984a e 1986) fa risalire il progetto al 1514-15, mentre Christoph L. Frommel (1973) ha prima suggerito che Raffaello dovette intervenire nel 1518 su un edificio già iniziato da altri nel 1512-13, e più recentemente (2010) ha ritenuto che i lavori fossero iniziati su un primo progetto di Raffaello (forse assistito da Giulio Romano) del 1512-13, modificato dallo stesso artista nel 1517-18.
Il 27 agosto Leone X nominò Raffaello, mediante un breve redatto da Pietro Bembo, «praefectus marmorum et lapidum omnium», e cioè di tutti i marmi e le lapidi scavati a Roma, ed entro un raggio di dodici miglia dalla città, per rifornire di materiali la Fabbrica di S. Pietro, imponendo inoltre che ogni antica iscrizione venisse sottoposta all’artista prima dell’eventuale riutilizzo, affinché ne fosse valutata l’importanza per lo studio della letteratura e della lingua latina. Nel novembre del 1515 Raffaello risulta assente da Roma (Shearman, 2003, 1515/10; Perini Folesani, 2012): forse si era recato a Firenze con Leone X (o vi era stato convocato), in vista del progetto per la facciata della basilica di S. Lorenzo, e poi a Bologna, per l’incontro del pontefice con il re di Francia Francesco I. La data 1515 compare, di pugno di Albrecht Dürer, su un disegno preparatorio per la Battaglia di Ostia (Vienna, Graphische Sammlung Albertina, 17575), donato da Raffaello all’artista tedesco, e con ogni probabilità sulla copia del ritratto di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours (New York, Metropolitan Museum of Art). Intorno al 1515 si data la stesura della pagina introduttiva delle Prose della volgar lingua (pubblicate nel settembre del 1525), dove Bembo esalta paritariamente Raffaello, pittore e architetto, e Michelangelo, scultore e pittore, per la loro capacità di emulare le inarrivabili opere dell’antica Roma: «amendue sono ora così eccellenti e così chiari, che più agevole è a dire quanto essi agli antichi buoni maestri sieno prossimani che quale di loro sia dell’altro maggiore e miglior maestro».
Alla metà del secondo decennio del Cinquecento, una serie di stampe realizzate da Marcantonio Raimondi, Ugo da Carpi, Agostino Veneziano e altri incisori, traducendo composizioni raffaellesche, contribuirono a divulgare non solo in Italia, ma in tutta Europa, la fama delle modernissime invenzioni formali dell’Urbinate: si tratta di immagini che, per lo sfoggio di erudizione antiquaria, rivelano le nuove ambizioni «archeologiche» di Raffaello, rivolgendosi in particolare a un pubblico colto di letterati e di intellettuali.
Una lettera del 30 marzo 1516, di Carlo Agnello da Roma, informa Francesco Gonzaga a Mantova che Raffaello aveva cominciato a ritrarre l’elefante bianco Annone, donato al papa nel 1514 dal re del Portogallo, e forse anche un rinoceronte, che si diceva essere deceduto durante il viaggio via mare o fuggito dopo essere approdato nel porto di Livorno (Bedini, 1997): il dipinto dell’elefante (perduto) era probabilmente già concluso il 25 aprile. Nel giugno del medesimo anno il ritratto di Annone realizzato da Raffaello risulta ricordato nell’epitaffio fatto apporre sulla tomba dell’animale in Vaticano. Il 3 aprile 1516 Bembo scrisse da Roma al cardinale Bernardo Dovizi a Fiesole che il giorno successivo, insieme con Raffaello, Andrea Navagero, Agostino Beazzano e Baldassarre Castiglione, avrebbe fatto una gita a Tivoli per vedere «il vecchio et il nuovo, e ciò che di bello fia in quella contrada» (Bembo, 1548, pp. 83 s.). Per l’appunto alla primavera del 1516 si fa risalire il doppio ritratto del Navagero e del Beazzano (Roma, Galleria Doria Pamphilj), eseguito da Raffaello con la collaborazione di Giulio Romano (De Marchi, 2014), che Marcantonio Michiel vide in casa di Bembo a Padova attorno al 1530. Il 19 aprile, in un’altra lettera di Bembo al Bibbiena, viene ricordato il ritratto del poeta ferrarese Antonio Tebaldeo, eseguito da Raffaello (Meyer zur Capellen, 2008, cat. 75), come ancora più realistico di quelli di Castiglione (Parigi, Musée du Louvre) e di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours, scomparso il 17 marzo (una copia molto fedele dell’originale perduto è quella, già citata, a New York); inoltre, il pittore chiedeva, tramite Bembo, che gli fossero mandate le istruzioni («le altre historie») per le rimanenti scene da dipingere nella stufetta del cardinale Bibbiena (che risulta conclusa il 20 giugno; Nesselrath, 2013). Il 21 giugno 1516 fu rinnovato il contratto per la Pala di Monteluce, la cui prima redazione risaliva a undici anni prima, sempre in collaborazione con Berto di Giovanni. Il 4 luglio il muratore milanese Giovanni Antonio Foglietta ricevette un pagamento per il palazzo «noviter edificatum» di Iacopo da Brescia, medico di papa Leone X. L’edificio (già nell’angolo tra borgo Nuovo e borgo Sant’Angelo, smontato e traslato in angolo tra via Rusticucci e via Corridori dopo il 1937) insisteva su un lotto di terreno acquistato il 31 gennaio 1515 e finitimo a quello che nel settembre dell’anno precedente il pontefice aveva regalato a Giuliano da Sangallo. Quando Giuliano fece ritorno a Firenze, nel giugno 1516, la sua proprietà venne acquisita da Iacopo da Brescia (Frommel, 1973, 1984b, 2002). L’attribuzione del palazzo a Raffaello è relativamente recente (Hofmann, 1911; Frommel, 1973 e 1984b; Ray, 1974). Una serie di lettere, databili tra il 7 luglio e il 18 settembre, informa che Isabella d’Este era riuscita a entrare in possesso di due bacili d’argento dorato, «de desegno e fogia antiqua», realizzati a Roma (da un orafo che potrebbe essere Antonio da San Marino o Cesarino da Perugia) sulla base di disegni di Raffaello. Una lettera di Leonardo Sellaio da Roma a Michelangelo a Carrara, datata 22 novembre 1516, mentre informa l’artista che Antonio da Sangallo il Giovane era diventato aiuto di Raffaello nella conduzione della Fabbrica di S. Pietro, fornisce la prima notizia di un’attività scultorea dell’Urbinate: l’esecuzione di un modello in creta raffigurante un putto, di cui era stata quasi ultimata la traduzione in marmo da parte di Pietro d’Ancona, identificabile forse con il Pietro Stella documentato a Roma nel 1519 (in una missiva da Mantova dell’8 maggio 1523 ad Andrea Piperario Castiglione chiedeva notizie su «quel puttino de marmo de man de Raphaello», allora di proprietà di Giulio Romano; Castiglione, 2016, II, n. 1327). Il 20 dicembre 1516 è attestato il secondo pagamento noto per l’esecuzione dei cartoni per gli arazzi della Sistina. La data 1516 compare in un’iscrizione sui mosaici, basati su disegni di Raffaello, della cupola della cappella Chigi a S. Maria del Popolo, insieme alla firma del mosaicista veneziano Luigi da Pace. Acquisita nel 1507 una cappella all’interno della chiesa romana, Agostino Chigi la ricostruì per trasformarla in mausoleo per sé e la sua famiglia. Il nome di Raffaello, tuttavia, compare per la prima volta solo nel testamento di Agostino, redatto il 28 agosto 1519. Il progetto vien fatto risalire al 1511-12 (Bentivoglio 1984, e 1986; Frommel, 2002).
Il piccolo edificio a pianta centrale, di cui agli Uffizi si conservano due icnografie di Raffaello (Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 165A, 169A), è introdotto da un ornatissimo arco che si apre sulla navata laterale di sinistra della chiesa d’età sistina. La sua conformazione, con i quattro piloni smussati e dotati di nicchie, che sostengono la cupola emisferica su tamburo finestrato, attraverso la mediazione dei pennacchi, rimanda all’impianto bramantesco per la basilica di S. Pietro. I molteplici riferimenti all’Antico e soprattutto la qualità e varietà dei marmi impiegati per il completo rivestimento delle pareti e per i monumenti funebri portano la cappella a competere con il Pantheon, il suo modello e precedente più noto e fastoso. Per la prima volta in età moderna un’architettura rivaleggia con l’Antico non solo quanto a invenzione e spazialità, ma anche per l’ornamento (materia e livello esecutivo), potendo contare sull’enorme ricchezza (e intelligenza) del committente. Non solo, alla ripresa linguistica dell’Antico Raffaello ha accompagnato il recupero del mosaico, tecnica pittorica dell’eredità cristiana tardoantica.
Intorno al 1516, in una prima redazione del Cortegiano, Castiglione elencò il nome di Raffaello (insieme a Leonardo, Andrea Mantegna, Michelangelo e Giorgione) nel canone di coloro che «nella pittura sono excellentissimi». Sempre intorno al 1516 si datano il sonetto di Antonio Tebaldeo sul ritratto realizzatogli da Raffaello (paragonato a Zeusi e ad Apelle) e l’epigramma di Girolamo Borgia dove «Raphaelem Urbinatem pictorem nobilissimum» viene esaltato come «alter Apelles».
Il 19 gennaio 1517 Leonardo Sellaio da Roma scrisse a Michelangelo a Firenze, informandolo della competizione nata tra Raffaello e Sebastiano del Piombo a causa dei dipinti commissionati dal cardinale Giulio de’ Medici per la cattedrale di Narbonne, rispettivamente la Trasfigurazione (Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca) e la Resurrezione di Lazzaro (Londra, National Gallery; Wivel, 2017). Un’iscrizione sotto il Giuramento di Leone III nella stanza dell’Incendio di Borgo fornisce come indicazione cronologica il quarto anno del pontificato di Leone X (cioè prima del 19 marzo 1517): i lavori della stanza furono conclusi il 25 giugno. Dal marzo dello stesso anno, una fitta serie di lettere tra Beltrando Costabili e Alfonso I d’Este informa dei ripetuti tentativi fatti per convincere Raffaello, che svolgeva anche il ruolo di procacciatore di antichità per il duca di Ferrara, a tener fede all’impegno, preso già da alcuni anni, di produrre un Trionfo indiano di Bacco per il «camerino d’alabastro»; il 4 novembre l’ambasciatore, per placare l’impazienza del principe, sottolineava la capacità di Raffaello di trasformarsi e di migliorare continuamente: «dice le farà cosa molto excellente, il che io credo, perché a le opere sue si vede che sempre el megliora, e credo sarà stato meglio habbia differito sin qui al servire Vostra Celsitudine» (Venturi, 1919, p. 202). Nel settembre l’artista, venuto a conoscenza del fatto che il duca estense aveva fatto realizzare da Pellegrino da San Daniele un’opera basata sul disegno «in picola forma» da lui inviato a Ferrara, propose ad Alfonso di dipingere un altro soggetto, forse la Caccia di Meleagro ricordata nel febbraio del 1519 da Girolamo Bagnacavallo. L’opera non venne mai eseguita, ma Raffaello, per compiacere il duca sempre più spazientito, gli inviò i cartoni di tre sue importanti invenzioni: «una historia di papa Leone IIII.to», e cioè probabilmente il cartone preparatorio dell’Incendio di Borgo, nel novembre del 1517, oltre ai cartoni del S. Michele Arcangelo, nel settembre del 1518, e del Ritratto di Isabel de Requesens y Enríquez de Cardona-Anglesola, viceregina di Napoli, nel dicembre dello stesso anno. Il 30 luglio 1517 Antonio De Beatis, nel diario del viaggio europeo compiuto in qualità di segretario del cardinale Luigi d’Aragona, annotò di aver visto a Bruxelles, nella manifattura di Pieter van Aelst, gli arazzi per la Sistina in lavorazione e, come già compiuto e «bellissimo», quello raffigurante la Consegna delle chiavi a s. Pietro e «Pasce oves meas» (Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca), «dal quale el Signore fe’ juditio che saranno de’ più belli de’ Christiani» (Volpicella, 1876, p. 108). La data 1517 compare in un’iscrizione sul verso del ritratto di Valerio Belli (New York, collezione privata), eseguito da Raffaello: potrebbe trattarsi, secondo la testimonianza seicentesca di Girolamo Gualdo il Giovane, di un’opera donata al grande orefice e intagliatore vicentino come ringraziamento per aver tenuto a battesimo una figlia illegittima del pittore (di cui, tuttavia, non si hanno altre notizie).
Il 1517 è anche l’anno in cui Raffaello, il 7 ottobre, acquistò dai Caprini il loro palazzo tra il borgo Grande e la piazza di S. Giacomo Scossacavalli – edificato circa un decennio prima da Bramante, opera inaugurale della nuova architettura civile cinquecentesca romana – ed è anche l’anno probabile (forse 1516-17: Frommel, 1973; Pagliara, 1984b, 1986 e 2004) del progetto dell’unico palazzo raffaellesco costruito fuori Roma: palazzo Pandolfini su via S. Gallo, a Firenze. Eseguito da Giovan Francesco da Sangallo per Giannozzo Pandolfini, vescovo di Troia, una prima parte fu forse compiuta nel 1520 (oppure in quella data venne deciso il disegno esecutivo del prospetto), ma i lavori si protrassero a lungo, anche dopo la morte di Giannozzo (6 dicembre 1525; Ruschi, 1984). L’edificio, il cui progetto Pietro Ruschi (2013) anticipa al 1512, facendone uno dei primissimi esercizi architettonici di Raffaello, reca un forte carattere romano con evidenti rinvii – nelle finestre dei due piani – alle grandi edicole del Pantheon.
Nel febbraio del 1518 fu inviato in Francia il ritratto di Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino, commissionato a Raffaello, in previsione del matrimonio con Madeleine de la Tour d’Auvergne, parente del re Francesco I (New York, collezione privata, ex collezione Ira Spanierman). Il 1° marzo, in una lettera di Costabili ad Alfonso I, tra le cause del ritardo di Raffaello nella realizzazione dell’opera per la corte estense viene citata anche la commissione di un S. Michele Arcangelo per il re di Francia; il 23 marzo viene nominato, in una lettera di Baldassarre Turini da Roma a Goro Gheri a Firenze, un altro dipinto per la corte francese, la Sacra Famiglia di Francesco I (entrambe le opere, datate «MDXVIII», risultavano finite nel maggio e inviate in Francia nel giugno). Nel mese di marzo Raffaello ottenne un pagamento di 32 ducati per la decorazione delle logge Vaticane. Progettate da Bramante, che le condusse verosimilmente sino alla copertura della prima, le tre logge furono concluse da Raffaello, che ne ebbe incarico nella primavera del 1513 e che progettò la terza, occupandosi poi, con la sua bottega, dell’apparato ornamentale (affreschi e stucchi) dell’intero complesso (Denker Nesselrath, 1993). Il 5 agosto Luca d’Andrea Della Robbia il Giovane venne pagato 200 ducati per la realizzazione del pavimento di mattonelle in terracotta invetriata della seconda loggia o «di Raffaello».
Una lettera di Sebastiano del Piombo a Michelangelo, del 2 luglio 1518, informa che la Trasfigurazione non era ancora stata cominciata e che le due opere dipinte da Raffaello per la corte francese avevano un aspetto che, per il loro ostentato leonardismo («pareno figure che sieno state al fumo, o vero figure de ferro che luceno, tutte chiare e tutte nere», Gotti, 1875, II, p. 56), molto sarebbe dispiaciuto all’artista fiorentino. Nel luglio nacque una controversia tra i Conservatori e Raffaello per il possesso di una scultura antica (una Diana polimaterica posta su una base istoriata con una scena di sacrificio), già appartenuta a Gabriele de’ Rossi, morto l’anno precedente. Come conseguenza e in base al testamento di de’ Rossi, i Conservatori poterono impossessarsi della scultura (Golzio, 1936, pp. 7 s.). Agli inizi di settembre del 1518 fu inviato a Firenze il Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi (Firenze, Galleria degli Uffizi), giungendovi appena in tempo per il sontuoso banchetto dell’8 di quel mese, evento culmine dei tre giorni di pubblici festeggiamenti in onore di Lorenzo duca d’Urbino e Madeleine de la Tour d’Auvergne, il cui matrimonio era stato celebrato ad Amboise il 2 maggio 1518 (ritornato a Firenze, Lorenzo «fece di nuovo nozze e feste», come ebbe a scrivere Francesco Vettori, 1848, p. 328). Il dipinto, in assenza del pontefice, venne collocato «sopra alla tavola dove mangiava la Duchessa et li altri signori, in mezo, che veramente rallegrava ogni cosa», secondo le parole di Alfonsina Orsini in una missiva a Giovanni Lapucci da Poppi proprio dell’8 settembre (Firenze, Biblioteca Marucelliana, ms. B.III.66, c. 57). Diverse sono le interpretazioni del dipinto (Natali, 1997; Di Teodoro, 1998b e 2013; Minnich, 2003), pensato, inizialmente, con la sola figura del pontefice contro uno sfondo verde, sull’esempio del ritratto di Giulio II del 1512 (Londra, National Gallery), come ha rivelato il restauro del 1996 (Del Serra, 1996 e 1997).
Il 30 agosto 1518 Giovan Battista Branconio dell’Aquila, chierico, cubicolario e famigliare di Leone X, abate commendatario di S. Clemente a Casauria, amico di Raffaello, acquistò un lotto di terreno in borgo Nuovo, vicino a S. Pietro, per costruirvi il proprio palazzo. Conclusa la costruzione nel 1520, Giovan Battista – che, forse nel 1517, aveva commissionato, per farne dono al padre Marino, la Visitazione (Madrid, Museo del Prado), verosimilmente realizzata da Giulio Romano e da Giovan Francesco Penni (Raphaël, 2012, pp. 118-121) – poté abitarlo per poco tempo, morendo nel 1522. L’edificio venne distrutto nel 1667 per far spazio al colonnato berniniano di piazza S. Pietro.
Palazzo Branconio, la cui progettazione fu contemporanea a quella di villa Madama e alla conclusione dei lavori nelle logge Vaticane, era ispirato – rivisitandone l’esempio con raffinatezza – all’emiciclo del foro di Traiano. I numerosi rinvii all’optimus princeps sono quasi specchio delle virtù del «padre optimo», papa Leone, il cui stemma, affiancato da due aquile come nel basamento della colonna Traiana, campeggiava sull’asse principale del palazzo. Attraverso un’inedita commistione tra architettura, scultura e pittura la facciata dell’edificio può ben essere definita opera d’arte totale. L’acuta soluzione d’angolo rivela, infine, la personalità di un architetto capace di risolvere delicati e complessi problemi d’ordine compositivo (Pagliara, 1984c e 1986).
Il 1° gennaio 1519 Leonardo Sellaio da Roma scrisse a Michelangelo a Firenze che la volta della loggia di Psiche alla Farnesina era stata scoperta e che si trattava di «chosa vituperosa a un gran maestro, pegio che l’ultima stanza di palazo asai» (Gotti, 1875, II, p. 56); il 30 gennaio fu Gabriello Paccagli a scrivere a Michelangelo da Parigi, informandolo che Leone X aveva inviato al re di Francia tre dipinti di Raffaello (la Sacra Famiglia di Francesco I, il S. Michele Arcangelo e il Ritratto della viceregina di Napoli, che in realtà era un dono del cardinale Bibbiena). Nel febbraio Raffaello fu impegnato, su commissione del cardinale Innocenzo Cibo, nipote di papa Leone X, nell’allestimento delle scenografie per I suppositi di Ludovico Ariosto (commedia messa in scena il 6 marzo). Il 1519 (ma 1514-15 per altri, ad esempio Vincenzo Fontana e Paolo Morachiello, v. Vitruvio e Raffaello, 1975) fu verosimilmente l’anno della conclusione del volgarizzamento del De architectura di Vitruvio, commissionato da Raffaello a Marco Fabio Calvo da Ravenna (Shearman, 2003, 1519/13; Di Teodoro, Il Vitruvio di Fabio Calvo, in preparazione), poiché la lettera del 15 agosto 1514 con la quale Raffaello ringraziò l’erudito per l’invio della traduzione è un falso (già compreso da Wanscher, 1926). Fabio Calvo, ospitato in casa di Raffaello per l’occasione, poté cominciare a lavorare alla traduzione con assiduità solo dopo il 1° dicembre 1518, data di ultimazione della traduzione delle Epidemie di Ippocrate (iniziate il 10 novembre 1516). Prima ancora, dal 3 aprile 1510 all’8 luglio 1515, Fabio Calvo era stato impegnato nella traduzione del Corpus Hippocraticum e delle opere di Galeno, Oribasio, Melezio ed Esiodo (quest’ultimo pronto per la stampa il 1° gennaio 1519; Pagliara, 1976 e 2012; Gualdo, 1993).
La traduzione vitruviana, condotta sull’edizione veneziana di Fra Giocondo del 1511, è tramandata da due copie manoscritte nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera (Codd. It. 37 e It. 37a). La prima, ampiamente interpolata, ospita trentatré postille autografe di Raffaello, mentre la seconda si interrompe al primo capitolo del quinto libro (Vitruvio e Raffaello, 1975, con numerosi errori; Di Teodoro, 2003b; Id., Il Vitruvio di Fabio Calvo, in preparazione; Id., Raffaello legge Vitruvio, in corso di stampa: dello stesso autore, e per lo stesso soggetto, gli altri interventi nelle note bibliografiche in calce), mentre alcuni disegni del taccuino nella Biblioteca civica Passionei di Fossombrone (Disegni, III, ff. 38v-39r) suggeriscono che Raffaello stesse progettando un’edizione a stampa, illustrata, dell’antico trattato di architettura (Nesselrath, 1993), sull’esempio dell’edizione giocondina.
Entro il 1° marzo 1519 (Shearman, 2003, 1519/14) o dopo (Frommel, 1974) si data anche una lettera dell’artista (Lettera su Villa Madama: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo Avanti il Principato, f. 94, 162, copia unica da un antigrafo di Raffaello; Foster, 1967-1968; Frommel, 1984c; Di Teodoro, 2003a), ispirata alle descrizioni delle ville di Plinio il Giovane, sul progetto, commissionato da Leone X e dal cardinale Giulio de’ Medici, per villa Madama, celebrata in un poemetto latino di Francesco Sperulo (dove Raffaello viene paragonato ad Apelle; Shearman, 2003, 1519/15).
La villa è posta sulle pendici di monte Mario, tra il complesso del Vaticano e ponte Milvio, su un terreno acquistato da papa Leone X dal Capitolo di S. Pietro nel 1516. La sua costruzione venne iniziata nella tarda estate del 1518 (un primo documento riguardante materiali per il cantiere è datato 5 agosto di quell’anno), ma venne conclusa solo parzialmente. Il progetto – comprendente spazi abitativi (estivi e invernali), cortili, un teatro, una peschiera, fontane, giardini e stalle – è documentato da numerosi disegni e, in particolare, da tre conservati al Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi: 273A (di mano di Giovan Francesco da Sangallo), 314A (di mano di Antonio da Sangallo il Giovane) e 1356A (di mano di Raffaello). I primi due riguardano l’icnografia della villa, testimoniandone due diversi momenti progettuali e costruttivi, il terzo inerisce ai giardini terrazzati. Mentre la Lettera recupera la terminologia classica, la villa è quanto di più prossimo alla spazialità degli antichi edifici romani si sia mai saputo realizzare. In particolare, la loggia a tre campate che dà sul giardino, terminata prima della morte di Raffaello, e successivamente, tra il 1520 e il 1525, decorata a grottesche e a stucchi da Giovanni da Udine e da Giulio Romano, recuperando lo stile dell’ornamentazione della Domus aurea, si pone come raffinato esito delle esperienze romane dell’Urbinate e della sua scuola, dopo l’appartamento del cardinale Bibbiena (stufetta e loggetta) e le logge Vaticane (Coffin, 1967; Lefevre, 1969 e 1973; Frommel, 1975 e 1984c; Burns, 1984; Dewez, 1993; Di Teodoro, 2016; Id., “... un cortile tondo...”, in corso di stampa).
Il 1° aprile Raffaello ricevette un pagamento di 1500 ducati come «provisione» per aver ricoperto per cinque anni la carica di «architectore» della Fabbrica di S. Pietro. Il 4 maggio 1519 una lettera di Marcantonio Michiel da Roma al notaio Antonio Marsilio in Venezia informa che Raffaello aveva decorato, a quella data, «in palazo 4 camere dil Pontefice» (includendo nel numero, quindi, oltre alle stanze della Segnatura, di Eliodoro e dell’Incendio di Borgo, la sala dei Palafrenieri, detta anche del Pappagallo o dei Chiaroscuri, per gli affreschi monocromi realizzati dalla bottega entro il 1517) e «una loggia longissima» (cioè il secondo piano delle logge Vaticane; Fea, 1822, pp. 8 s.; Shearman, 2003, 1519/24). Tra il maggio e il giugno uno scambio di lettere tra Federico Gonzaga a Mantova e Baldassarre Castiglione a Roma informò che Raffaello aveva eseguito un progetto per la tomba del defunto marchese Francesco, che però non venne realizzato. L’11 giugno 1519 i «garzoni» di Raffaello, che «hanno dipinta la loggia», ricevettero un pagamento di 25 ducati. Il 16 giugno 1519 Castiglione, giunto a Roma nel maggio di quell’anno, in una lettera a Isabella d’Este, mentre dava notizia dei lavori in corso per villa Madama, annunciava la conclusione della decorazione di una loggia nei palazzi Vaticani: «Et hor si è fornita una loggia dipinta, e lavorata de stucchi, alla anticha, opera di Raphaello, bella al possibile, e forsi più che cosa che si vegga hoggidì de’ moderni» (Castiglione, 2016, I, n. 336). Una lettera di Marco Minio da Roma comunicò al Senato veneziano che il 4 luglio 1519 erano giunti dalle Fiandre i primi tre arazzi basati sui cartoni approntati da Raffaello e che l’artista si era offerto di erigere in piazza S. Pietro l’obelisco rinvenuto presso il mausoleo di Augusto (destinato poi a piazza del Popolo). Il 20 agosto una lettera di Alfonso Paolucci ad Alfonso I informò il duca della volontà di Raffaello di terminare al più presto l’opera per la corte estense e il desiderio dell’artista di «venir un giorno a star un mese con Vostra Excellentia» (Campori, 1863, p. 133) a Ferrara. Il 10 settembre il duca, sempre più spazientito, minacciò Raffaello di gravi conseguenze se non avesse tenuto fede a quanto promesso. Il 12 settembre Paolucci, recatosi a casa di Raffaello, citò come in esecuzione un ritratto di Baldassarre Castiglione, che deve essere un’altra versione rispetto a quella realizzata negli anni precedenti ed evocata in un’elegia, databile nell’estate del 1519, dove la moglie Ippolita cerca consolazione nel dipinto raffaellesco durante le lunghe assenze da Mantova del marito. Un passo del diario di Paride De Grassis annota che gli arazzi di Raffaello furono esposti il 26 dicembre nella cappella Sistina: «de quibus tota cappella stupefacta est in aspectu illorum, qui, ut fuit universale juditium, sunt res qua non est aliquid in orbe nunc pulchrius» (Shearman, 2003, 1519/65); il giorno successivo Marcantonio Michiel ricordava l’esposizione di sette arazzi («che furono giudicati la più bella cosa che sia stata fatta in eo genere a’ nostri giorni») e, parlando delle logge di Raffaello, il fatto che «il Papa vi pose molte statue che ’l teniva secrete nella salvaroba sua parte, e parte già avanti comprate per Papa Julio forsi a questo effetto»; nella medesima lettera viene ricordata anche la decorazione della loggia al primo piano, affidata da Raffaello a Giovanni da Udine nel 1519: «in questi giorni istessi fu fornita la loggia di sotto del Palazzo de le tre poste una sopra l’altra, rivolte verso Roma a greco, et era dipinta a fogliami, grottesche et altre simili fantasie assai vulgarmente, et con poca spesa, benché vistosamente. Il che si fece perché l’era comune, et dove tutti andavano, etiam cavalli» (Dacos - Furlan, 1987, p. 101).
In questi ultimi anni di attività Raffaello si era imbarcato nella sua impresa antiquaria più ambiziosa: la ricostruzione grafica, in pianta, in alzato e in sezione, dei principali monumenti delle quattordici regioni di Roma antica. Un progetto grandioso, sostanzialmente sfumato alla morte dell’Urbinate (con grande rimpianto degli umanisti), basato sullo scrutinio delle fonti letterarie classiche, su rilevamenti topografici e su vere e proprie indagini archeologiche condotte ad hoc.
Il 1519 è anche la data più verosimile per la prima redazione della cosiddetta Lettera a Leone X sull’architettura classica, a opera di Raffaello con il supporto letterario di Baldassarre Castiglione (l’autografo di Baldassarre, già nell’Archivio privato dei conti Castiglioni, acquisito dallo Stato italiano, dal 2016 si conserva presso l’Archivio di Stato di Mantova); al 1519-20 è databile, invece, una seconda redazione (Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. It. 37b; Thoenes, 1986; Di Teodoro, 2003a; Rowland, 1991 e 1994; per un inedito testimone della redazione di Mantova: Di Teodoro, 2015; Id., La lettera a Leone X [...]: edizione critica, in corso di stampa; Shearman 2003, 1519/70, con una nuova datazione al 1516, dopo una precedente che ne fissava l’anno al 1513, Shearman, 1977, con molti errori di trascrizione, non banali, e con un testo – un ipotetico «first draft», Shearman, 2003, 1516/13 – che non è mai esistito nella forma in cui è dato). La Lettera va collegata al progetto della ricostruzione grafica di Roma antica, affidato dal pontefice all’artista (per il quale si vedano: Nesselrath, 1986, e Denker Nesselrath 1993; Günther, 1988). L’umanista ferrarese Celio Calcagnini, a Roma dall’ottobre 1519, in una missiva a Jacob Ziegler esaltava Raffaello come «pictorum omnium princeps» (Calcagnini, 1544, p. 101), celebrando in particolare la sua ricostruzione di Roma antica.
In base al suo contenuto la Lettera a Leone X si può dividere in tre parti. Una prima, introduttiva, è inerente alle antichità («reliquie») di Roma e alla necessità di preservarle, una seconda costituisce un’ecfrasi storico-architettonica sull’esempio di quella presente nella Vita di Brunelleschi di Antonio di Tuccio Manetti, e una terza, decisamente più tecnica, che tratta del rilievo della città antica e degli edifici, per il tramite di uno strumento dotato di bussola magnetica, nonché della rappresentazione in pianta, alzato o «parete de fora» e sezione o «parete de dentro» di alcune architetture esemplari. In tal modo, per la prima volta, viene codificata una tecnica rappresentativa propria dell’architetto, quella delle proiezioni ortogonali. Non solo: i tre «modi» coincidono con la terna vitruviana ichnographia, orthographia, scaenographia (Vitr., I, 2, 2; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. It. 37, c. 9r), glossa marginale in cui la scenografia è intesa quale sezione), e ben possono essere interpretati quali recupero del modo di disegnare degli antichi (Di Teodoro, 2008b; Id., Raffaello legge Vitruvio, in corso di stampa).
Nelle ultime opere di Raffaello si coglie sempre più prepotente l’ambizione di porsi su un piano di emulazione nei confronti dei risultati, da molti ritenuti inarrivabili, conseguiti dagli artisti antichi: le decorazioni dell’appartamento del cardinale Bibbiena, della loggia di Psiche alla Farnesina e delle logge Vaticane rivelarono agli occhi dei committenti, degli umanisti e dei letterati presenti a Roma gli esiti sorprendenti conseguiti da un artista moderno che, come un nuovo Apelle, aveva riscoperto i segreti del linguaggio figurativo classico.
Il 20 gennaio 1520 Alfonso I d’Este si lamentò aspramente per il comportamento irrispettoso di Raffaello, a proposito del dipinto bacchico tante volte promesso e mai consegnato per il «camerino d’alabastro»; il 20 marzo una lettera da Roma di Alfonso Paolucci al signore di Ferrara lo informava che l’artista aveva preparato per il duca «tre o quatro» studi di camini che non fanno fumo (abilità che Raffaello aveva dimostrato nella progettazione di quelli di villa Madama).
Secondo la testimonianza del diario di Marcantonio Michiel, Raffaello morì la notte tra il 6 e il 7 aprile, a causa di una febbre «continua e acuta, che già octo giorni l’assaltò», come si apprende da una sconfortata lettera di Paolucci al duca di Ferrara (Campori, 1863, p. 138): «dolse la morte sua precipue alli litterati, per non haver potuto fornire la descrittione e pittura di Roma antiqua che ’l faceva, che era cosa bellissima [...]. Morse a hore 3 di notte di Venerdì Santo venendo il Sabato, giorno della sua Natività» (M. Michiel, Diarii, in Cicogna, 1860, p. 410).
Il 7 aprile 1520 Raffaello venne sepolto nella tomba che aveva acquistato al Pantheon, facendo restaurare un’edicola di quell’antico monumento che era stato decisivo, fin dagli anni fiorentini, per la messa a punto del proprio linguaggio architettonico (Genovese, 2015): lo stesso giorno Pandolfo Pico scrisse a Isabella d’Este, informandola della morte di Raffaello, «lasciando questa corte in grandissima et universale mestitia per la perdita della speranza de grandissime cose che se expectavano da lui, quale haverebono honorato questa etade» (Campori, 1870, p. 308; Shearman, 2003, 1520/17). L’epitaffio in distici elegiaci, composto per l’artista dal Tebaldeo o da Bembo, esalta la forza creatrice di Raffaello, tanto che la Natura, mentre era in vita, temette di esser vinta da lui e quando morì temette, invece, di morire anch’essa («Ille hic est Raphael, timuit quo sospite vinci / rerum magna parens, et moriente mori»). Il 12 aprile, in una lettera a Michelangelo, dove si ricorda la morte del «povero» Raffaello, «dil che credo vi habbi despiaciuto assai», Sebastiano del Piombo chiese un intervento presso il cardinale Giulio de’ Medici perché gli fosse affidata la decorazione della Sala di Costantino, «del che e’ garzoni de Raffaello [Giulio Romano e Giovan Francesco Penni] bravano molto e voleno depingerla a olio» (Pini - Milanesi, 1876, p. 143).
Nel maggio gli eredi di Raffaello al lavoro nella Sala di Costantino si offrirono di eseguire il dipinto lungamente atteso da Alfonso I d’Este, ma il duca di Ferrara comunicò che «non havendo noi potuto haver la pictura nostra di sua mano, non la volemo far fare in Roma» (Campori, 1863, p. 139).
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