Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In poco più di vent’anni, Raffaello imprime all’arte una svolta epocale, determinando il passaggio dall’umanesimo quattrocentesco al Rinascimento inteso come nuova classicità. Sperimentatore instancabile, costituisce un punto di riferimento tanto per i protagonisti della Maniera quanto per i fautori della rinascita naturalistico-classicista di fine secolo.
“Sicurissimamente può dirsi che i possessori della dote di Raffaello non sono uomini semplicemente, ma dèi mortali”. A soli trent’anni dalla morte dell’artista lo storiografo Giorgio Vasari così descrive nel 1550 le doti di Raffaello Sanzio, colui che più di ogni altro ha influenzato il corso dell’arte del Cinquecento.
Nell’ottica filofiorentina e michelangiolesca dell’autore delle Vite tale affermazione, riferita a un artista non toscano, costituisce una attestazione molto più che significativa, e si pone come una delle massime espressioni di quel mito raffaellesco che, già alimentato dai contemporanei, è destinato a durare fino a tutto il XVIII secolo.
Nato a Urbino il 6 aprile 1483, Raffaello è figlio del pittore di corte Giovanni Santi, noto per la Cronaca rimata nella quale rivela una profonda conoscenza del panorama artistico coevo (si pensi all’esaltazione dei giovani Leonardo e Perugino). Dopo la prima formazione presso il padre, nel clima umanistico della corte di Federico da Montefeltro, trova in Pietro Perugino, il pittore più celebre e apprezzato nell’Italia di fine Quattrocento, il suo vero maestro. Questo rapporto è fondamentale per l’avvio della sua carriera: la cifra stilistica peruginesca, fatta di delicate armonie, di attenzione per le simmetrie compositive e per un’umanità soave e composta, risulta talmente congeniale al giovane Raffaello da essere sposata in pieno, al punto che, a tutt’oggi, l’attribuzione di alcune opere votive di piccolo formato e di eccelsa qualità oscilla tra i due maestri. Testimonia la precocità di Raffaello il fatto che già nel dicembre del 1500, a soli 17 anni, egli compaia nei documenti con i connotati dell’artista autonomo (magister) nel contratto per la pala di san Nicolò da Tolentino destinata alla chiesa di Sant’Agostino di Città di Castello e nota solo dai frammenti superstiti.
Ma l’evoluzione stilistica del pittore è rapida e lo vede presto impegnato in una rilettura degli aulici modelli perugineschi.
Nel 1504 dipinge lo Sposalizio della Vergine per la chiesa di San Francesco a Città di Castello. Qui, se il punto di partenza è rappresentato senz’altro dal "dolce astro" (Vasari) di Perugino – attraverso opere come la Consegna delle chiavi (1481 ca.) della Cappella Sistina o lo Sposalizio della Vergine (1501-1504) del Musée des Beaux-Arts di Caen, già nel duomo di Perugia –, l’articolazione spaziale appare più ‘moderna’, rivelando una spiccata attenzione per il naturalismo e l’influenza degli studi prospettici di marca umbro-marchigiana, secondo quella linea che da Piero della Francesca conduce a Bramante. Questi elementi hanno portato gli studiosi a ipotizzare diversi viaggi di studio: Firenze prima del 1500, Venezia e Padova subito dopo, Roma già nel 1503, Orvieto e Siena nello stesso anno. Tale ipotesi è confermata dallo stesso Raffaello nel contratto per la pala della Badessa di Monteluce (12 dicembre 1503), dove afferma che, in caso di contestazioni, lo si sarebbe potuto incontrare più o meno ovunque: Assisi, Gubbio, Perugia, Roma, Siena, Firenze, Urbino, Venezia.
Accompagnato da una lettera di presentazione di Giovanna Feltria, sposa di Giovanni della Rovere signore di Senigallia, Raffaello si trasferisce a Firenze nell’ottobre del 1504, attratto dalle occasioni offerte dalla Firenze repubblicana e dal clima di intenso sperimentalismo segnato da imprese come la perduta decorazione della sala del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio per mano di Leonardo e Michelangelo. L’aspirazione del giovane alle grandi commissioni pubbliche risulterà in realtà insoddisfatta; ciò lo induce a concentrarsi sulla produzione di opere di piccolo formato per la borghesia fiorentina, un genere che rappresenta per l’artista una splendida opportunità per sperimentare moduli compositivi e iconografici e che gli schiuderà le porte della notorietà.
Il rapporto con il naturalismo di Leonardo influenza già la Madonna Terranuova (1504-1505, Berlino, Gemäldegalerie), dove lo schema piramidale, la torsione del Gesù e la dolcezza espressiva rappresentano un omaggio al cartone con Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e san Giovannino (Londra, National Gallery) che Leonardo aveva realizzato poco prima. Da questo momento si dipana una serrata sequenza di opere sacre di piccolo formato e ambientate all’aperto, caratterizzate dall’impiego di schemi triangolari composti in modo sempre diverso ma sempre armonicamente classico. Nella Madonna del cardellino (1505-1506, Firenze, Uffizi) alla conoscenza delle opere leonardesche si uniscono i riferimenti al plasticismo di Michelangelo. Attraverso la Madonna del Belvedere o del prato (1506, Vienna, Kunsthistorisches Museum), altra rilettura del cartone leonardesco, si giunge alla Belle Jardinière (1507, Parigi, Louvre), dove lo studio dei due grandi maestri fiorentini sfocia in un’aperta sfida, nell’ottica di una nuova concezione dell’arte che fonda natura e armonia, verosimiglianza e proporzione. Il processo di rilettura del tema della Sacra Famiglia si completa con la Sacra Famiglia Canigiani (1507-1508, Monaco, Alte Pinakothek), dove la presenza del san Giuseppe consente al pittore di perfezionare il consueto schema triangolare. Seppure vincolato dalla tradizione morale fiorentina, Raffaello è attivo anche come ritrattista, licenziando in questi anni capolavori come i ritratti di Maddalena Strozzi e Agnolo Doni (1506, Firenze, Galleria Palatina), committente quest’ultimo del tondo michelangiolesco degli Uffizi.
Tra il 1507 e il 1508 Raffaello riceve incarichi pubblici importanti fuori Firenze. Fra questi, la più rilevante è la commissione ricevuta da Atalanta Baglioni per una pala d’altare per la chiesa di San Francesco al Prato a Perugia, in ricordo del figlio scomparso pochi anni prima. Nella tavola centrale, costituita dal Trasporto di Cristo ora alla Galleria Borghese di Roma, Raffaello raggiunge esiti di grande impatto emotivo e scenico. Il processo creativo, secondo il racconto di Vasari e i numerosi disegni rimasti, impegna l’artista in modo quasi ossessivo. Al dialogo con l’arte di Michelangelo, qui testimoniata dalla torsione della Maria accovacciata a destra, si affianca il recupero della tradizione classica: l’addensarsi sul primo piano delle figure si ispira infatti a bassorilievi classici come la Morte di Meleagro dei Musei Vaticani.
Quasi a suggello di questa nuova condizione creativa giunge per Raffaello la tanto desiderata commissione pubblica fiorentina: nel 1507 la famiglia Dei lo incarica di eseguire una pala per Santo Spirito a Firenze. L’artista inizia così la celebre Madonna del Baldacchino (ora Firenze, Galleria Palatina) che non completerà mai. Alla fine del 1508 papa Giulio II lo chiama a Roma per l’incarico più prestigioso della sua giovane carriera: la decorazione delle stanze private del pontefice in Vaticano.
Stando al racconto di Vasari Raffaello raggiunge Roma grazie alla mediazione di Donato Bramante, al tempo impegnato in Vaticano per conto di Giulio II in diversi incarichi, tra i quali la riedificazione della basilica di San Pietro. Il papa ha in quel momento avviato anche i lavori di decorazione nei suoi nuovi appartamenti al secondo piano del Palazzo Vaticano, affidandoli a diversi artisti tra cui Perugino, Luca Signorelli, Lorenzo Lotto, il Sodoma, Bramantino e Baldassarre Peruzzi. Alla fine dello stesso anno Raffaello si unisce agli altri maestri attivi nel cantiere vaticano. Le novità e l’autorità con cui l’artista esordisce sulla scena romana sono tali da indurre Giulio II, già nell’ottobre del 1509, ad affidargli la prosecuzione del lavoro di decorazione di tutte le altre stanze, concedendogli persino la libertà di distruggere gli affreschi già realizzati dagli altri artisti.
Entro il 1511 è conclusa la biblioteca privata del papa, ambiente noto con l’appellativo di stanza "della Segnatura" a causa dalla successiva funzione di sede del tribunale ecclesiastico (chiamato appunto Signatura gratie). L’assetto iconografico generale è legato alla sua prima destinazione. Nella Disputa del Sacramento, l’affresco che l’aveva imposto all’attenzione papale, il tema principale ruota intorno al rapporto dell’uomo con la verità ultraterrena: diviso in due registri semicircolari sovrapposti raffiguranti in basso la Chiesa terrena, in alto la Chiesa celeste, la scena culmina nella presenza della Trinità ma trova il suo punto focale nell’ostensorio posto al centro della composizione. Intorno a quest’ultimo Raffaello ordisce una trama prospettica illusoria, maestosa e ariosa, che, pur denunciando la formazione urbinate dell’artista, si sposa ora con un’attenzione molto più pronunciata per la varietà degli atteggiamenti e per lo studio dal vero della figura umana: il registro dedicato alla Chiesa terrena è infatti animato dalla disputa tra vescovi e teologi che partecipano al dibattito con veemente espressività.
Nella parete con la Scuola di Atene Raffaello affronta il tema della verità terrena, quella della filosofia. In uno spazio architettonico bramantesco stanno i filosofi dell’antichità: Aristotele, Platone (con le sembianze di Leonardo), Euclide (con quelle di Bramante). Quasi al centro in primo piano, accovacciato e appoggiato a un blocco di pietra, è raffigurato Michelangelo nelle vesti di Eraclito: questo personaggio è aggiunto a lavoro concluso, nell’agosto 1511, dopo che il pittore di Urbino aveva avuto modo di apprezzare la volta della Sistina appena terminata. La ricerca anatomica ed emotiva prosegue toccando vertici naturalistici che fissano i parametri di una nuova classicità. La stanza della Segnatura si conclude con le pareti rappresentanti il Parnaso, composto con forti richiami ai sarcofagi classici intorno alla finestra che affaccia verso nord sul Belvedere, e le Virtù .
Il successo della prima stanza sancisce la definitiva ascesa, al fianco di Michelangelo, di Raffaello nell’Italia di inizio Cinquecento. Cominciano così a giungere, pressanti, richieste di impiego delle sue virtù da parte di facoltosi personaggi della Roma pontificia. Tra questi spicca il banchiere senese Agostino Chigi, per il quale – oltre alla decorazione della cappella familiare in Santa Maria del Popolo – Raffaello realizza nel 1511 il grandioso Trionfo di Galatea al piano terra della sua residenza detta Farnesina. L’opera si inserisce nel programma decorativo (al quale partecipano anche il Sodoma e Sebastiano del Piombo) come un omaggio alla classicità intesa come armonia e grazia, sintetizzata dalla figura di Galatea al centro della composizione.
Nello stesso anno Raffaello avvia la decorazione della seconda stanza, detta "di Eliodoro", che lo impegnerà fino al 1514. È un nuovo punto di svolta: influenzati dalla volta della Sistina, i personaggi acquistano una nuova potenza e un nuovo risalto plastico, acuito da una sempre più evidente ricerca emotiva. Nella Cacciata di Eliodoro la narrazione è strutturata intorno a un ampio spazio prospettico che focalizza la figura di Onia mentre invoca la vendetta divina su Eliodoro. La concitazione dei gesti della parte destra si riverbera in quella sinistra con l’intromissione della corte di Giulio II, giustificata da intenti simbolici di riaffermazione del potere papale.
Tali intenti portano Raffaello a raffigurare nuovamente il papa (in preghiera di fronte all’ostia sanguinante tra le mani dello scettico sacerdote boemo) nella parete con la Messa di Bolsena. Anche qui la ricerca di una solennità eloquente si fonda su una composizione che sfrutta la presenza della finestra. In questa, come nella scena precedente, la ritrattistica di Raffaello si rivela sempre più attenta al dato naturale.
Il pittore marchia a fuoco lo sviluppo dell’arte italiana non solo proponendo nelle commissioni di carattere decorativo una nuova classicità capace di sposare naturalismo e monumentalità, ma anche rivoluzionando il tema sacro per eccellenza, quello della pala d’altare. Contemporaneamente al cantiere di Eliodoro l’artista riceve commissioni da fuori Roma, realizzando tra il 1511 e il 1513 due opere destinate a mutare la concezione della tipologia della pala d’altare.
Nella Madonna di Foligno (1511-12, Roma, Pinacoteca Vaticana, per la chiesa romana di Santa Maria dell’Aracoeli poi trasferita già nel Cinquecento a Foligno) il tema della sacra conversazione viene rinnovato grazie all’idea di collocare la Madonna con il Bambino sulle nubi, lasciando il livello terreno al committente e ai santi Giovanni Battista, Francesco e Girolamo. Colpisce la forte impronta veneta che ha fatto ipotizzare l’intervento di improbabili collaboratori (Giorgione oppure Lotto) nel fondale paesaggistico. Nella Madonna Sistina (1513 ca., Dresda, Gemäldegalierie) per la chiesa di San Sisto a Piacenza, Raffaello presenta invece una straordinaria novità iconografica: il tema sacro diventa apparizione teatrale, epifania svelata dallo schiudersi del sipario al di là del quale non esiste uno spazio fisico, reale, ma solo una nube soffice costituita da cherubini. Il ruolo di mediazione tra spazio ultraterreno e spazio reale è affidato alla figura di san Sisto che indica alla Madonna lo spettatore. La morbidezza pittorica, il delicato dialogare dei santi con la Vergine introducono una nuova concezione del sacro, più tardi congeniale alla Chiesa della Controriforma e alla sua esperienza di comunicazione pastorale.
La decorazione della stanza di Eliodoro si chiude con la Liberazione di Pietro e l’Incontro di Attila e Leone Magno. La prima scena, articolata in tre momenti distinti, si caratterizza per forti contrasti tra buio e luce e passaggi sperimentali, come nel risveglio dei soldati, in cui Raffaello impiega tre sorgenti di luce diverse. Nella seconda, il tema è interpretato con accenti di forte intensità drammatica. Entrambe le scene sono realizzate dopo l’ascesa al soglio pontificio di Leone X, seguita alla morte di Giulio II nel febbraio del 1513; non a caso nei panni di Leone Magno è rappresentato il nuovo pontefice.
Appartenente alla famiglia fiorentina dei Medici, Leone X imposta una politica culturale che pone le arti in tutte le sue forme e la riscoperta dell’antica Roma al centro delle proprie finalità; Raffaello assume ora un ruolo chiave: a lui il papa affida diversi incarichi di rilievo che ne fanno, anche grazie al trasferimento di Michelangelo a Firenze, l’artista di punta della Roma di quegli anni.
Alla nuova carica di architetto della basilica di San Pietro (1514) si sovrappone la prosecuzione della decorazione delle Stanze Vaticane. Nella stanza dell’Incendio di Borgo l’esecuzione diretta di Raffaello, sempre più incline ad affidarsi alla sua bottega, si limita alla scena principale: qui Raffaello orchestra una vera e propria messa in scena dai toni teatrali e drammatici: alla rappresentazione armonica del reale si sostituisce una "presentazione caricata", dove il fine dell’arte pare essere quello di stupire e di conquistare. A quest’opera guarderanno gli artisti dell’età della Maniera che ne apprezzeranno la minore verosimiglianza naturalistica, il maggiore vigore plastico unito a un’eleganza intrinseca, la concezione dello spazio non più coerente e prospettico ma sostituito da fondali sovrapposti.
In questa fase Raffaello sembra indicare con autorità la via da seguire segnando per decenni le sorti dell’arte. Un caso macroscopico è rappresentato dai cartoni con le Storie dei santi Pietro e Paolo (se ne conservano sette a Londra, Victoria and Albert Museum), disegni preparatori per i dieci arazzi della Cappella Sistina: Raffaello elabora un racconto costruito con tono ora solenne e ieratico, ora concitato e drammatico. Gli arazzi vengono inviati nelle Fiandre per essere tessuti nel dicembre del 1516, il loro arrivo è vissuto come una vera e propria epifania che svela ad artisti quali Bernard Van Orley la nuova via dell’arte classica e moderna al tempo stesso.
Altamente moderna è anche l’organizzazione della sua bottega, formata da artisti di primissimo piano come Giulio Romano, Giovanni da Udine, Giovan Francesco Penni, Polidoro da Caravaggio ecc., capace di far fronte alle sempre più numerose richieste. La stessa stanza di Eliodoro è realizzata in massima parte dai suoi allievi, chiamati a tradurre in forme e colore i progetti del maestro. Risalgono a questi anni lo pietistico e movimentato Spasimo di Sicilia (1516-17 ca.) per gli olivetani di Santa Maria dello Spasimo di Palermo, ora al Prado a Madrid, nel quale si sono riconosciute le mani di Giulio Romano e di Giovan Francesco Penni. In altre opere, di poco anteriori, sembra potersi riconoscere un più diretto intervento di Raffello, come sempre capace di passare da accenti delicatissimi ed emotivi (Madonna della seggiola, 1513-14, Firenze, Galleria Palatina) a un intenso e monumentale misticismo (Estasi di santa Cecilia, 1514 ca., Bologna, Pinacoteca Nazionale).
Nella cosiddetta "stufetta" e nella "loggetta", ambienti dell’appartamento del cardinal Dovizio Bibbiena in Vaticano, Raffaello dirige la sua bottega impostando gli affreschi come una renovatio dell’antico facendo ricorso alle "grottesche". Lo studio della Domus Aurea segna l’intera decorazione. Questo dipende anche dalla nomina del pittore a praefectus delle antichità, voluta da Leone X il 15 agosto 1515. Il rapporto tra il pontefice e Raffaello diventa sempre più stretto, come dimostra il Ritratto di Leone X con due cardinali (forse completato da Giulio Romano, Firenze, Uffizi), del 1517-18, che il papa invia subito alla sua famiglia a Firenze. Alcuni dettagli come le vesti di Leone X, il campanello, la pergamena e la sedia sono veri e propri equilibrismi pittorici all’insegna di una ricerca mimetica in gara con la natura.
Cosciente del potere di fascinazione dell’arte di Raffaello, il papa Medici se ne serve come mezzo per accattivarsi le simpatie del re di Francia Francesco I. Nel 1518 il pittore esegue – con aiuti – due opere d’importanza capitale: il San Michele e la Sacra Famiglia di Francesco I (entrambe al Louvre di Parigi), testimonianze omogenee di quella ricercata classicità fatta di gesti eleganti e di solidi volumi.
Con l’intenzione di collocarvi la propria collezione di sculture, Leone X commissiona a Raffaello la decorazione delle Logge Vaticane, al secondo piano del palazzo di Niccolò III, restaurato da Bramante. Questa impresa, associata al suo nome, è frutto del coerente e ricchissimo lavoro della sua bottega. Raffaello si limitò al coordinamento progettuale. Nelle tredici campate le scene con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento dipinti nelle volte si inseriscono in una sorta di decorazione globale che si estende dalle pareti alle colonne con largo impiego di stucchi con grottesche. La vena narrativa e il cromatismo vivace di scene come Il giudizio di Salomone denunciano una ricerca diversa dalla solennità intellettualistica delle opere precedenti.
Un’altra committenza giunge da Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII. Prevedendo di donare una pala d’altare di grandi dimensioni per la sua sede vescovile francese di Narbonne, il prelato interpella Raffaello sin dal 1516.
Oberato dagli impegni papali il pittore temporeggia, così nel 1517 il futuro papa si rivolge a Sebastiano del Piombo che nel giro di due anni, grazie ai disegni di Michelangelo, realizza la Resurrezione di Lazzaro. Davanti a questa situazione, Raffaello si concentra in prima persona sul dipinto, stimolato dal confronto, seppure a distanza, con Buonarroti. Dopo il luglio 1518 la tela, concepita come una macchina teatrale, è in fase di elaborazione. Il risultato è la Trasfigurazione, strutturata su due registri: in alto la trasfigurazione, in basso il miracolo della guarigione dell’ossesso. In basso domina l’agitazione, il tono declamatorio, la solidità delle forme, mentre la parte superiore appare più aulica e rarefatta, con la figura del Cristo che si libra soavemente in aria. Si tratta, ancora una volta, di una profonda innovazione nella grammatica visiva della pala d’altare che anticipa alcune delle istanze, in materia di coinvolgimento emotivo, dell’età barocca.
Raffaello lavora al suo ultimo capolavoro anche il giorno prima della sua morte avvenuta il 6 aprile del 1520, dopo giorni di febbre altissima causata, a dire dei biografi, dalla sua disordinata vita amorosa. A riprova del suo valore, la Trasfigurazione è esposta nella camera ardente dove fu composta la salma del pittore, “la quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava” (Vasari). Poco dopo, essa è nuovamente mostrata al pubblico, affiancata alla Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo: il successo è clamoroso, Giulio de’ Medici decide di lasciare l’opera a Roma e di esporla in San Pietro in Montorio.
La morte prematura dell’artista sancisce l’inizio del mito di Raffaello; i contemporanei ne piangono la scomparsa come si trattasse di una divinità. Tutto depone a favore di tale beatificazione laica: la sua capacità di misurarsi con la natura, la sua affabilità umana, il suo successo, la sua vita terminata in età ancora giovane. Chiudendo la biografia del pittore Vasari scrive: “egli insomma non visse da pittore, ma da principe. Per il che, o Arte della pittura, tu pur ti potevi allora stimare felicissima, avendo un tuo artefice che di virtù e di costumi t’alzava sopra il cielo!”
La bottega di Raffaello, la più avanzata e organizzata del tempo, si occuperà di portare avanti gli incarichi lasciati inevasi, come la decorazione dell’ultima stanza vaticana dedicata a Costantino. Giulio Romano, Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio animano una nuova fase dell’arte italiana, quella della Maniera, che segnerà i destini dell’arte per almeno cinquant’anni. Quasi paradossalmente, nel momento in cui si cercano soluzioni alternative al manierismo (con i Carracci alla fine del Cinquecento), Raffaello resta l’esempio ideale, a conferma della vastità del suo mondo figurativo.