Raggi cosmici
di Giampietro Puppi e Giancarlo Setti
SOMMARIO: 1. Introduzione. □ 2. Tecniche d'osservazione. □ 3. La radiazione cosmica nell'atmosfera. □ 4. La radiazione primaria: a) la natura della primaria; b) spettri d'energia; c) raggi cosmici di altissima energia: grandi sciami; d) composizione chimica e sue implicazioni; e) isotropia; f) informazioni dedotte dallo studio dei raggi γ primari. □ 5. Elettroni: a) elettroni in prossimità della Terra; b) elettroni nel cosmo. □ 6. Il problema dell'origine: a) la teoria galattica in generale; b) modello d'alone; c) il modello di disco e il problema dell'isotropia; d) limiti alla natura delle sorgenti imposti dall'isotropia; e) bilancio energetico; f) accelerazione nello spazio interstellare: meccanismo di Fermi; g) sorgenti galattiche di raggi cosmici: supernove; h) teoria universale. □ Bibliografia.
1. Introduzione.
Originariamente, con il termine ‛raggi cosmici' o ‛radiazione cosmica' si indicava quel flusso costante di particelle elementari, come protoni, particelle o, nuclei nudi di atomi pesanti ed elettroni, che investe la Terra in ogni punto e da ogni direzione, provenendo dallo spazio extraterrestre; con lo stesso termine si indicava altresì tutto il sistema di particelle secondarie prodotte nell'interazione fra le particelle citate all'inizio - che indicheremo anche, collettivamente, come ‛primari' - e l'atmosfera. Nello studio dei raggi cosmici si delinearono tre importanti direttrici, una tipicamente di fisica delle particelle elementari, una di carattere geofisico e una più tipicamente di astrofisica.
Possiamo affermare che il primo indirizzo è stato il più importante per lo sviluppo del pensiero scientifico nella prima metà di questo secolo. Dallo sforzo di comprendere la natura delle particelle di grande energia presenti nei raggi cosmici dentro l'atmosfera ha infatti avuto origine la scoperta della straordinaria varietà con cui l'energia si materializza su scala subnucleare e di come le particelle elementari si trasformano l'una nell'altra. Infine, nello studio degli urti dei raggi cosmici con i nuclei dell'atmosfera, si sono avute le prime importanti scoperte sui meccanismi di generazione delle particelle. Questo indirizzo è ora in massima parte superato, essendo diventato l'obiettivo principale delle ricerche che si svolgono con i grandi acceleratori di particelle. Forse esiste ancora un residuo interesse a sperimentare nel dominio delle energie straordinariamente elevate, molto al di là di quelle raggiungibili con gli acceleratori ora in costruzione, o pensabili in futuro; ma è una possibilità più teorica che pratica, in quanto i primari di energia estremamente elevata sono pochi e la fenomenologia cui essi danno luogo è così complessa (grandi sciami in aria) da non lasciare molta speranza alla possibilità di ottenere molto di più che alcune indicazioni grossolane sulle modalità d'interazione o su fatti nuovi presenti in dette interazioni.
Per concludere, bisogna dire che l'apporto culturale alla fisica fatta con gli acceleratori da parte degli studiosi di raggi cosmici è stato determinante, non solo in termini di ricercatori che sono passati dall'uno all'altro campo di attività, ma anche per le tecniche d'avanguardia e per certe metodologie spinte di progettazione e di analisi degli esperimenti che vi sono state trasferite. Come è noto, l'altro grande apporto alla fisica delle particelle elementari è venuto dal travaso di concetti, esperienze e metodi della fisica nucleare.
Passando ora al secondo indirizzo, quello geofisico, possiamo ben dire che esso è nato con la scoperta dei raggi cosmici stessi, perché fin dall'inizio è stata evidente l'influenza delle condizioni ambientali sui fenomeni osservati: l'influenza del campo magnetico terrestre sull'ingresso dei primari carichi nell'atmosfera, l'influenza dell'atmosfera e delle sue variazioni sulla propagazione della radiazione secondaria, l'influenza del Sole, attraverso le modificazioni che esso determina nelle condizioni elettromagnetiche dell'ambiente planetario, sull'intensità della primaria sono stati i primi e più importanti argomenti investigati secondo questo indirizzo. Si tratta di un indirizzo che, specialmente per quest'ultimo aspetto, è ancora vivacemente perseguito e che ha anzi ricevuto un notevole impulso dalla possibilità, acquisita a partire dagli anni sessanta, di sperimentare con satelliti artificiali orbitanti intorno alla Terra o di inviare sonde a grande distanza dalla Terra. La scoperta del vento solare, quella della modifica da esso determinata nella struttura del campo magnetico terrestre a grande distanza dalla Terra e la scoperta delle fasce di Van Allen sono forse i risultati più rilevanti di questo indirizzo.
I raggi cosmici rientrano in questa problematica soprattutto come sensori delle condizioni elettromagnetiche dello spazio vicino, di cui rivelano le proprietà attraverso la modulazione della loro intensità in funzione del tempo; ma lo studio di queste modulazioni è a sua volta essenziale per cercare di stabilire la vera natura, la composizione e la frequenza delle particelle primarie che entrano nel sistema solare dalle regioni più lontane dello spazio.
Il terzo indirizzo, quello astrofisico, è forse quello che ha avuto gli sviluppi più spettacolari, sì da dare origine a un nuovo capitolo dell'astrofisica, che talora è indicato con la denominazione di ‛astrofisica delle alte energie'.
L'origine prima di questo indirizzo sta nelle domande: da dove vengono questi raggi cosmici primari? Sono essi un fenomeno locale, galattico o universale? Dove vengono prodotti e come si propagano nello spazio? Quello che vediamo è ciò che viene prodotto, oppure nel loro lungo cammino dalla sorgente fino a noi i primari vengono modificati come composizione e come energia? E, se così è, quali sono i processi di modificazione e i meccanismi di accelerazione cui i raggi cosmici sono sottoposti?
La situazione è tutt'altro che chiarita e costituisce uno dei problemi più interessanti per il futuro; ma una cosa è certa e cioè che i raggi cosmici, intesi come gas relativistico contenuto nelle galassie, costituiscono un fenomeno generale assai importante - anche dal punto di vista dinamico - nell'evoluzione di un sistema galattico.
2. Tecniche d'osservazione.
Il progredire delle nostre conoscenze sulla natura dei raggi cosmici è legato allo sviluppo di tecniche estremamente raffinate per la rivelazione di particelle cariche. Naturalmente lo scopo è quello di identificare le particelle, misurarne l'energia e determinarne la direzione di provenienza. Tenuto conto del fatto che le particelle si muovono praticamente alla velocità della luce (c=3×1010 cm/s), per cui una particella impiega circa 10-4 secondi per attraversare l'atmosfera terrestre, e tenuto conto anche del loro flusso globale, è chiaro che uno studio sufficientemente dettagliato della complessa fenomenologia dei raggi cosmici ha richiesto l'impiego di tecniche di rivelazione estremamente rapide e di adeguata risoluzione spaziale. Tali tecniche sono state rese possibili dallo sviluppo formidabile della moderna tecnologia elettronica. Così, per esempio, sono stati costruiti dei rivelatori dotati di una risoluzione temporale di 10-9 secondi.
Una descrizione adeguata, e in sé completa, delle varie tecniche richiederebbe un discorso molto ampio non solo per la complessità della strumentazione impiegata, ma anche per i problemi derivanti dalla necessità di eliminare eventi spuri e per il fatto che la grande estensione dello spettro dei raggi cosmici (circa 108-1020 eV, dove 1 eV≃1,6×10-12 erg) impone una differenziazione dei metodi osservativi secondo l'intervallo di energia entro il quale si vogliono compiere le osservazioni. Pertanto qui ci limiteremo a una descrizione qualitativa e ad alcuni esempi semplici che dovrebbero essere sufficienti a illustrare ai non specialisti i principi generali sui quali si fondano i metodi di rivelazione.
I rivelatori impiegati possono essere suddivisi in due categorie: a) ‛contatori', nei quali viene generato un impulso elettrico al passaggio di ogni particella; b) ‛rivelatori visualizzanti', nei quali rimane una ‛traccia' del passaggio di una particella.
Il tipo di contatore più semplice è schematizzato nella fig. 1: la camera di rivelazione è costituita da un cilindro metallico C e da un filo coassiale F accuratamente isolati fra loro e mantenuti a una certa differenza di potenziale elettrico; la pressione del gas all'interno della camera è regolabile in modo tale che gli ioni prodotti da una particella carica che entra vengano rapidamente moltiplicati da successive ionizzazioni per urto e la corrente istantanea che si produce possa così essere facilmente rivelata. Questi sono gli elementi base per i vari tipi di rivelatori, quali la camera di ionizzazione, il contatore proporzionale e il contatore di Geiger-Müller. Quando due o più contatori vengono collegati fra di loro in modo tale che si produca un impulso elettrico solo nel caso in cui tutti i contatori collegati si scarichino contemporaneamente, si ottiene un dispositivo, noto come ‛metodo delle coincidenze', che è estremamente importante per lo studio della radiazione cosmica. Ad esempio, se si dispongono due o più contatori verticalmente l'uno sopra l'altro, si possono registrare solo le particelle ionizzanti che incidono entro un angolo sufficientemente piccolo intorno alla direzione verticale. Si comprende facilmente che, in tal modo, si può realizzare un vero e proprio telescopio per raggi cosmici. In particolare, ciò ha portato alla scoperta dell'effetto azimutale, cioè della preponderanza quantitativa dei raggi cosmici provenienti da ovest rispetto a quelli provenienti da est, che ha permesso di stabilire che la carica della radiazione cosmica è prevalentemente positiva.
Per quanto riguarda la seconda categoria di rivelatori, citeremo due esempi. Il primo riguarda la camera a nebbia a espansione (camera di Wilson), che ha avuto fra l'altro anche notevole importanza storica nello sviluppo degli studi sui raggi cosmici: un ambiente gassoso saturo di vapor d'acqua viene portato in uno stato di sovrasaturazione mediante una rapida espansione adiabatica delle pareti; in tali condizioni una goccia d'acqua si condensa intorno a ioni eventualmente presenti nel gas. Se l'espansione della camera avviene al momento in cui una particella carica entra nella camera, gli ioni prodotti negli urti della particella con le molecole del gas divengono centri di condensazione che appaiono sotto forma di una ‛traccia' di goccioline. Ora, se la camera viene immersa in un forte campo magnetico, la traiettoria di una particella si modifica in un modo che è noto e quindi dallo studio della curvatura della traccia si può risalire all'energia della particella stessa.
Il secondo esempio riguarda la tecnica dell'emulsione fotografica, che risulta molto importante sia per le sue notevoli applicazioni sia per la sua semplicità. L'apparato rivelatore è costituito da una lastra fotografica dotata di uno speciale tipo d'emulsione, con una densità di bromuro d'argento almeno dieci volte superiore a quelle comunemente utilizzate nella tecnica fotografica, e di una pellicola di gelatina molto spessa: così i percorsi delle particelle risultano molto brevi, almeno 2.000 volte inferiori a quelli nell'aria. Quando la traiettoria di un nucleo, ad esempio una particella α, risulta parallela all'emulsione, essa produce una striscia di ionizzazione (traccia) rivelabile come un'immagine. Per lo studio dei raggi cosmici si dispongono delle serie di lastre in opportuni contenitori ad altitudini convenienti, dove vengono ‛esposte' al bombardamento delle particelle per un certo periodo di tempo. Dallo studio delle tracce, del loro spessore e della loro lunghezza si può risalire al tipo di nucleo e alla sua energia. L'impiego di vari tipi d'emulsione, caratterizzati da diverse sensibilità e stratificati in modo opportuno, ha consentito di individuare la carica dei nuclei primari con alta precisione, permettendo quindi uno studio dettagliato della composizione anche a basse energie.
Pacchi di lastre distribuite su ragguardevoli aree collettrici, anche fino a 9 m2, sono stati largamente impiegati in voli con palloni stratosferici, con i quali sono stati accumulati dati importanti sulla composizione dei primari. La notevole semplicità di questa tecnica ne ha poi consentito l'impiego anche per lo studio dei raggi cosmici di bassa energia, per i quali è necessario uscire dall'atmosfera. Così, strati di emulsioni di notevoli aree sono stati esposti su razzi lanciati ad alte latitudini e un pacco è stato pure trasportato in una delle missioni Gemini, durante la quale è stato esposto dall'astronauta all'esterno del veicolo spaziale orbitante e ritirato prima della discesa a terra, evitando così la contaminazione delle emulsioni da parte delle particelle secondarie nell'atmosfera.
Per finire, diamo qui di seguito l'elenco dei rivelatori comunemente usati secondo lo schema generale sopra indicato:
Sovente gli esperimenti richiedono l'impiego contemporaneo e articolato di vari tipi di rivelatori.
3. La radiazione cosmica nell'atmosfera.
I raggi cosmici sono stati scoperti in esperimenti condotti in laboratorio, in stazioni fisse localizzate nella bassa atmosfera e con palloni a bassa quota, cioè nel loro aspetto di radiazione secondaria. L'estensione del loro studio all'alta atmosfera e fuori dall'atmosfera stessa ha permesso di individuarne la componente primaria e di stabilire tutte le modalità di transizione tra la radiazione primaria e quella secondaria.
Come s'è già detto, la comprensione della natura dei raggi cosmici non è stata agevole, poiché sia le stesse particelle presenti nei vari processi, sia i meccanismi di trasformazione di particelle di un dato tipo in particelle di un altro tipo erano ancora completamente sconosciuti. Per dare un'idea della complessità del problema, oggi possiamo anche dire che tutte le particelle elementari conosciute e quelle ancora sconosciute sono certamente presenti nel fascio secondario dei raggi cosmici; ma, per non perderci in un panorama troppo complicato, fisseremo l'attenzione sulle componenti più importanti.
Al livello del mare i raggi cosmici sono costituiti sostanzialmente di muoni (μ±) e di elettroni e fotoni (e±, γ); queste due componenti, che storicamente hanno anche avuto le denominazioni di ‛dura' e ‛molle', sono presenti alle varie quote nell'atmosfera ma in diversa proporzione e con diversa intensità.
Al di fuori dell'atmosfera invece è presente una componente di diversa natura e precisamente la componente ‛nucleonica', costituita in massima parte da protoni.
Nella discesa attraverso l'atmosfera si assiste al graduale assorbimento dell'energia della componente primaria e alla comparsa della radiazione secondaria dei raggi cosmici; l'atmosfera è sufficientemente spessa (1.033 g/cm2) perché al livello del mare non vi sia praticamente più traccia della radiazione primaria; sappiamo anzi che il processo di assorbimento della primaria e di generazione della secondaria si svolge praticamente tutto entro uno spessore pari a circa 1/5 dello spessore atmosferico, cioè a quote superiori a circa 200 mbar. Ad esempio, il cammino libero medio di un protone energetico nell'atmosfera è di circa 80 g/cm2; si noti che i muoni, che sono le particelle cariche più penetranti fra quelle prodotte nell'interazione nucleare, perdono per ionizzazione un'energia di circa 2 MeV ogni g/cm2 di atmosfera attraversata e quindi arrivano a terra solo quelli con energia superiore a 2 GeV: ne consegue che il protone primario che li ha prodotti doveva avere un'energia Ep maggiore di circa 10 GeV. Tenendo presente il flusso dei primari, dalla tab. I si deduce immediatamente per interpolazione che il flusso dei muoni a livello del mare è di 1 cm-2 sterad-1 minuto-1. È chiaro anche che lo studio dei raggi cosmici con energie minori di 10 GeV è possibile solo ad altitudini molto elevate e, per le basse energie, solo al di fuori dell'atmosfera.
È noto d'altra parte che una conversione dei nucleoni in muoni, elettroni e fotoni non è possibile: deve quindi esistere almeno un intermediario. L'identificazione di questo intermediario principale con i mesoni π(π+, π-, π0) ha permesso di comprendere la natura dei fenomeni che hanno luogo negli urti della primaria contro i nuclei dell'atmosfera secondo lo schema seguente:
nucleonica+nuclei di atmosfera→
→mesoni π+nucleonica degradata.
I mesoni π sono particelle instabili e si disintegrano secondo gli schemi:
π+→μ++neutrino (νμ)
π-→μ-+antineutrino (ν̄μ)
π0→γ+γ.
La disintegrazione dei π± dà quindi origine direttamente ai μ± e possiamo quindi dire che per ogni μ± esiste un solo progenitore π± dello stesso segno.
Il discorso che si può fare per la generazione della componente di elettroni e fotoni (elettrofotonica) è un po' più complicato, in quanto dalla disintegrazione del mesone π0 si originano due fotoni, mentre gli elettroni possono venir generati solo in un processo successivo, che ha luogo nel campo elettrico di un altro nucleo nell'atmosfera secondo lo schema di materializzazione:
γ+(nucleo)→(nucleo)+e++e-.
Gli elettroni, a loro volta, nell'urto contro un nuovo nucleo possono perdere parte della loro energia generando un nuovo fotone (processo di Bremsstrahlung):
e±+(nucleo)→(nucleo)+γ+e±degradato.
Si vede che se questi processi avvengono abbastanza frequentemente, e cioè se il relativo cammino libero medio è molto minore dello spessore atmosferico, allora si sviluppa un processo di moltiplicazione in cascata in cui il numero di particelle aumenta rapidamente mentre l'energia per particella diminuisce. Al di sotto di una determinata energia per particella, che nell'atmosfera è di circa 100 MeV, la moltiplicazione si arresta e gli elettroni residui vengono frenati a causa delle perdite per ionizzazione.
Lo sviluppo della componente elettrofotonica nell'atmosfera riproduce le caratteristiche generali sopra descritte e una rappresentazione tipica della variazione dell'intensità con lo spessore è indicata nella fig. 2.
I processi elementari responsabili dei fenomeni descritti sono trattabili quantitativamente mediante l'elettrodinamica quantistica, la cui validità si può considerare ora come acquisita anche per energie molto elevate. In fondo si può dire che la corretta descrizione della cascata elettrofotonica nell'atmosfera è stata proprio uno dei primi elementi a dar credito all'elettrodinamica quantistica nel dominio ultrarelativistico.
A causa della non conservazione del numero di particelle nella cascata elettrofotonica non è possibile stimare quanti mesoni π0 vengano prodotti negli urti della primaria nell'atmosfera. È invece possibile risalire alla frazione di energia totale della primaria che viene convogliata in mesoni π0 e che risulta circa la metà di quella convogliata in mesoni carichi π±. Ciò indica che i mesoni π vengono prodotti all'incirca nelle stesse proporzioni nei tre stati di carica π+, π-, π0.
Lo sviluppo durante l'attraversamento dell'atmosfera delle componenti ora descritte è riportato nella fig. 2 assieme all'andamento dell'intensità totale dei raggi cosmici nell'atmosfera. I raggi cosmici primari interagendo con l'atmosfera producono una cascata nucleare alla quale prendono parte i mesoni π: i mesoni π carichi decadono in mesoni μ carichi, che formano la parte principale della componente dura, mentre il decadimento dei mesoni π0 va a rifornire la componente molle. Così, il comportamento dei raggi cosmici nell'atmosfera risulta chiarito nelle sue parti essenziali. La teoria della moltiplicazione in cascata permette poi di spiegare l'andamento generale dell'intensità totale dei raggi cosmici alle altitudini più elevate (curva di Pfotzer), mentre l'andamento alle basse altitudini è dominato dalla componente dura, cioè dai mesoni μ.
Il residuo al livello del mare (1.033 g/cm2) è, come si vede, molto modesto sia in numero di particelle (7%) sia, soprattutto, in termini d'energia (3%), rispetto alla primaria entrante nell'atmosfera.
Vogliamo ora accennare a una descrizione globale quale si ottiene facendo un bilancio energetico e cioè stimando l'ammontare d'energia incanalato nelle varie componenti. Data la notevole coerenza direzionale tra radiazione primaria e radiazione secondaria, il bilancio energetico permette, se si conosce anche l'energia trasportata dalla primaria, di controllare se effettivamente abbiamo una descrizione soddisfacente di tutta la fenomenologia. Poiché il flusso d'energia entrante con la primaria dipende dalla latitudine e dalla direzione di provenienza, a cagione degli effetti prodotti dal campo magnetico terrestre, il bilancio stesso deve essere fatto per una situazione specifica. Generalmente si sceglie la direzione verticale e una latitudine elevata per la maggior quantità di dati disponibili in queste situazioni. La tecnica con cui si fa il bilancio è piuttosto complessa e quindi preferiamo riportare qui solo i risultati. Ci si può ridurre praticamente a tre soli termini relativi alle componenti maggiori e si trova che l'energia si distribuisce approssimativamente tra i prodotti secondari in queste proporzioni:
componente muonica e neutrinica 45%
componente elettrofotonica 25%
componente nucleonica degradata 30%.
Per componente nucleonica degradata si intende quel residuo della primaria e quei protoni e neutroni provenienti dalla frantumazione di nuclei d'atmosfera colpiti dalla primaria che per la loro energia troppo bassa non sono più in grado di generare mesoni in modo apprezzabile.
Passando dai valori relativi a quelli assoluti si trova che il fascio secondario dissipa circa 1 GeV/s in una colonna di atmosfera di 1 cm2 di sezione e per direzioni d'incidenza comprese in un angolo solido unitario (1 sterad). In effetti il flusso di potenza trasportato dalla primaria entro l'atmosfera, misurato sulla primaria stessa, è appunto di tale ordine di grandezza (v. tab. I).
4. La radiazione primaria.
a) La natura della primaria.
All'inizio del secolo, quando ebbe avvio lo studio dei raggi cosmici, la natura della primaria costituiva uno dei problemi più difficili e affascinanti. Non esisteva ancora la possibilità tecnica di fare misure fuori dell'atmosfera e quindi tutto doveva essere inferito dall'osservazione della secondaria; per di più, si ignoravano completamente i meccanismi con cui le particelle elementari si trasformano l'una nell'altra ed era limitata la conoscenza delle particelle stesse. Il primo elemento a essere stabilito fu, sempre nell'ipotesi della coerenza direzionale tra primaria e secondaria, che si trattava di una radiazione elettricamente carica e di prevalente segno positivo, come si poteva desumere dall'analisi dell'influenza del campo magnetico terrestre: più radiazione proveniente da occidente che da oriente e in generale maggior flusso ai poli che all'equatore (effetto azimutale). Tra le poche particelle note allora solo i protoni e gli elettroni positivi potevano rappresentare possibili candidati, ma non si ebbe subito la prova che si trattava in effetti di protoni.
Oggi sappiamo - grazie alle misure sempre più raffinate compiute prima con i palloni stratosferici, poi con i razzi e infine con i satelliti - che, se pure i protoni sono il costituente prevalente della primaria, in essa sono anche presenti nuclei nudi, cioè privi di elettroni, di vari atomi e in modo predominante di elio. Vi è infine un contributo di elettroni primari che, pur essendo modesto in termini d'energia (1%), riveste tuttavia grande importanza per le sue implicazioni di ordine astrofisico e verrà pertanto discusso separatamente nel prossimo capitolo.
Le principali informazioni globali sulla primaria nucleonica in ingresso nell'atmosfera sono riassunte nella tab. I.
I dati forniti dalla tab. I sono stati ottenuti alla stessa latitudine geomagnetica, corrispondente a R>1,3 GV, e quindi per le stesse condizioni d'ingresso nel campo magnetico terrestre, come espresso dalla formula (3). A questo taglio nella rigidità corrispondono tagli diversi nell'energia cinetica delle particelle che, in virtù della formula (2), risultano: Ecin≿700 MeV per i protoni ed Ecin≿200 MeV/nucleone per tutti gli altri nuclei. La conoscenza degli spettri d'energia consente di riferire i flussi allo stesso taglio in energia cinetica per nucleone, cioè alla stessa velocità delle particelle; adottando il taglio di 700 MeV/nucleone, già valido per i protoni, si calcolano i valori riportati in parentesi nella seconda colonna della tabella. A parità di rigidità i nuclei di elio rappresentano il 13% del flusso totale di particelle e i nuclei più pesanti circa l'1,6%, mentre si ottiene rispettivamente il 6,5% e circa l'1% quando ci si riferisce alla medesima energia per nucleone: sono queste ultime percentuali quelle che vengono usualmente paragonate con le abbondanze degli elementi presenti nell'Universo. È importante notare che i flussi di particelle primarie, particolarmente alle basse energie, variano notevolmente nel tempo a causa di effetti di modulazione dovuti all'azione del vento solare. Quantunque i flussi massimi siano osservati in corrispondenza a condizioni di minimo dell'attività solare, anche in tal caso non è tuttavia possibile escludere la presenza di una modulazione residua, per cui i dati della tab. I sono validi, a stretto rigore, solo in prossimità della Terra, mentre costituiscono dei limiti inferiori per i flussi eventualmente presenti al di fuori del sistema solare (spazio interstellare).
La quarta colonna, infine, rappresenta la densità di energia che esiste nello spazio al di fuori della Terra e che è dovuta alla presenza di raggi cosmici: si tratta di un dato importante per valutare il ruolo dei raggi cosmici come costituenti della Galassia e per affrontare lo studio della loro origine.
b) Spettri d'energia.
Un secondo elemento che caratterizza la radiazione cosmica primaria è lo spettro energetico che si estende su almeno 13 ordini di grandezza, da alcune decine di MeV fino a 1020 eV. Lo spettro riferito al flusso totale della primaria è riprodotto nella fig. 3: nell'intervallo d'energia compreso fra 1010 e 1015 eV esso segue la ben nota legge di potenza della forma
F(>E)∝E-γ, (5)
dove F(>E) è il flusso di particelle con energia maggiore di E e γ è l'indice spettrale. In questo caso γ≃1,6. La conoscenza degli spettri d'energia delle varie componenti nucleari è invece limitata a energie inferiori a circa 1011 eV/nucleone. In questa regione gli spettri possono essere ottenuti sia con strumenti capaci di misurare direttamente l'energia dei nuclei primari, sia approfittando degli effetti di taglio del campo magnetico terrestre in funzione della latitudine geografica (λ) e della direzione di provenienza (θ, ϕ). Infatti, su ogni punto della Terra e da ogni direzione arrivano con piena intensità solo quelle particelle che hanno un'energia per nucleone superiore a un certo valore E1(λ, θ, ϕ), mentre non figurano affatto quelle di energia inferiore a un certo valore E2(λ, θ, ϕ). Uno dei primi importanti studi sui raggi cosmici aveva appunto lo scopo di definire detti tagli di ‛luce' e di ‛ombra' e la fascia di penombra fra E1 ed E2, sulla base della conoscenza del campo magnetico terrestre, a quei tempi concepito, anche a grande distanza dalla Terra, come quello generato da un dipolo. Ora sappiamo che il vento solare modifica sostanzialmente questa struttura a grande distanza (v. fig. 4), ma le conclusioni agli effetti del calcolo dei tagli geomagnetici mantengono globalmente il loro valore. Come s'è detto, i tagli geomagnetici vengono convenientemente espressi in termini della rigidità delle particelle nel campo magnetico terrestre. La tab. II dà appunto i risultati per le due componenti maggiori, ottenuti a tre diverse latitudini geomagnetiche in condizioni di minimo dell'attività solare.
Si deve notare che fino a poco tempo fa la conoscenza degli spettri per energie maggiori di 1010 eV/nucleone era limitata a poche misure di tipo integrale sia per i protoni e i nuclei di elio sia per i nuclei più pesanti. Per questi ultimi, fra l'altro, si avevano solo informazioni globali su ampi intervalli di Z. I dati ottenuti erano comunque tutti consistenti con un'unica legge di potenza del tipo (5) con γ≃1,6; questa ‛identità' dell'indice spettrale dai protoni ai nuclei pesanti veniva considerata come la prova dell'esistenza di un unico meccanismo di accelerazione dei raggi cosmici e quindi, per inferenza, anche di un'origine comune di tutte le componenti. Tuttavia, tutta una serie di esperimenti condotti in questi ultimi anni ha permesso di costruire un quadro più dettagliato e in particolare, per la prima volta, si sono misurati gli spettri differenziali di varie componenti nucleari fino a energie elevate (per i protoni e le particelle α fino a 103 GeV/nucleone, mentre per le componenti più pesanti si arriva a 50-80 GeV/nucleone). Al di sopra di 5-10 GeV/nucleone tutti gli spettri sono ben rappresentati da leggi di potenza. Si osservi che uno spettro d'energia differenziale rappresenta l'andamento in funzione dell'energia dei flussi misurati entro un certo intervallo di energia ΔE, piccolo rispetto all'intervallo di energia considerato. Nel caso di uno spettro di potenza Φ(E)∝E-γ-1, quindi, l'indice spettrale di uno spettro differenziale differisce da quello del corrispondente spettro integrale di una unità.
Ora, mentre gli spettri differenziali dei protoni, delle particelle α, del carbonio, dell'ossigeno e del gruppo di nuclei con 10≤Z≤14 possono essere tutti rappresentati con un unico indice spettrale (≃2,64), quello dei nuclei del gruppo del ferro (24≤Z≤28) nell'intervallo d'energia fra 3 e 50 Gev/nucleone risulta più piatto (≃2,12), la differenza non essendo apparentemente attribuibile agli errori sperimentali. Questo risultato può essere considerato come un indicazione dell'esistenza di due meccanismi di accelerazione e quindi di due tipi di sorgenti dei raggi cosmici, l'uno prevalentemente responsabile della produzione e dell'accelerazione dei nuclei di ferro, che rappresentano solo l'1-2% dell'energia associata alla radiazione cosmica, l'altro, molto più importante dal punto di vista energetico, responsabile della produzione di tutti gli altri primari. Naturalmente a tutt'oggi non è ancora possibile trarre conclusioni definitive.
Per energie inferiori a 5-10 GeV/nucleone gli spettri energetici sono un po' più complicati e, al diminuire dell'energia, variano in modo più lento di quanto previsto dalla semplice legge di potenza, come si può vedere immediatamente dai dati riportati nella tab. II. L'uso di veicoli spaziali ha permesso di estendere lo studio degli spettri fino a energie dell'ordine di alcune decine di MeV. Gli spettri di singole specie sono noti per valori di Z≤14, e cioè fino al silicio, mentre per i nuclei più pesanti i dati di cui si dispone sono per gruppi di elementi: entro gli errori di misura gli andamenti degli spettri delle varie componenti sono simili fra di loro. È questa la regione spettrale in cui si risente fortemente degli effetti locali dell'attività solare e non è facile stabilire quale sia in effetti l'andamento dello spettro al di fuori del sistema solare. Si può pensare, ad esempio, che nello spazio interstellare la legge di potenza continui a essere valida anche per le basse energie. Questo significa naturalmente aggiungere molte particelle nella parte bassa dello spettro e quindi innalzare la stima della densità di energia dei raggi cosmici al loro ingresso nel sistema solare: dai flussi riportati nella quarta colonna della tab. II si trova che un'estensione dello spettro di potenza a energie cinetiche di 0,1 GeV/nucleone porta a una densità di energia di circa 4 eV/cm3. Questa stima contrasta con un'ipotesi galattica sull'origine dei raggi cosmici: il confinamento infatti con tale densità d'energia estesa a tutta la Galassia non sarebbe compatibile con le condizioni di equilibrio del gas interstellare, che pongono un limite superiore di circa 1 eV/cm3. Si può tentare un'analisi più accurata sulla base degli effetti di modulazione causati dal vento solare che, come s'è già detto, risultano strettamente correlati al ciclo di attività solare. Si osservi che l'azione del vento solare sui raggi cosmici si esplica mediante l'accoppiamento realizzato dai campi magnetici trasportati dal vento solare stesso e consiste di tre fasi principali: i raggi cosmici vengono dapprima respinti lontano dal Sole, poi diffondono attraverso le irregolarità del campo magnetico intraplanetario e infine - poiché l'intero processo avviene in un mezzo in espansione - sono soggetti a perdite adiabatiche d'energia. In questo schema l'unica forza in gioco è quella di Lorentz e quindi l'effetto di modulazione dipenderà dalla rigidità delle particelle. Qui ciò che importa è appurare l'esistenza e l'intensità di una modulazione ‛residua' in condizioni di minimo dell'attività solare, durante le quali appunto sono stati misurati gli spettri prima discussi. Sfortunatamente la stima della modulazione ‛residua' dipende ancora interamente da valutazioni di tipo teorico, per cui una risposta più sicura a questo importante problema potrà venire solo da misure di gradienti del flusso di raggi cosmici di bassa energia, da effettuarsi con un veicolo spaziale che esplori il sistema solare a grande distanza. Il tipo di risultati che si ottengono sulla base dei modelli attuali è rappresentato nella fig. 5 per il flusso di protoni: mentre a 1 GeV l'effetto di modulazione è trascurabile, già a 100 MeV solo il 10% dei protoni riesce a raggiungere la Terra e a poche decine di MeV il rapporto fra i flussi diventa di circa 104.
Come conclusione della discussione precedente si può ritenere che, globalmente, la densità d'energia dei raggi cosmici nel mezzo interstellare sia compresa nell'intervallo
wRC=0,5÷1 eV/cm3. (6)
Per energie superiori a ~1012 eV/nucleone per i protoni e i nuclei di elio e a ~1011 eV/nucleone per i nuclei più pesanti, lo studio diretto dei primari diventa sempre più difficile, principalmente a causa del rapido decrescere dei flussi di particelle all'aumentare dell'energia, come si può intuire immediatamente da un esame della fig. 6. Pertanto lo spettro d'energia della primaria fino a circa 1015 eV è accessibile solo attraverso un esame indiretto considerando i processi di generazione della secondaria nell'atmosfera. In altre parole, in base alla conoscenza sperimentale degli spettri energetici delle varie componenti secondarie (muoni, elettroni e fotoni, nucleoni) lungo l'atmosfera, nonché in base alla conoscenza dei processi di generazione della secondaria da parte della primaria, si può ricostruire lo spettro energetico globale della primaria stessa.
In realtà tutto l'intervallo d'energia fra 1010 eV e 1015 eV può essere esaminato in questo modo ed è in tale intervallo che l'intensità totale della radiazione segue lo spettro di potenza con γ≃1,6 di cui si è parlato in precedenza.
c) Raggi cosmici di altissima energia: grandi sciami.
Per energie maggiori di 1015 eV la situazione cambia di nuovo: grazie al fenomeno particolare dei grandi sciami, si può studiare l'effetto di un singolo primario e stimarne l'energia. Si noti che la denominazione inglese per ‛grande sciame' è Extensive Air Shower (EAS). Normalmente, per energie moderate, i secondari complessivamente prodotti nell'atmosfera da un primario sono poco numerosi e quindi la secondaria, essendo la sovrapposizione di tanti contributi modesti, si presenta nel suo complesso come sostanzialmente incoerente. Il numero dei secondari per un certo primario è però una funzione crescente, anche se non lineare, dell'energia del primario e ne deriva quindi che un primario di energia estremamente elevata genera un insieme molto numeroso di particelle secondarie che, avendo tutte la stessa velocità c (particelle relativistiche), si propagano nell'atmosfera in modo coerente. Questa coerenza si mette in evidenza registrando, a una certa quota nell'atmosfera, l'arrivo contemporaneo di raggi cosmici in punti spazialmente separati. Data la poca dispersione di velocità, l'insieme di tutti i secondari provenienti da un unico primario di elevatissima energia si propaga nell'atmosfera come una struttura lenticolare, che ha come asse (core) la direzione iniziale del primario e il cui spessore è di qualche decina di metri, mentre il diametro può raggiungere dimensioni dell'ordine dei chilometri (v. fig. 7). Questa sostanziale bidimensionalità della struttura dello sciame permette anche di determinare la direzione di provenienza con opportune tecniche di coincidenze ritardate. Si noti che lo sviluppo massimo di un grande sciame avviene a diverse altezze nell'atmosfera in dipendenza dall'energia del primario (v. fig. 8).
Un grande sciame ripropone in generale una storia molto simile a quella della secondaria globale nell'atmosfera. Da un primario si ha, dopo la prima interazione con un nucleo d'atmosfera, una fase di sviluppo in cui l'energia viene distribuita su un numero crescente di secondari, fino a che l'energia di ciascun secondario è talmente degradata che non vi è più moltiplicazione e si passa alla fase di assorbimento. Poiché la parte predominante della secondaria è data dalla componente elettromagnetica e poiché gli elettroni perdono energia per ionizzazione a un tasso di circa 2×106 eV per ogni g/cm2 di atmosfera attraversata, che equivale a 2×109 eV su tutta l'atmosfera, ne consegue che l'energia del primario che ha iniziato lo sciame, espressa in eV, risulta dell'ordine
E (primario)≃2×109 Nmax, (7)
dove Nmax è il numero totale di particelle al momento di massimo sviluppo dello sciame. Chiaramente, già per energie dei primari di 1014 eV si ha una produzione enorme di secondari. Il fenomeno è così vistoso e regolare che per la sua stima conviene introdurre come parametro descrittivo la grandezza ‛densità di particelle', definita come il numero di secondari ionizzanti rivelabili per metro quadro di superficie a una certa distanza dall'asse dello sciame. La ‛densità' è una funzione decrescente della distanza dal core. La conoscenza della struttura di questa funzione, nota come ‛distribuzione laterale', permette di risalire al numero totale di secondari presenti in uno sciame. L'idea è che a uno spettro di energia dei primari responsabili di un grande sciame possa corrispondere uno spettro di densità dei secondari e che si possano collegare quantitativamente i due spettri attraverso la teoria della cascata elettrofotonica nell'atmosfera. Concetti analoghi si applicano nel caso di misure effettuate sulla componente muonica.
Completato con i risultati più recenti sui grandi sciami, lo spettro d'energia della radiazione totale si presenta come nella fig. 3: per energie maggiori di 1015 eV l'andamento dello spettro diviene più ripido ed è descritto da un'unica legge di potenza (γ≃2,2) fino a energie di 1020 eV, senza che vi sia ancora alcuna indicazione di un taglio per energie maggiori di 1020 eV. Questo fatto è in sé straordinario, poiché implica l'esistenza in natura di meccanismi capaci di convogliare in un singolo nucleo energie cinetiche maggiori di 10 joule.
È stato suggerito che almeno la parte di altissima energia dello spettro sia certamente di origine extragalattica, in quanto le particelle mostrano una distribuzione isotropa, mentre l'intensità del campo magnetico galattico non sembra sufficiente al loro confinamento nella Galassia. Una risposta definitiva a questo quesito dipende in gran parte dalla natura delle particelle stesse che, al momento, è sconosciuta. Se si tratta prevalentemente di protoni, come si potrebbe inferire dalla composizione chimica alle basse energie, e assumendo un campo magnetico galattico H≃3×10-6 gauss, allora dalla formula (4) segue immediatamente che per energie maggiori di 3×1018 eV le traiettorie delle particelle avrebbero raggi di curvatura maggiori di 3.000 anni luce, cioè superiori allo spessore di una possibile zona di confinamento galattico. Pertanto almeno la coda estrema dello spettro dovrebbe avere un'origine extragalattica. Se invece si tratta prevalentemente di nuclei di ferro, allora dalle formule (2) e (3) si ricava che il limite precedente si sposta a energie maggiori di 2×1022 eV, per le quali si hanno troppo pochi eventi a disposizione per porre limiti ragionevoli all'isotropia.
d) Composizione chimica e sue implicazioni.
Lo studio delle abbondanze relative degli elementi e degli isotopi presenti nella radiazione cosmica permette di ottenere importanti informazioni non solo sulla natura delle sorgenti dei raggi cosmici, ma anche sulle modalità di propagazione delle particelle nel mezzo interstellare. È interessante notare, fra l'altro, che i raggi cosmici costituiscono il solo campione di materia, di origine esterna al sistema solare, accessibile a un'analisi diretta della composizione chimica. Quello che si fa tradizionalmente è di paragonare la composizione chimica dei primari, al loro ingresso nell'atmosfera terrestre, con la composizione ‛universale' degli elementi. Quest'ultima viene determinata combinando le informazioni derivate dallo studio spettroscopico delle stelle più vicine (incluso il Sole) e dall'esame di materiale meteoritico e terrestre. Avvertiamo che in questa trattazione ci riferiremo in particolare alle abbondanze ‛universali' determinate da Cameron, che risultano maggiormente pesate sui valori derivati dal materiale meteoritico. Il fatto più significativo che emerge da questo paragone è la stretta somiglianza delle due composizioni e quindi il carattere sostanzialmente ‛normale' della composizione chimica della radiazione cosmica. Va subito detto, tuttavia, che i nuclei pesanti presentano alcune forti anomalie rispetto alla composizione universale, l'origine delle quali, però, è ‛accidentale' e completamente imputabile all'interazione dei raggi cosmici con il gas interstellare, come si vedrà in seguito. Questa similarità delle due composizioni risulta chiaramente dall'esame della fig. 9, dove sono state riportate le abbondanze ‛universali' e quelle dei raggi cosmici, normalizzate al carbonio, per i nuclei che vanno dal litio (Z=3) al nichel (Z=28). In particolare, in entrambe le distribuzioni si nota la presenza di un maggior numero di nuclei di carica pari rispetto a quelli di carica dispari (effetto pari-dispari) e di un picco pronunciato in corrispondenza del Fe (Z=26). Il confronto della composizione dei primari con la composizione di un campione di materia specifico, quale il Sole, porta a risultati del tutto simili quando si tenga presente che l'abbondanza del Fe nella fotosfera solare è stata recentemente corretta di circa un fattore 10 in più.
Il carattere approssimativamente normale delle abbondanze dei nuclei pesanti suggerisce un'origine di tipo stellare in cui i processi di accelerazione delle particelle non siano talmente violenti da distruggere le abbondanze ‛termonucleari', favorendo quindi meccanismi di tipo elettromagnetico che permettono un'acquisizione graduale d'energia.
Come si è già brevemente anticipato, la composizione dei nuclei tuttavia presenta anche alcune anomalie vistose. La differenza più impressionante riguarda l'insieme dei nuclei leggeri (gruppo L: Li, Be, B), la cui abbondanza nei raggi cosmici è paragonabile (25%) a quella del gruppo ‛medio' (gruppo M: C, N, O, F), mentre risulta circa 105 volte superiore a quella che si riscontra nella composizione universale. Infatti gli elementi leggeri sono rapidamente consumati nelle reazioni nucleari che avvengono negli interni stellari. L'interpretazione comunemente accettata è che Li, Be e B siano il prodotto di frammentazioni di nuclei più pesanti nelle interazioni nucleari fra i raggi cosmici e i costituenti del gas interstellare, anche se non è ancora possibile escludere la possibilità di frammentazione prevalente nelle sorgenti stesse dei raggi cosmici. I progenitori immediati del gruppo L sono gli elementi del gruppo M. Il calcolo delle sezioni d'urto per la frammentazione mostra che è possibile riprodurre l'abbondanza degli elementi leggeri se tutti i raggi cosmici attraversano uno strato di materia (idrogeno) il cui spessore risulti
x≃4 g/cm2. (8)
(In realtà la composizione chimica osservata può essere meglio interpretata assumendo che la quantità media di materia attraversata sia funzione dell'energia, nel senso che i raggi cosmici aventi un'energia intorno a 1 GeV/nucleone abbiano attraversato da 5 a 10 g/cm2 rispetto agli 1-2 g/cm2 attraversati dai raggi cosmici con energie intorno ai 100 GeV/nucleone). Si giunge a questo stesso valore anche quando si tenta di interpretare la grande abbondanza dell'isotopo 3He (≃10% dell'4He), praticamente irrilevante nella composizione universale, sulla base delle interazioni nucleari delle particelle α con la materia interstellare. Una conseguenza importante della (8) è la possibilità di stimare la vita media (π) dei raggi cosmici nella Galassia, qualora sia nota la densità media (-ρ) della materia interstellare nel volume da essi attraversato. In un modello in cui le traiettorie delle particelle siano confinate sul disco galattico, dove -ρ ≃1 atomo d'idrogeno per cm3 (≃1,7×10-24 g/cm3), si ottiene
dove la velocità delle particelle è stata posta uguale a c (velocità della luce). Nel caso di un modello d'alone galattico (si veda il cap. 6, È b), il volume occupato risulta circa 100 volte superiore a quello del disco, -ρ ≃10-2 atomi H/cm3, e quindi τ (alone) ≃3×108 anni. In entrambi i casi i tempi stimati risultano maggiori, per un fattore 103 o 104, dei tempi di transito delle particelle relativistiche, il cui confinamento richiede, pertanto, l'esistenza di campi magnetici galattici sufficientemente intensi e regolari. Tuttavia questo semplice schema interpretativo incontra delle difficoltà quando si tenta di includervi le abbondanze dei nuclei che vanno dal Cl al Mn (17≤Z≤25). Questi nuclei, la cui abbondanza è in media circa 100 volte superiore a quella degli elementi corrispondenti nella composizione ‛universale' (v. fig. 9), sono interpretati come prodotti di frammentazione di nuclei del ferro, i quali hanno un cammino libero medio d'interazione nel mezzo interstellare pari a circa 1/3 di quello degli elementi del gruppo M che, come si è detto, sono i progenitori immediati degli elementi del gruppo L. Il punto importante è che la produzione e la sopravvivenza nelle quantità osservate sia degli elementi del gruppo L sia di quelli con carica 17≤Z≤24 non è compatibile con il fatto che i raggi cosmici abbiano percorso cammini della stessa lunghezza media nel mezzo interstellare. Questa difficoltà può essere superata se si ammette che una parte dei raggi cosmici attraversi più materia interstellare della parte rimanente; in tal caso una distribuzione dei cammini di tipo esponenziale sembra in buon accordo con i dati sperimentali. Alternativamente sembra sia necessario postulare l'esistenza di almeno due componenti di raggi cosmici aventi origine e proprietà diverse. Un'indicazione in tal senso viene anche dalla scoperta recente di una differenza fra lo spettro d'energia dei nuclei del Fe e quello delle altre componenti dei raggi cosmici (v. sopra, È b).
Naturalmente la discussione precedente mostra anche che la composizione chimica dei primari al loro ingresso nell'atmosfera - e quindi presumibilmente anche in prossimità del sistema solare - non è quella presente alle sorgenti e ciò a causa delle modifiche introdotte dall'interazione dei raggi cosmici con il gas interstellare. Dalla composizione osservata si può risalire a quella delle sorgenti attraverso la conoscenza delle sezioni d'urto per la frammentazione, presupponendo un certo modello teorico per la propagazione dei raggi cosmici nel mezzo interstellare. Tuttavia, dato il grande margine d'incertezza connesso con la scelta di un modello particolare, risulta più conveniente limitare la discussione a considerazioni di tipo generale. In primo luogo occorre notare che la presenza dell'effetto pari-dispari, menzionato in precedenza, implica che la composizione dei raggi cosmici osservata non è completamente dominata dai processi di frammentazione ed è quindi ancora almeno in parte rappresentativa delle abbondanze alle sorgenti. In secondo luogo, se si tiene presente che la sezione d'urto per la frammentazione dei nuclei del Fe è pari a circa tre volte quella degli elementi del gruppo M, ne consegue che l'abbondanza del ferro alle sorgenti dev'essere circa tre volte quella osservata e cioè circa il 30% di quella del carbonio. In particolare, la sovrabbondanza del ferro risulta ancor più pronunciata alle alte energie, poiché lo spettro d'energia del Fe è relativamente meno ripido di quello delle altre componenti. Se a queste considerazioni si aggiunge che le abbondanze dei protoni e delle particelle α sono il 10-20% delle corrispondenti abbondanze di idrogeno e di elio nella composizione ‛universale', si può dedurre che il rapporto ferro/idrogeno nelle sorgenti dei raggi cosmici è almeno 30 volte maggiore di quello riscontrato nella composizione ‛universale'. Questa composizione chimica estremamente ricca negli elementi piu pesanti favorisce un'identificazione delle sorgenti dei raggi cosmici con stelle nelle fasi terminali dell'evoluzione stellare, quali sono le ‛supernove'. Nel caso di un modello a due componenti appare abbastanza naturale, alla luce di quanto s'è detto in precedenza, ipotizzare una prima classe di sorgenti (supernove e pulsar) che sia essenzialmente responsabile della produzione e dell'accelerazione dei nuclei intorno al picco del Fe, mentre una seconda classe di sorgenti (per ora puramente ipotetica), molto più importante dal punto di vista energetico, dovrebbe generare le altre componenti, e cioè protoni, particelle α, gli elementi del gruppo M (C, N, O) ed, eventualmente, Ne, Mg, Si e S.
La scoperta di nuclei primari oltre il picco del Fe è piuttosto recente (1967). Anche se i dati non sono ancora sufficienti per formulare una composizione chimica dettagliata, il risultato sorprendente è costituito dalla grande estensione della distribuzione degli elementi, che apparentemente arriva a includere anche nuclei transuranici: alcune tracce scoperte in emulsioni fotografiche sono state interpretate come dovute a nuclei con carica nucleare Z≃106. Sebbene i flussi associati a questi nuclei ultrapesanti siano molto piccoli, e quindi trascurabili dal punto di vista dell'energia trasportata, essi possono rivelarsi estremamente importanti per i problemi relativi alla natura delle sorgenti e dei meccanismi d'accelerazione e alla propagazione dei raggi cosmici nel mezzo interstellare.
e) Isotropia.
La presenza di un'anisotropia nella direzione d'arrivo della radiazione cosmica potrebbe rivelarsi un elemento molto importante per poter discriminare fra le varie teorie sull'origine dei raggi cosmici e pertanto si giustifica il grande impegno sperimentale posto in questo settore. In generale ci si può aspettare che la distribuzione dei raggi cosmici presenti un'anisotropia più marcata nel caso di una loro origine galattica che non in quello di un'origine extragalattica. In quest'ultimo caso, anche se il flusso che investe la Galassia fosse marcatamente anisotropo a causa, per esempio, del moto della Galassia stessa, tuttavia il valore dell'anisotropia verrebbe notevolmente ridotto nel processo di diffusione delle particelle all'interno della Galassia ad opera dei campi magnetici galattici che a tutti gli effetti agirebbero come centri di diffusione.
In linea di principio la misura della distribuzione angolare dei raggi cosmici in arrivo dovrebbe essere effettuata al di fuori della zona d'influenza della Terra e, ancora meglio, lontano dal Sole, dove gli effetti perturbatori dovuti al vento solare diventano trascurabili. Ciò è particolarmente vero per i nuclei di bassa energia cinetica (≾1013 eV/nucleone), il cui comportamento può essere radicalmente alterato nell'attraversamento della cavità solare. Purtroppo i flussi relativamente modesti e il grado elevato di isotropia della radiazione cosmica richiedono l'impiego di grandi apparati sperimentali, la cui realizzazione è stata finora possibile solo in impianti ancorati al suolo.
Un'altra difficoltà nello studio della distribuzione angolare dei raggi cosmici nasce dal fatto che gli apparati di rivelazione in generale sfruttano il moto di rotazione della Terra per osservare una fascia di cielo centrata a una certa declinazione, la quale naturalmente varia da apparato ad apparato. Siccome risulta praticamente impossibile intercalibrare i vari apparati sperimentali, ciò che si ottiene sono le variazioni siderali dell'intensità della radiazione cosmica a differenti declinazioni, dalle quali si possono dedurre soltanto le componenti equatoriali di un'eventuale anisotropia.
I risultati ottenuti finora possono essere riassunti come segue, premettendo che i risultati stessi riguardano la radiazione cosmica nel suo complesso, dal momento che non si hanno informazioni sull'isotropia delle singole componenti, inclusa quella elettronica.
Per le energie dei nuclei inferiori a 1013 ev/nucleone i dati più importanti si riferiscono all'intervallo di energia 1011-1012 eV, per il quale una notevole quantità d'informazione è stata ottenuta mediante la rivelazione della componente muonica sotto terra. Dai dati così ottenuti si può inferire l'esistenza di un'anisotropia δ=(Fmax−Fmin)/(Fmax+Fmin)≃7×10-4, dove Fmax ed Fmin rappresentano rispettivamente i flussi massimi e minimi osservati nelle varie direzioni.
Tuttavia, poiché in questo intervallo d'energia l'influenza del campo magnetico interplanetario variabile sulla propagazione delle particelle può essere ancora estremamente importante e, d'altra parte, non esiste ancora un modello sufficientemente sicuro per detrarre questi effetti spuri, non è assolutamente chiaro quanto questa anisotropia rifletta una situazione realmente presente nel mezzo interstellare al di fuori della cavità solare.
Il primo indizio dell'esistenza di un'anisotropia genuina nella distribuzione dei raggi cosmici al di fuori della zona d'influenza del Sole proviene dall'analisi dei dati per energie superiori a 1013 eV, ottenuti dallo studio degli sciami. In particolare, nell'intervallo di energie compreso fra 1013 e 1014 eV, i dati ottenuti indipendentemente da due gruppi di ricerca attraverso lo studio dei piccoli sciami concordano nell'indicare un'anisotropia la cui ampiezza è dell'ordine di 5×10-4.
Per quanto riguarda il campo di energie più elevate (>1014 eV), la situazione sperimentale appare alquanto confusa e controversa. Sebbene alcuni autori giungano alla conclusione che esistono prove di una distribuzione anisotropica nell'intervallo di energia compreso fra 1014 e 1017 eV, tuttavia non tutti concordano su queste conclusioni e, pertanto, le prove addotte non sembrano certamente conclusive. Ancora più incerta è la situazione nel caso di energie superiori a 1017 eV, in cui, fra l'altro, giuoca un ruolo determinante anche la mancanza di un numero di eventi sufficiente a permettere uno studio adeguato dal punto di vista statistico.
Questa situazione alle alte energie è a prima vista abbastanza sorprendente, in quanto il cambiamento di pendenza nello spettro d'energia dei primari intorno a 1015 eV (v. fig. 6) è stato comunemente interpretato nel senso che a questa energia cominciano a diminuire le capacità di confinamento dei raggi cosmici da parte dei campi magnetici galattici, cosicché i raggi cosmici possono propagarsi molto più facilmente verso l'esterno della Galassia. Questo implica un aumento del grado di anisotropia con l'energia delle particelle fino ad arrivare alle altissime energie per le quali la Galassia diventa praticamente ‛trasparente' alla propagazione dei nuclei interessati.
In conclusione, nonostante vi siano prove di variazioni siderali dell'intensità della radiazione cosmica su tutto lo spettro d'energia, l'esistenza di un'anisotropia di origine galattica appare accertata solo nell'intervallo d'energia 1013-1014 eV. Da notare che, a causa della forma dello spettro d'energia, ciò interessa una frazione abbastanza piccola del contenuto energetico globale della radiazione cosmica. Purtroppo lo studio della distribuzione angolare della radiazione cosmica alle energie più basse, cui corrisponde gran parte del contenuto energetico, appare attualmente impraticabile a causa dell'azione fortemente perturbatrice del mezzo interplanetario.
f) Informazioni dedotte dallo studio dei raggi γ primari.
In linea di principio l'astronomia dei raggi γ può fornire uno strumento estremamente efficace e unico per lo studio dei raggi cosmici nell'Universo nelle condizioni astrofisiche più disparate. L'interazione dei nuclei dei raggi cosmici con la materia (gas interstellare, gas intergalattico, ecc.) porta alla formazione di raggi γ di alta energia attraverso il decadimento del mesone neutro π0 secondo lo schema di reazioni di cui già si è detto nel cap. 3. I raggi γ così prodotti sono facilmente riconoscibili attraverso le caratteristiche dello spettro di produzione, cioè del numero di raggi γ in funzione dell'energia, che risulta avere un massimo intorno a circa 70 MeV.
Se si assume lo spettro dei raggi cosmici qual è osservato in prossimità del sistema solare, si trova che i raggi γ di alta energia sono essenzialmente prodotti dai raggi cosmici compresi in un intervallo di energia che va da alcune centinaia di MeV ad alcune decine di GeV. La ragione di questo va ricercata nel fatto che alle basse energie esiste un limite inferiore all'energia per nucleone corrispondente alla produzione dei mesoni π0 mentre andando verso le alte energie il numero di particelle decresce più rapidamente dell'efficienza nella produzione dei raggi γ stessi. Ancora, assumendo valida l'intensità dei raggi cosmici misurata nei pressi del sistema solare, il numero di fotoni γ prodotto per unità di tempo e per atomo d'idrogeno del mezzo interstellare risulta, dai calcoli, pari a circa 1,5×10-25 γ/s. Questo ritmo di produzione, accoppiato con la distribuzione di materia del gas interstellare, porterebbe a flussi di raggi γ facilmente osservabili con le attuali tecniche strumentali, qualora tutta la Galassia fosse pervasa dalla radiazione cosmica con una densità simile a quella locale. Pertanto l'astronomia dei raggi γ si presenta come una tecnica estremamente preziosa per lo studio della distribuzione dei raggi cosmici su grande scala, in un intervallo di energie estremamente rappresentativo del contenuto energetico globale della radiazione cosmica.
Notoriamente le osservazioni di raggi γ di origine celeste debbono essere effettuate ad altissima quota, dove lo spessore dell'atmosfera residua è sufficientemente piccolo, oppure, ancor meglio, a bordo di satelliti artificiali. Negli anni recenti l'astronomia dei raggi γ si è avvalsa dell'impiego di due satelliti: il primo in ordine di tempo è stato il satellite statunitense SAS-2 (dove SAS sta per Small Astronomical Satellite), lanciato alla fine del 1972 e capace di osservare fotoni γ aventi un'energia superiore a 30 MeV fino a circa 200 MeV. Questo satellite ha effettuato osservazioni per due anni. Un secondo satellite utilizzato per lo studio dei raggi γ, con caratteristiche simili a quelle del SAS-2, è stato lanciato nell'ambito della collaborazione europea per la ricerca spaziale. Si tratta del COS B lanciato nell'agosto 1975 e tuttora funzionante.
I risultati principali, per quanto concerne la materia trattata in questo articolo, possono essere così riassunti: a) l'emissione di raggi γ di origine galattica è principalmente confinata in un disco sottile centrato intorno al piano galattico, nel quale si riconoscono strutture d'emissione che sostanzialmente coincidono con le strutture su larga scala della Galassia (per es., i bracci a spirale) note attraverso gli studi effettuati in altri campi, in particolare in radioastronomia; b) l'emissione dal disco galattico risalta in modo chiaro sullo sfondo diffuso e quasi isotropo di raggi γ extragalattici, la cui origine è ancora oggetto di discussione. Qualitativamente l'intensità osservata lungo il piano galattico aumenta in modo considerevole a mano a mano che si traguarda verso le regioni centrali della Galassia ed è caratterizzata dalla presenza di picchi più o meno pronunciati identificati con vere e proprie sorgenti di raggi γ. A tutt'oggi ne sono state scoperte una trentina, di cui un certo numero associate a pulsar, tutte localizzate in prossimità del piano galattico.
Per quanto detto in precedenza, sembra ragionevole tentare di interpretare l'emissione di raggi γ galattici, dopo aver sottratto il contributo dovuto alle sorgenti discrete note, sulla base dell'interazione fra i raggi cosmici e il gas interstellare. Tuttavia, il rapporto fra l'intensità osservata in direzioni prossime al centro galattico e quella osservata in altre direzioni risulta troppo grande per essere interpretato con un modello semplice in cui i raggi cosmici sono distribuiti uniformemente nella Galassia. Si può riprodurre l'andamento qualitativo delle intensità osservate se si assume che la densità dei raggi cosmici è una funzione decrescente delle distanze dal centro galattico, cioè a dire che la densità dei raggi cosmici nelle regioni centrali della Galassia è più elevata di quella nei pressi del sistema solare. L'esistenza di un gradiente di questo tipo nella distribuzione dei raggi cosmici porterebbe anche un elemento decisivo a favore di una teoria galattica della loro origine.
È bene precisare subito, tuttavia, che l'interpretazione dell'emissione galattica è ancora incerta. In primo luogo non si può escludere, sulla base delle caratteristiche delle sorgenti di raggi γ finora scoperte, che una frazione importante dell'emissione galattica sia dovuta al contributo integrato di sorgenti discrete sufficientemente distanti e deboli da non poter essere riconosciute come sorgenti individuali a causa della bassa risoluzione angolare degli strumenti usati (alcuni gradi). Inoltre, gli spettri d'energia dei fotoni γ, determinati con precisione sufficiente nell'intervallo 30-200 MeV lungo varie direzioni nel disco galattico, presentano un andamento nettamente diverso da quello dello spettro caratteristico che si origina nell'interazione nucleare dei raggi cosmici con la materia diffusa che, come si è detto, presenta un massimo intorno a 70 MeV. Pertanto, anche se il contributo all'emissione di fotoni γ galattici da sorgenti non risolte dovesse alla fine risultare non molto importante, le caratteristiche degli spettri osservati impongono la presenza di altri meccanismi per la produzione dei fotoni γ. Fra questi i più importanti nell'economia della Galassia sono: a) l'interazione Compton fra i fotoni ottici prodotti dalle stelle e gli elettroni ultrarelativistici primari; b) l'emissione di Bremsstrahlung dovuta agli urti degli elettroni dei raggi cosmici con energie superiori ad alcune decine di MeV contro i nuclei del gas interstellare.
Per lo studio della componente nucleare dei raggi cosmici nella Galassia, le osservazioni dei raggi γ di alta energia, per quanto potenzialmente interessanti, devono attendere un chiarimento sul contributo relativo delle varie componenti, potenziali sorgenti di raggi γ, che sarà possibile solo attraverso un miglioramento delle osservazioni. In pratica, quindi, bisognerà attendere la nuova generazione di satelliti appositamente studiata per l'astronomia dei raggi γ.
In conclusione, vale la pena di ripetere che le osservazioni dei raggi γ di alta energia forniscono l'unico mezzo per studiare la distribuzione su grande scala, galattica ed extragalattica, della componente nucleare dei raggi cosmici. In tal senso l'astronomia dei raggi γ può giocare lo stesso ruolo fondamentale svolto dalla radioastronomia relativamente allo studio degli elettroni relativistici nell'Universo.
5. Elettroni.
a) Elettroni in prossimità della Terra.
La scoperta della componente elettronica nella radiazione cosmica primaria è relativamente recente. All'inizio degli anni cinquanta era stato stabilito un limite superiore: l'energia associata al flusso di elettroni risultava minore, di circa l'1-2%, di quella contenuta nel flusso totale e pertanto abbastanza trascurabile dal punto di vista dell'economia della primaria. Tuttavia, l'interpretazione corrente dello spettro non termico galattico nel dominio delle onde radio, in termini di emissione di sincrotrone di elettroni ultrarelativistici accelerati nei campi magnetici galattici, ha stimolato l'attività sperimentale destinata alla ricerca degli elettroni primari. Cosicchè dal 1961, anno in cui per la prima volta sono stati rivelati elettroni di origine interstellare, a tutt'oggi si è accumulata una notevole quantità di dati sperimentali, tale da darci un quadro abbastanza preciso della composizione e dello spettro della componente elettronica in un intervallo di energie che va da 0,25 MeV a 800 GeV (v. fig. 10).
Per energie maggiori di alcuni GeV l'andamento spettrale è ben rappresentato da una legge di potenza dello stesso tipo di quella valida per la componente nucleare, con un esponente γ≃2,6. Va tenuto presente, tuttavia, che per energie superiori ad alcune decine di GeV i dati ottenuti nei vari esperimenti sono molto dispersi e coerenti con un graduale aumento della pendenza dello spettro. Al di sotto di 1 GeV lo spettro si appiattisce per risalire di nuovo a energie minori di 40 MeV. È evidente la somiglianza con il comportamento dello spettro della componente nucleonica; la variabilità temporale del flusso osservato per energie minori di 1 GeV è dovuta alla modulazione solare, la quale però non ha praticamente più alcuna influenza per valori al di sopra di alcuni GeV, dove il flusso di elettroni dovrebbe essere completamente rappresentativo della situazione nel mezzo interstellare.
Qual è l'origine della componente elettronica? Il problema è sostanzialmente quello di verificare una delle due possibilità seguenti: a) la componente elettronica è stata prodotta nelle interazioni dei raggi cosmici con il mezzo interstellare (elettroni secondari); b) gli elettroni sono stati accelerati, eventualmente assieme alla componente nucleonica, nelle sorgenti acceleratrici delle particelle (elettroni primari). Nel caso a), e per energie superiori a circa 100 MeV, il processo più importante è quello che potremmo chiamare del ‛decadimento mesonico', in cui i mesoni carichi π, prodotti nelle interazioni nucleari, danno luogo agli elettroni secondo il decadimento π±→μ±→e±. In pratica, data la composizione chimica dei raggi cosmici e del mezzo interstellare, le interazioni nucleari di gran lunga più importanti sono le collisioni pp, pa e ap. Per quanto le sezioni d'urto per la produzione dei π± non siano completamente note, l'uso dei dati ottenibili sia dalle macchine acceleratrici sia dalla produzione dei π± nell'interazione dei raggi cosmici con i nuclei dell'atmosfera terrestre o l'uso di modelli teorici permettono di ricavare uno spettro di produzione degli elettroni secondari sufficientemente preciso, almeno nell'intervallo d'energia che interessa. Un fatto molto importante è che la distribuzione di carica prevista è caratterizzata da un eccesso positivo, più precisamente il rapporto fra il numero di positoni e di elettroni prodotti è di circa 3 per energie degli elettroni minori di 1GeV, mentre tende a 1 per energie maggiori di 1 GeV. In alcuni degli esperimenti per la misura della componente elettronica sono stati impiegati degli spettrometri magnetici in grado di separare positoni ed elettroni. Per energie intorno ai 5 6eV si è trovato che circa il 95% del flusso totale è dato dagli elettroni, in nettissimo contrasto con quanto appunto si prevede nel caso di produzione secondaria. Pertanto gran parte della componente elettronica è di origine primaria nel senso della possibilità b) di cui sopra. Ciò è avvalorato dal fatto che il flusso totale di elettroni secondari calcolato risulta circa 10 volte minore di quello osservato.
Per energie inferiori a 1 GeV la situazione è più complicata e ancora controversa. Per esempio nell'intervallo fra 10 MeV e 100 MeV il rapporto fra elettroni e positoni è pari a circa 2,3, mentre fra 2 MeV e 10 MeV si è trovato che è circa 0,02. Pertanto la parte dello spettro a basse energie potrebbe essere interpretata come dovuta a elettroni liberati nel processo di knock-on nell'interazione dei cosmici primari con gli atomi del mezzo interstellare; anche l'andamento spettrale è in accordo con questa idea. Ma è stato anche ipotizzato che questi elettroni possano essere di origine solare.
b) Elettroni nel cosmo.
Ci si può chiedere come mai abbiamo discusso con un certo dettaglio le osservazioni relative alla componente elettronica che, dopotutto, convoglia soltanto l'1% dell'energia associata ai raggi cosmici. Qui il punto importante è che sia gli elettroni relativistici sia quelli ultrarelativistici, accelerati nei campi elettromagnetici presenti praticamente ovunque nel cosmo, emettono spettri di radiazione tipicamente non termici, il cui riconoscimento risulta pertanto relativamente facile. Così l'osservazione e lo studio della radiazione non termica permette, almeno in linea di principio, di risalire dalle proprietà degli elettroni nello spazio e nelle sorgenti ai parametri astrofisici importanti per la loro accelerazione e propagazione e, per induzione, di ottenere informazioni importanti sui raggi cosmici in generale.
Nelle condizioni astrofisiche che stiamo considerando, i processi più importanti per l'emissione di onde elettromagnetiche da elettroni relativistici sono ‛la radiazione di sincrotrone' e ‛il processo Compton inverso'. Il primo si realizza tipicamente quando il moto di un elettrone viene accelerato in un campo magnetico statico, mentre il secondo si verifica nell'urto fra un elettrone relativistico e un fotone di bassa energia (v. fig. 11). L'intensità della radiazione emessa dipende nei due casi rispettivamente dalla densità d'energia del campo magnetico statico e da quella dei fotoni di bassa energia, il cui rapporto esprime quindi anche l'importanza relativa dei due processi.
Il diagramma della fig. 12 illustra l'energia dei fotoni prodotti in funzione dell'energia degli elettroni e dei parametri caratteristici del mezzo interstellare, delle radiosorgenti galattiche ed extragalattiche e dello spazio intergalattico; come si può notare, viene coperto un dominio che va dalle radioonde ai raggi γ. Da un esame del diagramma, inoltre, si ricava immediatamente che l'energia dei fotoni emessi dipende dal quadrato dell'energia degli elettroni, per cui lo spettro della radiazione emessa da un insieme di elettroni sarà dominato dallo spettro d'energia degli elettroni stessi. Ad esempio, uno spettro di potenza delle particelle si traduce in uno spettro di potenza della radiazione di sincrotrone (o del Compton inverso), con una relazione ben precisa fra gli esponenti. Ed è in tal senso che si deve intendere l'espressione ‛radiazione non termica'.
Ma vediamo ora di illustrare l'importanza dei concetti sopra esposti attraverso due esempi strettamente legati al tema di questa esposizione.
Il campo magnetico galattico. - L'interpretazione dell'emissione di onde radio dalla Galassia in termini del meccanismo di radiazione di sincrotrone porta al seguente schema:
in base al quale il campo magnetico medio nel disco galattico dovrebbe avere un'intensità di circa 10-5 gauss. Appare, però, più probabile che il campo magnetico medio sia di circa 3×10-6 gauss; infatti varie misure legate sia all'osservazione dell'effetto Zeeman sulla riga a 21 cm dell'idrogeno neutro interstellare, sia all'osservazione dell'effetto Faraday sugli impulsi polarizzati linearmente di un certo numero di pulsar, nonché argomenti teorici relativi all'elasticità del mezzo interstellare, indicano campi magnetici compresi fra 1×10-6 e 3×10-6 gauss. Pertanto lo schema precedente può essere così invertito:
In tal caso la densità media degli elettroni nel disco galattico risulterebbe circa 10 volte superiore al valore osservato in prossimità della Terra e quest'ultimo non sarebbe quindi rappresentativo della situazione media nel mezzo interstellare. Allo stato presente non esistono dati in contrasto con questa possibilità. Poiché appare impossibile che i raggi cosmici siano confinati nella Galassia con una densità d'energia molto maggiore di quella osservata in prossimità del sistema solare, ne consegue anche che il rapporto fra protoni ed elettroni nei raggi cosmici dovrebbe essere una grandezza variabile con la posizione nel disco galattico.
Vita media degli elettroni nella Galassia. - Naturalmente l'emissione di radiazione avviene a spese dell'energia cinetica degli elettroni, la quale viene ridotta del 50% in un tempo caratteristico:
dove B2/8π e wfot sono le densità di energia rispettivamente del campo magnetico e dei fotoni di bassa energia espresse in eV/cm3. Poiché le perdite ‛di sincrotrone' e ‛Compton' sono più forti per gli elettroni di alta energia, gli spettri vengono a modificarsi col passare del tempo: per esempio, uno spettro di potenza si modifica come indicato nella fig. 13. Ne consegue che uno studio accurato dello spettro degli elettroni e delle sue controparti nei domini delle radioonde e dei raggi X può dare informazioni importanti sulla vita media degli elettroni in certe zone dello spazio cosmico e quindi anche sui tempi di residenza dei raggi cosmici.
A titolo d'esempio, abbiamo visto che lo spettro degli elettroni osservati fra 10 e 800 GeV è rappresentabile con un unico spettro di potenza con esponente 2,6; se questo è lo spettro di ‛iniezione' delle sorgenti, ciò implica che elettroni di 800 GeV non hanno subito perdite apprezzabili. Poiché nel disco galattico si ha tipicamente B2/8π+wfot≃1 eV/cm3, dalla (10) si deduce immediatamente che gli elettroni, e quindi i raggi cosmici, non possono essere stati confinati nel disco galattico per un tempo maggiore di 4×105 anni. D'altra parte, se il cambiamento di pendenza nello spettro degli elettroni primari a circa 3 GeV viene attribuito alle perdite ‛di sincrotrone' e ‛Compton', dalla (10) consegue Ts,c≃108 anni in coerenza con il tempo di confinamento dei raggi cosmici in un modello di alone galattico. Sfortunatamente la conoscenza dello spettro degli elettroni, in particolare alle alte energie, è ancora troppo incerta per poter trarre delle conclusioni ben definite.
6. Il problema dell'origine.
a) La teoria galattica in generale.
Le tre ipotesi che tradizionalmente vengono citate quando si considera il problema dell'origine dei raggi cosmici sono: l'ipotesi ‛locale', l'ipotesi ‛galattica' e quella ‛universale'. Esse corrispondono a una prima e rudimentale classificazione delle dimensioni spaziali in cui è presente il fenomeno e cioè: il sistema solare, la Galassia, tutto l'Universo. Va subito detto che la teoria galattica è quella che a tutt'oggi raccoglie il consenso della maggioranza degli studiosi ed è quindi anche quella che ha raggiunto un maggior livello di elaborazione. Inoltre la scoperta delle radiogalassie, la cui emissione è correttamente interpretata in termini di radiazione di sincrotrone, ha reso ancor più plausibile l'ipotesi galattica, in quanto ha dimostrato che la produzione copiosa di particelle relativistiche su scale galattiche è non solo possibile, ma relativamente frequente: se si considerano le enormi quantità d'energia coinvolte nelle radiogalassie, la nostra galassia risulterebbe tutto sommato una modesta sorgente di raggi cosmici. Tuttavia, come vedremo, la teoria galattica presenta ancora diversi aspetti piuttosto oscuri; perciò il fatto che essa riscuota maggior favore di altre teorie alternative non è tanto dovuto ai suoi meriti, quanto alle difficoltà ancor più grandi incontrate dalle altre teorie. In particolare il fatto che lo spettro e la composizione dei raggi cosmici prodotti nei brillamenti solari siano completamente diversi da quelli osservati nella radiazione cosmica, nonché l'impossibilità di rendere conto dell'alto grado di isotropia per le particelle di alta energia, fa sì che la teoria dell'origine solare abbia oggi un valore puramente storico. Tuttavia è interessante notare che un aspetto positivo di questa teoria è rappresentato dalla sua economicità in termini energetici: infatti sarebbe sufficiente che una parte su 108 dell'energia emessa dal Sole risiedesse in raggi cosmici per mantenere uno stato di quasi stazionarietà.
Tutte le altre teorie, per il fatto stesso che coinvolgono dimensioni spaziali assai grandi, comportano richieste di tipo energetico estremamente grandi.
Ciò suggerisce un'importante considerazione di carattere concettuale: è necessario postulare l'esistenza, in natura, di meccanismi capaci di trasformare con altissima efficienza l'energia a disposizione delle sorgenti di raggi cosmici, che, in ultima analisi, è di tipo gravitazionale, in energia sotto forma di particelle relativistiche. La ricerca di questi meccanismi rappresenta uno degli aspetti più appassionanti dell'astrofisica delle alte energie.
In questo articolo non ci occupiamo dell'ipotesi locale, mentre illustreremo in dettaglio la teoria galattica (ÈÈ b-f) e faremo una breve esposizione della teoria universale (È h). Nella teoria galattica si suppone che le particelle relativistiche siano prodotte all'interno della Galassia e ivi confinate per un certo tempo dai campi magnetici galattici. Una possibilità è che i raggi cosmici siano essenzialmente confinati nel disco ricco di gas della Galassia, oppure in una regione più vasta di forma quasi sferica, detta ‛alone' (v. fig. 14).
b) Modello d'alone.
L'esistenza di un alone con i seguenti parametri fisici: raggio medio pari a 45.000 anni luce, densità del gas minore di 10-2 atomi idrogeno/cm3 e campi magnetici dell'ordine di 3×10-6 gauss, era stata ipotizzata parecchi anni or sono soprattutto per rendere conto dell'alto grado d'isotropia dei raggi cosmici.
In un primo tempo si era creduto che il fondo di radiazione non termica osservato nella banda radio alle alte latitudini galattiche costituisse l'evidenza sperimentale dell'esistenza di un alone galattico: questa radiazione veniva interpretata come emissione di sincrotrone di elettroni ultrarelativistici accelerati nei campi magnetici di una regione quasi sferica con raggio tipico dell'ordine di 6×104 anni luce. Ma le osservazioni presenti mostrano che il fondo di radiazione non termica è in gran parte risolto spazialmente secondo strutture linguiformi che fuoriescono dal piano galattico, e di fatto fra queste strutture esistono dei ‛buchi' in corrispondenza dei quali si registra ben poca emissione. Analogamente anche le osservazioni radioastronomiche intese a rilevare aloni associati a galassie simili alla nostra hanno dato esito negativo.
Anche sul piano concettuale questo modello presenta delle difficoltà. Quello che si richiede è che i raggi cosmici, prodotti da sorgenti localizzate nel disco galattico, possano essere scambiati liberamente fra le varie regioni, dal disco all'alone e viceversa, in modo da realizzare una distribuzione uniforme delle proprietà della radiazione cosmica. Poiché la propagazione delle particelle è guidata dai campi magnetici, ciò equivale a ipotizzare una perfetta connessione magnetica fra il disco e l'alone: la presenza di rotazione differenziale fra queste due regioni, nonché tutta una serie di instabilità associate alla propagazione dei raggi cosmici, porta in realtà a concludere che i ‛cammini' magnetici siano di fatto interrotti, per cui le particelle, una volta lasciato il disco galattico, non hanno più, praticamente, alcuna possibilità di ritorno. L'immagine più corretta in senso fisico appare quella di un alone dinamico, qualcosa di simile a un ‛vento' galattico.
Naturalmente una determinazione sufficientemente precisa dell'età dei raggi cosmici potrebbe costituire un test decisivo sul ruolo dell'alone. Sfortunatamente, come s'è detto nel cap. 5, le incertezze relative allo spettro della componente elettronica non permettono ancora di giungere a delle stime adeguate. Tuttavia un'altra possibilità è rappresentata dallo studio di certi isotopi radioattivi, che decadono in tempi molto lunghi e che dovrebbero essere presenti nella radiazione cosmica primaria. In questo contesto particolarmente importante è l'isotopo 10Be, uno dei prodotti degli urti dei raggi cosmici con il mezzo interstellare, la cui vita media per decàdimento (a riposo) è di circa 4×106 anni. Quello che s'è fatto finora è consistito nello stimare indirettamente la sopravvivenza del 10Be attraverso il rapporto Be/(Li+B) osservato e nel costruire dei modelli di propagazione dei raggi cosmici: alcuni di questi modelli sono consistenti con una sostanziale sopravvivenza del 10Be, il che, tenendo conto della dilatazione relativistica dei tempi, conduce a calcolare vite medie minori di 2×107 anni, molto inferiori al tempo di confinamento richiesto in un modello d'alone. Tuttavia il fatto che i risultati dipendano dal modello adottato porta a concludere che bisognerà attendere una misura diretta dell'abbondanza del 10Be nella primaria, il che dovrebbe risultare possibile nei prossimi anni.
c) Il modello di disco e il problema dell'isotropia.
Se ci si orienta verso una teoria galattica per la quale un confinamento efficace dei raggi cosmici è limitato al disco galattico, uno dei problemi che sorgono è quello d'interpretare l'altissimo grado d'isotropia. La domanda che ci si pone è la seguente: fino a che punto è possibile costruire un modello teorico per la propagazione dei raggi cosmici nel mezzo interstellare che sia a un tempo compatibile con un'anisotropia dell'ordine di 10-4, con un tempo di confinamento tale da non eccedere in media circa 4 g/cm2 di materia attraversati e con le nostre conoscenze sulla struttura del campo magnetico galattico? Si consideri ad esempio l'ipotesi più semplice, e probabilmente anche più realistica, secondo la quale il moto dei raggi cosmici è caratterizzato da un processo di diffusione attraverso disomogeneità del campo magnetico galattico che provocano cambiamenti casuali nel cammino delle particelle. È chiaro che quanto più numerose saranno queste irregolarità tanto più efficiente sarà il mescolamento delle traiettorie delle particelle, e quindi tanto più efficace sarà il processo di isotropizzazione di una qualunque distribuzione iniziale delle traiettorie. In effetti, se con S si indica lo spessore del disco galattico e con L la lunghezza del cammino effettivamente percorso dalle particelle, ci si può aspettare un'anisotropia δ≃S/L. D'altra parte la lunghezza del cammino medio L risulterà proporzionale al numero delle irregolarità presenti sul cammino ‛indisturbato' e pertanto, se si indica con l il cammino libero medio delle particelle, risulterà L≃S2/l. Combinando quest'ultima relazione con la precedente, si ottiene:
l≃δ2 L. (11)
La lunghezza può essere espressa in termini della quantità media di materia attraversata e della densità media del mezzo interstellare; dalla relazione (9) si ha: L=cτ≃3×106 anni luce e, con δ≾10-4, si ottiene: l≾3×10-2 anni luce, valore molto minore di quello delle strutture trovate nel gas interstellare. Si noti che la stima dipende dal quadrato di δ e quindi dipende in modo determinante dal valore preciso dell'anisotropia della radiazione cosmica nel suo complesso. Tuttavia, come si è già detto nel cap. 4, lo studio della distribuzione angolare dei raggi cosmici verso le basse energie, dove risiede gran parte del contenuto energetico della radiazione cosmica, è particolarmente difficile a causa delle perturbazioni indotte nell'attraversamento della cavità solare. Se si assume che il grado di anisotropia apparentemente determinato nell'intervallo di energia 1013-1014 eV sia rappresentativo del comportamento globale della radiazione cosmica, allora si ha δ=5×10-4; corrispondentemente si ottiene l〈1 anno luce. In conclusione risulta ancora necessario invocare la presenza di irregolarità con dimensioni caratteristiche molto inferiori a quelle delle ‛nubi' interstellari, che vanno da una decina a un centinaio di anni luce. Tuttavia si deve notare che l'osservazione diretta di microstrutture del mezzo interstellare è ancora oggi fortemente limitata da difficoltà di ordine strumentale.
Dal punto di vista teorico non è difficile pensare a tutta una serie di meccanismi in grado di generare instabilità del mezzo interstellare e quindi onde idromagnetiche di varie lunghezze d'onda la cui sovrapposizione darebbe luogo alle irregolarità del campo magnetico. Tuttavia è possibile mostrare che, se tali onde idromagnetiche sono presenti, allora esse debbono interagire fortemente con i raggi cosmici determinandone una rapida accelerazione mediante un meccanismo del tipo di Fermi (v. sotto, È f). Ne consegue un decadimento altrettanto rapido di queste onde, a meno che l'agente fisico responsabile della loro produzione non disponga di un serbatoio d'energia in grado di sviluppare una potenza pari a quella convogliata nei raggi cosmici. In tal senso è stata recentemente elaborata una teoria secondo la quale un flusso di raggi cosmici, che si propaghi lungo le linee di forza del campo magnetico, produce instabilità del mezzo interstellare sotto forma di onde idromagnetiche che, a loro volta, agiscono da centri di diffusione delle particelle. L'importanza di una teoria di questo genere, in cui sono le particelle stesse a controllare il proprio modo di propagazione, è ovvia. Sfortunatamente un'analisi dettagliata mostra che nelle condizioni fisiche del mezzo interstellare questo meccanismo di autoregolazione è applicabile solo allo spettro di bassa energia, mentre per energie maggiori di 1011 eV le particelle non sono sufficientemente numerose da generare in modo efficace onde idromagnetiche della lunghezza d'onda appropriata alla loro diffusione.
In conclusione, il grado elevato di isotropia della radiazione cosmica non ha ancora trovato un'interpretazione soddisfacente nell'ambito dei modelli galattici.
d) Limiti alla natura delle sorgenti imposti dall'isotropia.
In un modello di disco l'alto livello di precisione raggiunto nelle misure dell'isotropia della radiazione cosmica permette di fare alcune considerazioni interessanti sulla distribuzione delle sorgenti.
Abbiamo visto che, se l'isotropia è dovuta a una diffusione tridimensionale, il cammino medio dalla sorgente alla Terra è amplificato di un fattore 1/δ. Assumendo per il momento il valore δ≃10-4, ne consegue che i raggi cosmici sono pervenuti a noi da distanze minori di 300 anni luce. Se, come vedremo più avanti, i raggi cosmici si sono originati in esplosioni di supernove, allora ci si aspetta che solo una o due supernove siano esplose negli ultimi 3×106 anni entro una distanza di 300 anni luce dal sistema solare. Pertanto le proprietà della radiazione osservata attualmente potrebbero essere correlate anche a un solo evento, il che ovviamente renderebbe abbastanza arbitrario ogni tentativo di estrapolazione su scala galattica delle nostre conoscenze. Ancor oggi questa possibilità di un unico evento non può essere completamente esclusa, anche perché i dati sulla variazione secolare della radiazione cosmica non sono sufficientemente precisi.
Se, d'altro canto, si assume come tipica un'anisotropia δ≃5×10-4, allora la distanza media delle sorgenti diventa minore di 2×103 anni luce: entro questa regione del disco possono essere esplose un centinaio di supernove e le proprietà dei raggi cosmici vengono ricondotte alle proprietà medie degli oggetti.
Ovviamente gli argomenti trattati sopra escludono automaticamente la possibilità di un contributo sostanziale al flusso di raggi cosmici da parte del nucleo galattico, dal momento che la sua distanza dal Sole è di 3×104 anni luce, a meno che non si invochi una propagazione attraverso un ipotetico alone.
e) Bilancio energetico.
La quasi stazionarietà del fenomeno su una scala di almeno 109 anni implica l'esistenza di sorgenti di raggi cosmici in grado di bilanciare quelle perdite che sono dovute principalmente alla fuga delle particelle. Ovviamente la perdita d'energia è data dal rapporto fra l'energia totale in raggi cosmici (WRC) contenuta nel sistema galattico (volume V) e il tempo di confinamento (τ). Dall'equazione (9) si ottiene immediatamente:
dove con Mgas si è indicata la massa di gas contenuta nel volume di confinamento. Qui il punto importante da notare è che il gas risulta essenzialmente concentrato nel disco galattico, per cui la stima precedente non viene a dipendere, fortunatamente, dal modello considerato (alone o disco). Per convenienza d'ora in poi esprimeremo le masse degli oggetti in ‛masse solari': 1 massa solare=1 M⊙=2×1033g. Si ha allora, con buona approssimazione, Mgas≃5×109 M⊙=1043g e quindi, tenendo presente la (6),
perdita d'energia≃1041 erg/s. (13)
Questa, naturalmente, è anche la potenza che dev'essere fornita dalle sorgenti galattiche per poter mantenere la quasi stazionarietà. Se si tiene presente che i raggi cosmici possono aver attraversato parte della materia in prossimità delle sorgenti che li hanno prodotti, allora la stima precedente assume il carattere di un valore ‛minimo'. Se, d'altro canto, le particelle percorrono cammini prevalentemente nelle zone fra le nubi del mezzo interstellare, dove la densità del gas è inferiore a -ρ, allora la stima è per eccesso. In conclusione, considerando tutte le incertezze, si può ritenere che la potenza espressa dalla (13) sia rappresentativa dei modelli galattici, anche se non è ancora possibile escludere un ordine di grandezza in più o in meno.
Qual è l'origine di questa potenza? Se si tiene presente la complessità del nostro sistema galattico, a prima vista può sembrare praticamente impossibile dare una risposta sufficientemente precisa a questa domanda. Tuttavia, se si riflette che 1041 erg/s liberati sotto forma di particelle relativistiche rappresentano poco meno di un millesimo dell'energia totale liberata dalla Galassia attraverso processi termici (emissione luminosa delle stelle), si comprende che l'ammontare d'energia in gioco è tale da delimitare in modo estremo le possibilità interpretative. Le teorie proposte possono essere suddivise in due categorie a seconda della localizzazione del processo di accelerazione dei raggi cosmici: a) accelerazione sistematica distribuita su tutta la vita dei raggi cosmici nella Galassia, quindi di lunga durata ma di efficienza modesta; b) accelerazione localizzata alle sorgenti dei raggi cosmici e intimamente connessa con il processo di iniezione, di breve durata ma molto efficiente. Le varie teorie sull'origine dei raggi cosmici che si sono susseguite in questi ultimi quarant'anni differiscono per il peso diverso attribuito ai processi a) e b), in relazione al quale variano anche le categorie d'oggetti che possono svolgere il ruolo di sorgenti. Se le caratteristiche richieste all'iniezione non sono particolarmente importanti, allora varie classi di stelle possono risultare candidate come sorgenti di raggi cosmici; mentre se le caratteristiche richieste sono eccezionali, eccezionali saranno anche i fenomeni da ricercare e al limite solo le esplosioni di supernove potranno fornire un riferimento possibile. È interessante notare come, storicamente, si sia passati dall'ipotesi di attribuire un peso preponderante all'accelerazione nella Galassia alle ipotesi attuali che attribuiscono tutto il peso dell'accelerazione alle sorgenti, riservando al mezzo interstellare e ai campi magnetici galattici solo il ruolo di confinamento e di isotropizzazione della radiazione cosmica. Ovviamente questo cambiamento di tendenza è stato determinato dal progredire delle nostre conoscenze sulla fisica della Galassia e in particolare dal riconoscimento che l'energetica dei processi che avvengono nelle stelle è molto più differenziata e importante di quanto non si pensasse alcune decine di anni fa.
f) Accelerazione nello spazio interstellare: meccanismo di Fermi.
In generale l'accelerazione delle particelle cariche, che si suppone siano iniettate nello spazio interstellare da vari tipi di sorgenti, è riconducibile all'azione dei campi elettrici indotti da variazioni temporali delle intensità dei campi magnetici galattici. Osserviamo che, essendo la conduttività elettrica del gas interstellare estremamente elevata, non vi sono campi elettrici intrinseci in grado di accelerare le particelle; più in generale questo è quanto si verifica praticamente in tutte le situazioni astrofisiche d'interesse e quindi i concetti esposti a proposito dei meccanismi di accelerazione elettromagnetica hanno una validità e un'applicazione generali. Quando l'intensità del campo magnetico cresce localmente nel tempo, con dimensioni che non siano troppo piccole rispetto al raggio di curvatura della traiettoria della particella stessa, il campo indotto determina un'accelerazione positiva. Il punto importante è qui che le variazioni dei campi magnetici sono strettamente vincolate allo stato di moto del materiale in cui i campi risultano ‛congelati' a causa dell'elevata conduttività elettrica del mezzo e quindi, in ultima analisi, si ha uno scambio d'energia cinetica fra il gas interstellare e le particelle accelerate.
Quando una particella carica penetra in una regione in cui il campo magnetico cresce in modo sufficientemente rapido, la sua traiettoria viene profondamente modificata: il fenomeno può essere visualizzato come un ‛urto' della particella con le irregolarità del campo magnetico, come schematizzato nella fig. 15. Se l'irregolarità magnetica si muove con velocità u, l'energia cinetica di una particella di energia totale E e velocità v subisce una variazione
dove il segno − si applica nel caso in cui l'urto avvenga con le velocità concordi, mentre il segno + vale nel caso opposto.
Fermi, che per primo propose modelli ben definiti per l'accelerazione dei raggi cosmici nella Galassia, formulò l'ipotesi che il campo magnetico galattico fosse così irregolare da potersi schematizzare come un insieme di domini separati, opachi alla trasmissione dei raggi cosmici (‛nubi magnetiche'). Fisicamente tali domini vengono identificati con le nubi del gas interstellare, dove alla maggior densità di materia corrisponde un campo magnetico più intenso. In questo ambiente una particella tipica si muove di moto disordinato a causa degli urti successivi contro le nubi che, a loro volta, sono in uno stato di moto caotico rispetto al sistema di riferimento galattico. Ovviamente, in tali condizioni, non tutti gli urti provocheranno un'accelerazione positiva e, anzi, nella situazione limite di un alternarsi di urti favorevoli e sfavorevoli una particella non guadagna affatto energia. Tuttavia, se si tiene presente che gli urti favorevoli - cioè quelli frontali - sono più frequenti di quelli sfavorevoli per un fattore (v+u/(v−u), si trova che l'energia di una particella tipica aumenta progressivamente con un guadagno medio per urto pari a circa (u2/c2) E. La minor efficienza è rappresentata dall'apparire di un termine del secondo ordine nella quantità piccola u/c, mentre la (14) è al primo ordine nella medesima quantità. Si noti che, nel caso qui considerato di particelle relativistiche o quasi relativistiche, si può porre v≃c. L'andamento temporale è espresso da una legge di tipo esponenziale:
dove E0 è l'energia della particella al momento dell'iniezione, l è il cammino libero medio fra un urto e l'altro e T è il tempo caratteristico necessario per raddoppiare l'energia. Questo meccanismo, noto come meccanismo statistico di Fermi, può essere compreso in modo intuitivo facendo un'analogia con un gas composto di due tipi di molecole, cioè le nubi e i raggi cosmici, a temperatura diversa. Attraverso gli urti il gas tende a una situazione di equilibrio in cui l'energia cinetica media si equipartisce fra i costituenti: poiché la massa associata alle ‛molecole nubi' è estremamente elevata, sarà altrettanto elevata la loro energia cinetica, anche se l'agitazione termica che le caratterizza è modesta, e corrispondentemente l'energia cinetica media delle ‛molecole raggi cosmici' tenderà ad aumentare, essendo limitata solo dalla fuga delle particelle dal sistema confinante.
È importante notare che la natura statistica del meccanismo di Fermi fa sì che gli spettri d'energia delle particelle accelerate seguano una legge di potenza, che è caratteristica non solo dei raggi cosmici ma anche delle particelle relativistiche presenti nelle radiosorgenti non termiche galattiche ed extragalattiche. Per questa ragione, e per la sua semplicità, il meccanismo statistico di Fermi, o sue varianti, ha ricevuto grande attenzione negli anni cinquanta. Sfortunatamente le osservazioni del mezzo interstellare che intanto venivano accumulandosi hanno messo in evidenza alcune difficoltà che oggi appaiono decisive.
La prima difficoltà concerne l'efficienza del meccanismo, che sembra decisamente troppo bassa: la velocità delle nubi interstellari nel riferimento galattico è tipicamente dell'ordine di 10 km/s, mentre la loro distanza medi non sembra minore di circa 30 anni luce. Introducendo questi due valori nell'espressione (15) si trova un tempo di raddoppiamento dell'energia T≃3×1017 s≃1010 anni, cioè dello stesso ordine della vita della Galassia. Pertanto è evidente l'impossibilità di creare uno spettro d'energia dei raggi cosmici differenziato su almeno quattro ordini di grandezza, a meno che T non sia drasticamente ridotto. Considerando il fatto che il tempo di confinamento nel disco non può superare circa 107 anni, ne consegue che T deve essere ridotto di almeno tre ordini di grandezza. Poiché la velocità media delle ‛nubi' non può essere sostanzialmente modificata, essendo molto vicina al valore della velocità di Alfvén del mezzo interstellare, cioè alla velocità di propagazione dei segnali ‛acustici' nel plasma interstellare, se si vuole aumentare l'efficienza del meccanismo di Fermi è necessario ridurre la distanza media l di almeno tre ordini di grandezza e cioè ipotizzare l'esistenza di irregolarità su una scala minore di 10-2 parsec. Si ritorna qui a mettere in discussione l'esistenza di una struttura fine del mezzo interstellare alla quale si è già accennato precedentemente quando ci siamo soffermati sul problema dell'isotropia. Per tale struttura fine, come si è già detto, non esiste peraltro attualmente alcuna prova osservativa.
Tuttavia, anche supponendo che il mezzo interstellare sia costellato di onde idromagnetiche di scala adeguata a rendere efficiente un meccanismo del tipo di Fermi, esiste una seconda difficoltà legata all'energetica del problema: un limite superiore all'energia cinetica associata alle irregolarità si ottiene assegnando a tutto il gas galattico una velocità pari a quella di Alfvén (VA) nel mezzo interstellare, cioè circa 10 km/s, da cui risulta un valore limite ½ MgasV²A≃5×1054 erg. Se si tiene presente che il trasferimento di energia ai raggi cosmici comporta circa 1041 erg/s, detta energia cinetica verrebbe rapidamente esaurita in circa 2×106 anni. Quindi il problema diventa quello di rifornire il mezzo interstellare dell'energia necessaria, la qual cosa non è impossibile in termini energetici. Per esempio si può pensare che l'energia di rotazione della Galassia (~1059 erg) possa essere gradualmente trasferita in energia di turbolenza del gas mediante le onde d'urto che si sviluppano quando il gas passa attraverso i bracci della spirale. Tuttavia nessun meccanismo dettagliato è stato sviluppato e tutta la questione rimane almeno per il momento nel limbo delle possibilità.
Naturalmente l'efficienza risulterebbe molto maggiore qualora fossero verificate le condizioni per un'accelerazione sistematica, cioè al primo ordine in u/c. Per esempio ciò è quanto si verifica in una configurazione magnetica del tipo di quella rappresentata nella fig. 166, dove le particelle intrappolate si muovono avanti e indietro per successivi urti e riflessioni contro le due ‛nubi' che si stanno avvicinando. A ogni urto l'energia di una particella aumenta secondo quanto previsto dalla formula (14) e il processo continua fino a che la particella non sfugge dalla trappola avendo acquistato, per es., un'energia sufficiente per attraversare una delle ‛nubi'. In pratica il processo di accelerazione è equivalente a una compressione unidimensionale del gas di raggi cosmici confinato nella trappola magnetica, per cui l'energia delle particelle aumenta nel tempo come E=E0l0/l(t), dove E0 è l'energia iniziale di una particella ed l0,l(t) sono rispettivamente la distanza iniziale fra le due ‛nubi' e quella dopo un tempo t. Quindi è chiaro che per variare l'energia di una particella di alcuni ordini di grandezza sono necessarie delle compressioni talmente forti da non essere realistiche. Inoltre, è estremamente improbabile che le particelle, una volta che siano uscite da una trappola magnetica accelerante, possano entrare in successive trappole acceleranti; al contrario, esse incontreranno anche trappole deceleranti in cui perderanno l'energia acquistata precedentemente. Pertanto, affinché un meccanismo del primo ordine possa avere qualche probabilità di successo, è necessario ricorrere a delle geometrie ben precise, nelle quali, per esempio, ‛nubi magnetiche' si muovano sistematicamente dall'esterno verso l'interno della Galassia o, viceversa, vi siano espansioni da zone interne verso l'esterno. Situazioni di questo tipo non sono affatto impossibili da concepire: per esempio, una compressione dall'esterno potrebbe essere provocata da gas intergalattico che cade nel campo gravitazionale galattico. Tuttavia lo stato presente delle osservazioni non permette di giungere ad alcuna conclusione che sia sufficientemente convincente.
Queste e altre difficoltà, nonché l'individuazione attraverso gli studi radioastronomici di sorgenti di particelle relativistiche, hanno portato a favorire le teorie che prevedono sorgenti ben definite di raggi cosmici.
g) Sorgenti galattiche di raggi cosmici: supernove.
Il primo problema che si pone è quello d'individuare la classe di stelle in grado di produrre raggi cosmici con le caratteristiche di spettro e di composizione note e a un ritmo pari a 1041 erg/s. Se, per esempio, si considerano stelle dello stesso tipo del Sole, che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione stellare galattica (circa 1011 in tutta la Galassia) e si tiene presente quanto s'è detto sulla produzione di raggi cosmici solari, se ne deduce immediatamente che il loro contributo è almeno di sei ordini di grandezza al di sotto della potenza necessaria. Naturalmente nella Galassia vi sono tanti altri tipi di stelle molto più energetiche del nostro Sole, le quali mostrano una notevole attività, ma esse sono anche molto meno numerose. Al fine di non dilungarci troppo diremo soltanto che, sulla base delle nostre conoscenze attuali, l'unica possibilità concreta è rappresentata dalle supernove, non solo perché questi oggetti mettono in gioco grandi quantità di energia, ma anche perché solo in essi sembrano essere soddisfatte quelle condizioni fisiche che rendono possibile l'accelerazione di particelle fino ad alte energie, come si può inferire dall'emissione di sincrotrone dei resti di supernove che in alcuni casi si estende dal dominio radio fino a quello dei raggi X. A favore delle supernove gioca anche la composizione dei raggi cosmici, relativamente sovrabbondante in elementi pesanti, che punta nella direzione di sorgenti nelle fasi terminali dell'evoluzione stellare. La quantità di energia che in media deve essere ceduta da ogni supernova sotto forma di raggi cosmici dipende dalla frequenza di questi eventi straordinari. Anche questa è una di quelle grandezze astronomiche il cui valore ha subito grosse variazioni nel tempo, tuttavia la statistica degli eventi ora a disposizione indica che per galassie simili alla nostra la frequenza corrisponde a circa 1 supernova ogni 30 anni, da cui segue che ogni supernova dovrebbe liberare in media un'energia di circa 1050 erg sotto forma di raggi cosmici, da paragonare ai 1048-1049 erg emessi nella banda ottica su una scala di tempi dell'ordine del mese. È questa una richiesta ragionevole? Secondo le teorie moderne le supernove si formano nella fase finale dell'evoluzione di certi tipi di stelle quando, essendosi esaurite le fonti d'energia nucleare che permettono l'equilibrio stellare, si assiste a una rapida contrazione gravitazionale con liberazione di una notevolissima quantità d'energia in qualche modo responsabile della successiva fase esplosiva. La scoperta recente di un'associazione fra resti di supernove e pulsar ha rafforzato l'ipotesi che il collasso gravitazionale della parte centrale della stella porti alla formazione di una stella di neutroni, liberando nel contempo una quantità d'energia gravitazionale pari a circa 1053 erg. Ricordiamo che i parametri standard di una stella di neutroni sono: massa pari a circa 1 M⊙, raggio RN≃106cm e quindi una densità di materia pari a quella dei nuclei (~1015 g/cm3); l'energia di legame gravitazionale è G M²⊙/RN≃1053 erg, dove G≃0,67×10-7 è la costante di gravitazione universale. Il problema energetico pertanto si traduce nella richiesta che un millesimo di questa energia venga convogliata in raggi cosmici; è quindi necessario postulare l'esistenza di meccanismi d'accelerazione estremamente efficienti. Le modalità per l'accelerazione delle particelle si dividono in due categorie a seconda che l'accelerazione avvenga nella fase d'esplosione della supernova oppure successivamente. Per quanto riguarda la prima categoria, il modello più interessante è quello proposto da Colgate e White, secondo il quale l'energia liberata nel collasso della parte centrale della stella dà luogo a un'onda d'urto idrodinamica che si propaga radialmente verso l'esterno: l'esplosione proietta l'inviluppo stellare in direzione radiale con velocità d'espansione che aumenta all'aumentare della distanza dal centro, tanto che le parti più esterne raggiungono velocità ultrarelativistiche, fornendo così la necessaria iniezione di raggi cosmici. Vi sono varie difficoltà connesse con questo modello, ivi inclusa la possibilità effettiva che si generi l'onda d'urto necessaria, ma ci limiteremo a notare che: a) l'efficienza del meccanismo per accelerare le particelle è relativamente bassa: gran parte dell'energia va in moti della massa gassosa con velocità subrelativistiche, anziché in particelle d'alta energia (con un rapporto di circa 103); b) elettroni e protoni vengono accelerati dall'onda d'urto alla stessa velocità e pertanto ci si attenderebbe un rapporto fra l'energia dei protoni e quella degli elettroni pari al rapporto delle loro masse, pari cioè a 1.800 anziché al valore 100 osservato nei raggi cosmici.
Per quanto riguarda la seconda categoria, la possibilità più interessante è legata a processi di accelerazione in prossimità delle pulsar, la cui interpretazione corrente in termini di stelle di neutroni in rapida rotazione, nelle quali sono congelati campi magnetici molto intensi (~1012 gauss), può garantire l'insorgere di campi elettrici indotti in grado di accelerare le particelle ad altissime energie, naturalmente a spese dell'energia di rotazione delle stelle.
Per illustrare la situazione si consideri il caso famoso, e in un certo senso unico, della Nebulosa del Granchio, resto di una supernova esplosa nel 1054. Quest'oggetto emette su uno spettro continuo radiazione di sincrotrone che si estende dalle onde radio fino ai raggi X e γ. Il campo magnetico medio, diffuso su tutta la Nebulosa, è stimato intorno a 3×10-4 gauss, per cui dal diagramma della fig. 12 si deduce immediatamente che lo spettro d'energia degli elettroni si estende fino a 1013 eV o 1014 eV, mentre dalla formula (10) la vita media degli elettroni più energetici per perdite di sincrotrone risulta inferiore alla vita della Nebulosa stessa, fino a ridursi a circa un anno all'estremo dello spettro. Da queste considerazioni discende la consegnenza importante dell'esistenza di un meccanismo non solo in grado di accelerare le particelle a energie estremamente elevate, ma tuttora efficiente per compensare le perdite di radiazione di sincrotrone che ammontano a circa 2×1038 erg/s. D'altra parte l'aumento del periodo della pulsar associata alla Nebulosa, interpretato come rallentamento nella rotazione di una stella di neutroni, corrisponde a una perdita d'energia rotazionale di ~5×1038 erg/s. La corrispondenza fra questi due valori favorisce l'ipotesi di una connessione causale, per la quale il 40% dell'energia rotazionale della stella di neutroni viene trasformata in energia di elettroni ultrarelativistici. Naturalmente questo risultato ha una portata concettuale che va oltre il problema particolare qui considerato, in quanto sembra che si sia finalmente individuato un meccanismo naturale per l'accelerazione di particelle capace di operare con un'efficienza praticamente unitaria e in tempi brevi.
Si può pensare che la validità del meccanismo non sia strettamente legata alle stelle di neutroni, ma possa essere estesa ad altre categorie di ‛rotatori magnetizzati', quali ad esempio stelle supermassicce (106-109 M⊙) eventualmente formatesi nell'evoluzione dei nuclei galattici. In tal modo s'intravede la possibilità di render conto dell'attività energetica dei nuclei galattici di certe galassie e della loro capacità di produrre grandi quantità di raggi cosmici senza ricorrere a teorie speciali.
Ritornando di nuovo al problema dei raggi cosmici galattici, si deve notare che alcune proprietà derivate dallo studio della Nebulosa del Granchio non sembrano accordarsi con quanto richiesto. In primo luogo sembra estremamente difficile ottenere le componenti nucleonica ed elettronica nel rapporto desiderato, in quanto la quantità d'energia associata a una componente nucleonica eventualmente presente nella nebulosa non può praticamente eccedere quella della componente elettronica. In secondo luogo, l'energia di rotazione a disposizione della pulsar è di circa 1049 erg, anziché di 1050 erg come si può dedurre dal bilancio energetico. Inoltre va sottolineato che le atmosfere delle stelle di neutroni dovrebbero consistere principalmente di elementi intorno al picco del ferro e quindi non è chiaro come si possano ottenere protoni e nuclei di He che, dopotutto, sono responsabili della maggior parte del flusso della radiazione cosmica.
Riassumendo, anche se le supernove sembrano in grado di provvedere abbastanza facilmente la quantità d'energia necessaria per l'interpretazione dei raggi cosmici, un esame più approfondito dei modelli suggeriti mette in luce varie difficoltà che non sembrano immediatamente superabili. Naturalmente, come spesso accade in astrofisica, gli argomenti presi uno alla volta non sono mai decisivi, ma è piuttosto la somma di tutte le indicazioni disponibili che rende più o meno plausibile una certa ipotesi.
Infine esiste la possibilità che le varie componenti della radiazione cosmica si originino in diversi tipi di sorgenti. Le prove sperimentali discusse nei capitoli precedenti, nonché le difficoltà messe in evidenza in questo paragrafo, tendono a favorire un'ipotesi più articolata. Per esempio si potrebbe pensare che i nuclei pesanti e gli elettroni siano prodotti nelle pulsar, mentre i protoni, i nuclei di He e almeno parte degli altri raggi cosmici vengano prodotti in altre sorgenti stellari, oppure nella fase esplosiva delle supernove (modello di Colgate e White) o infine che i raggi cosmici siano di origine extragalattica.
h) Teoria universale.
In questa teoria si suppone che i raggi cosmici siano presenti in tutto l'Universo con la densità d'energia osservata in prossimità del sistema solare, cioè wRC≃10-12 erg/cm2. Notoriamente la difficoltà principale cui va incontro quest'ipotesi è quella di trovare una classe di sorgenti in grado di fornire l'elevatissima quantità d'energia che è in gioco. Infatti, se tutte le galassie brillanti avessero partecipato in ugual misura alla produzione di un flusso universale di raggi cosmici - dato che la loro densità media è di circa una galassia ogni 1021 anni luce al cubo, cioè 1 galassia/1075 cm3 - ciascuna di esse avrebbe dovuto fornire un contributo d'energia pari a
wRC×1075≃1063 erg. (16)
Dal momento che la massa tipica di una galassia è Mgal≃1011M⊙, ciò equivale a ipotizzare che circa 1/200 dell'energia totale a disposizione (Mgalc2≃2×1065 erg) venga in qualche modo trasformata in particelle relativistiche. Si deve sottolineare che nella teoria galattica l'energia messa in gioco nella vita della Galassia è di 3×1058 erg.
Ovviamente la prima classe di sorgenti cui vien dato di pensare è quella delle radiogalassie, la cui emissione di sincrotrone fino a potenze di 1045 erg/s indica la presenza di meccanismi estremamente efficienti per l'accelerazione delle particelle. In generale le radiogalassie sono identificate con galassie ellittiche brillanti la cui densità spaziale è circa 1/300 di quella di tutte le galassie sopra menzionate. Ne consegue che ogni radiogalassia dovrebbe liberare un'energia di 3×1065 erg sotto forma di raggi cosmici, cioè a dire una quantità di energia pari a quella contenuta in una massa galattica tipica dovrebbe essere completamente trasformata essenzialmente in protoni relativistici, il che sembra eccessivo. Si noti che l'energia in elettroni relativistici necessaria a produrre lo spettro di sincrotrone osservato corrisponde soltanto a 3×1058 erg e quindi esiste una differenza di sette ordini di grandezza che non sembra possibile recuperare. Questa difficoltà può essere vista in termini più generali nel modo seguente: gli elettroni relativi stici prodotti da radiogalassie, o da altre sorgenti, e iniettati nel mezzo intergalattico, anche se sfuggono a zone di campo magnetico sufficientemente intenso, perdono rapidamente la propria energia per effetto Compton negli urti con i fotoni della radiazione di fondo alle microonde. Tale fondo, comunemente interpretato come radiazione di corpo nero a una temperatura di 2,7 °K, residuo dell'esplosione iniziale dell'Universo (teoria del big bang), ha una densità d'energia ≃0,25 eV/cm3 e un massimo d'intensità intorno a una lunghezza d'onda di 1 mm, per cui dalla formula (16) segue che elettroni di energia maggiore di 5×108 eV perdono la loro energia in un tempo caratteristico minore di 109 anni, molto inferiore all'età presente dell'Universo (1010 anni). Dal diagramma della fig. 12 si ricava immediatamente che l'energia di questi elettroni, i quali nei campi magnetici delle radiogalassie (10-5-10-6 gauss) emettono tipicamente nella banda radio, viene trasformata completamente in fotoni di energia maggiore di 1 keV, e va quindi a incrementare il fondo diffuso di raggi X duri che presenta una densità d'energia wX≃6×10-5 V/cm3. Pertanto il rapporto fra l'energia dei raggi cosmici universali, e quindi essenzialmente dei protoni relativistici, e quella della componente elettronica nello spazio intergalattico non può essere inferiore a wRC/wX≃104. Poiché non si conosce alcun meccanismo in grado di accelerare protoni ed elettroni in questo rapporto d'energie, l'argomento precedente è stato addotto come un'ulteriore ‛prova' contro un'origine universale dei raggi cosmici.
Un corollario importante, e comunque vero, è che la componente elettronica osservata nella Galassia non può avere avuto un'origine extragalattica; in particolare, le perdite Compton sono talmente severe da impedire una propagazione diretta degli elettroni di alta energia (>di 100 GeV) anche dalle galassie più vicine alla nostra.
Tuttavia la discussione precedente non si può ritenere conclusiva in vista di sviluppi recenti che hanno dimostrato come la maggior parte della radiazione emessa nell'Universo sia confinata nella regione infrarossa dello spettro elettromagnetico, sia per quanto riguarda il fondo sia per vari tipi di sorgenti. In questo contesto rivestono particolare interesse le galassie di Seyfert, la cui emissione nell'infrarosso è tipicamente dell'ordine di 1045 erg/s, con un picco di emissione in una regione compresa nell'intervallo 100-400 μm. Queste galassie, caratterizzate da nuclei compatti e fortemente attivi dal punto di vista energetico, vengono usualmente interpretate come una fase di transizione nell'evoluzione delle galassie; poiché esse rappresentano circa l'1-2% delle galassie brillanti, si stima che la fase di Seyfert abbia una durata di 108 anni, durante i quali, pertanto, le galassie dovrebbero emettere circa 3×1060 erg nell'infrarosso. Il fatto che la luminosità infrarossa di alcune di queste galassie sembra variabile - entro intervalli di tempo molto brevi e cioè da alcuni giorni a qualche mese porta a concludere che l'emissione proviene da nuclei galattici estremamente compatti, di dimensioni inferiori a un anno luce, e che essa è in ultima analisi di natura non termica, probabilmente dovuta all'accelerazione di elettroni relativistici in campi magnetici relativamente intensi; in tal caso è sufficiente postulare che, oltre agli elettroni relativistici, siano accelerati anche protoni con un flusso di energia 300 volte superiore, per ottenere il numero magico di 1063 erg per galassia dato dalla (16). In questo tipo di modello quasi tutta (99%) l'energia cinetica degli elettroni relativistici accelerati nelle regioni nucleari deve essere trasformata in radiazione infrarossa, altrimenti si entra in conflitto con i limiti imposti dal fondo di raggi X extragalattico, mentre i protoni, le cui perdite per radiazione sono trascurabili, diffondono nello spazio intergalattico dove alimentano il flusso universale di raggi cosmici. Dal punto di vista energetico è necessario supporre che nei nuclei galattici si abbia il collasso gravitazionale relativistico di una massa dell'ordine di 109 M⊙, da cui in linea di principio è possibile estrarre una frazione importante dell'energia di quiete, e che esista un meccanismo capace di trasformare quest'energia in energia cinetica di particelle relativistiche con efficienza unitaria. Anche se ciò non è impossibile, certamente non si può fare a meno di notare che le condizioni al contorno appaiono estremamente restrittive.
Un'altra possibilità è quella di ricorrere a fattori di evoluzione cosmologica in cui si suppone che il flusso universale di raggi cosmici sia stato essenzialmente prodotto in un epoca cosmica antecedente l'attuale, sia per la presenza di un maggior numero di sorgenti sia perché queste erano più potenti. Anziché entrare in modelli dettagliati, per i quali del resto esisterebbero notevoli margini d'incertezza e di arbitrarietà, sarebbe più conveniente seguire un argomento di tipo integrale analogo a quello discusso in precedenza per il fondo di raggi X. Sfortunatamente gli esperimenti condotti alle lunghezze d'onda inferiori al millimetro, cioè oltre il picco corrispondente a una radiazione universale di 2,7 °K, sono ancora controversi e non permettono di stabilire se lo spettro nell'infrarosso lontano segua l'andamento previsto per una radiazione di corpo nero di 2,7 °K, oppure se esistano delle deviazioni importanti - diciamo corrispondenti a una densità d'energia di circa 0,1 eV/cm3 - eventualmente dovute al contributo integrato di sorgenti infrarosse di natura essenzialmente non termica. In quest'ultimo caso si sarebbe già abbastanza vicini alla densità d'energia della radiazione cosmica e quindi risulterebbe abbastanza naturale supporre che queste stesse sorgenti siano in grado di generare un flusso universale di raggi cosmici.
Un punto importante da sottolineare è che l'ipotesi della produzione di un flusso universale di raggi cosmici in un'epoca cosmica precedente quella attuale richiede che la densità del gas intergalattico sia molto minore (almeno di un fattore 100) di quella necessaria per chiudere l'Universo, altrimenti il flusso di raggi γ dal decadimento dei mesoni π0 prodotti nell'interazione dei protoni relativistici con i protoni del gas intergalattico, verrebbe a eccedere i limiti imposti dalle misure del fondo di raggi γ.
Queste difficoltà energetiche vengono in parte attenuate quando si passa da una teoria strettamente universale a teorie che potremmo chiamare genericamente ‛extragalattiche', nelle quali si suppone che i raggi cosmici siano confinati in certe regioni dell'Universo, come ad esempio nei superammassi di galassie, in particolare nel superammasso della Vergine cui appartiene il gruppo locale di galassie, oppure soltanto nel gruppo locale. Poiché i superammassi di galassie occupano, presumibilmente, solo una piccola frazione del volume a disposizione nell'Universo, diciamo l'1%, anche le richieste energetiche varieranno nello stesso rapporto rispetto a quanto richiesto in una teoria universale. La difficoltà che si incontra con questo tipo di modelli sta nella nostra quasi completa ignoranza delle condizioni fisiche del gas intergalattico, nonché dell'intensità di eventuali campi magnetici intergalattici, cosicché appare difficile stabilire con un minimo di attendibilità sia le condizioni di propagazione dei raggi cosmici sia l'efficacia del loro confinamento.
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