ragion di Stato
Espressione entrata nell’uso intorno alla metà del sec. 16°, per designare l’interesse dello Stato assunto come ragione o criterio di valutazione e azione politica, la politica essendo così intesa come scienza fornita di regole proprie, non condizionata dalla morale tradizionale. Nel clima della Riforma e della Controriforma la condanna delle idee di N. Machiavelli, in cui erano le basi della r. di S., si travestì di un ambiguo «tacitismo», con cui si voleva caratterizzare una r. di S., cattiva, nel mondo pagano, seppur già accompagnata, come in Tacito, da un’aspirazione a un principato di moralità superiore. Ma il problema del contrasto tra politica e morale fu affrontato decisamente nel 1589 da G. Botero che, nel suo trattato Della ragion di stato, si propose di rimettere la r. di S. appunto «sotto la giurisdizione della coscienza», accentrando il problema sui mezzi per «conservare» lo Stato, con una precettistica che solo praticamente distingueva, per esempio, tra previdenza e astuzia. La letteratura che seguì si mantenne su questo schema politico, sforzandosi di giustificare le decisioni del monarca come espressione della vera r. di S., contrapponendole a quelle dei tiranni, il cui stato non avrebbe avuto legittimità: più chiaramente di tutti J. Bodin, che aveva fondato lo Stato di diritto sul concetto di sovranità. Ma generalmente la trattatistica si sforzò di conciliare la politica e la morale con tentativi empirici, con una casistica che arrivò ad ammettere anche la violazione eccezionale della morale ordinaria, se fatta in vista di un interesse generale, e sempre, nella considerazione legalistica della morale, in un campo che non compromettesse l’ossequio al potere religioso. Rifiutando l’ambiguità di queste soluzioni, T. Boccalini riaffermò invece l’inconciliabilità tra r. di S. e morale, satireggiando amaramente i governanti e lodando Machiavelli, che per primo avrebbe svelato ai popoli le male arti dei sovrani. L. Zuccolo, nel suo breve saggio del 1621, Della ragion di stato, riportò il problema nei suoi veri termini, negando che si potesse avere una r. di S. buona o cattiva, operando la politica secondo la sua essenza, su un piano premorale o amorale: ma uno svolgimento adeguato di questa impostazione, dopo i diversi indirizzi giusnaturalistici e razionalistici della politica nel 18° sec., fu, salvo l’eccezione di G.B. Vico, ripreso solo modernamente. Nella dogmatica dello Stato paternalistico, r. di S. si disse l’«eccesso dal giure comune per fine di pubblica utilità», designando il fondamento di quel potere del sovrano di sospendere le disposizioni del diritto ordinario con atti non legislativi e singolari. Essa costituiva il fondamento dello ius politiae, dell’interpretatio politica, dello ius expropriationis ecc. Successivamente si trasportò il concetto anche nel diritto internazionale. Oggi il concetto di r. di S. è però abbandonato per altri più elaborati e tecnici.