ragion sufficiente, principio di
Principio identificato da Leibniz per portare alla luce il fondamento delle ‘verità di fatto’ o contingenti (a posteriori) e il loro statuto rispetto alle cosiddette ‘verità di ragione’, cioè le verità necessarie o ‘identiche’ (a priori). La ragione non può attingere un livello di conoscenza tale da determinare a priori lo svolgimento, ossia la successione e il coordinamento logico e causale, delle verità di fatto, diversamente da quanto avviene per gli enti matematici che rispondono alle sole ‘verità identiche’ e le cui proprietà sono quindi conoscibili e deducibili al di qua dell’esperienza. Lo statuto del contingente non è tuttavia tale da escludere che lo si possa ricondurre a un ordine razionale e causale; nel rendere ragione del modo in cui i fatti accadono, si identificano nessi razionali, ossia «ragioni» che ne hanno determinato lo svolgimento (Leibniz parla infatti anche di «principio di ragione determinante»). In tale prospettiva seppure non sia possibile conoscere a priori ciò che avverrà è comunque possibile affermare che «niente avviene senza ragione» (Le prime verità), ossia che a posteriori sia possibile rendere ragione anche delle verità di fatto che riposano non sulla necessità (ossia sull’esclusione del loro contrario, che comporterebbe una contraddizione), ma sulla possibilità. Soltanto a Dio è concesso di sapere a priori quale fra i diversi possibili sarà posto in atto, poiché tale attuazione è sottoposta al criterio dell’ottimo (Dio non può che realizzare il migliore fra i mondi possibili). L’uomo può comunque stabilire che se, per es., Cesare ha deciso di varcare il Rubicone, tale evento aveva un fondamento razionale e causale anche prima che si realizzasse (Discorso di metafisica, 13). Tale consequenzialità può essere ripercorsa, dopo che l’evento si è prodotto, in maniera non completa o esaustiva (come avverrebbe nel conoscere le proprietà geometriche di un triangolo, di cui si possiede una «nozione completa», notio completa), ma comunque «sufficiente» a renderne ragione, ossia a spiegarne e motivarne il prodursi. In tale prospettiva il principio di r. s. ridefinisce lo statuto del contingente rendendolo congruente, seppur non coincidente, con la razionalità causale, e ovviando al suo carattere aleatorio. Nei Saggi di teodicea, Leibniz scrive: «non accade mai niente senza che vi sia una ragione determinante, vale a dire qualcosa che possa servire a rendere ragione a priori del perché una data cosa è esistente […] nonostante che il più delle volte queste ragioni non ci siano note a sufficienza» (44). La centralità del principio di r. s., mediante il quale si rende ragione della stessa esistenza di Dio (Monadologia, 39, 45), viene evidenziata nella Monadologia (➔): «nessun fatto può risultare vero o esistente, nessuna proposizione veridica, senza che vi sia una sufficiente ragione per cui sia così e non altrimenti, benché perlopiù tali ragioni non possano esserci note» (32). Nella esposizione sistematica di Wolff (Logica, §§ 29-31; Ontologia, §§ 56-76), a partire dall’enunciato «niente esiste senza una ragione sufficiente per cui esista invece di non esistere» («nihil est sine ratione sufficiente, cur potius sit, quam non sit»; § 70), il principio di r. s. viene sempre maggiormente accostato alla necessità, che regge le verità di ragione, seppur differenziato dal principium fiendi (che regola la successione causale nell’ordine del reale), e dal principium cognoscendi (che regge la dimostrazione). Tale tendenza a ricondurre la r. s. entro un ordine necessitante, seppur depotenziato dai limiti del conoscere umano, viene ridimensionata da Crusius (De usu et limitibus principii rationis determinantis, 1743) e poi da Kant nella Nuova illustrazione dei principi della conoscenza scientifica (Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio), ove si sottolinea che la sua applicazione ha valore soltanto nello spiegare: «non produce la verità, ma la spiega» (II, 5). Schopenhauer in Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (1813; trad. it. Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente), identifica nella r. s. il comune fondamento delle diverse applicazioni del nesso logico causale, in ordine alla conoscenza del reale (inteso come «rappresentazione») e all’agire (inteso come «volontà»). Il principio di r. s. si connota secondo quattro forme diverse: principium rationis sufficientis fiendi (ogni divenire deve avere una causa); principium rationis sufficientis cognoscendi (ogni asserzione conoscitiva dev’essere giustificata); principium rationis sufficientis essendi (ogni realtà, per esistere, deve trovare luogo nel sistema spazio-temporale di tutte le cose); principium rationis sufficientis agendi (ogni azione, per prodursi, deve essere motivata da un fine della «volontà»). Nel Novecento Heidegger, (in Der Satz vom Grund, 1957; trad. it. Il principio di ragione) a proposito del principio di r. s., che vede ancora operativo in Kant, identifica nel porre l’apparire come r. s. dell’ente, il tentativo del «pensiero calcolante» di ricondurre l’essere alla ragione e alla causalità, cui deve invece sostituirsi il darsi dell’essere in quanto Dasein (➔).