Giuridico, ragionamento
Il vocabolo 'ragionamento' è ambiguo: talvolta sembra riferirsi ad un atto o processo: l'atto o processo (mentale) del ragionare; talaltra sembra riferirsi al risultato o prodotto di tale atto. Tuttavia, si può considerare risultato dell'atto di ragionare: sia la conclusione o la deliberazione cui, ragionando, si perviene; sia il discorso - la sequenza di enunciati - attraverso cui l'atto mentale del ragionare viene (eventualmente) reso pubblico, e di cui la conclusione costituisce solo una parte.Ora, non sembra appropriato usare il vocabolo 'ragionamento' per riferirsi alla sola conclusione cui, ragionando, si perviene. D'altro canto, generalmente parlando, l'atto mentale del ragionare è oggetto appropriato per l'indagine psicologica, non per l'analisi logica. Neppure esso può costituire oggetto di indagine dal punto di vista teorico-giuridico.
Nel seguito, pertanto, converrà intendere per 'ragionamento' un discorso, e più precisamente una sequenza di enunciati, uno dei quali svolga la funzione di tesi o conclusione e i rimanenti svolgano la funzione di premesse, argomenti, o ragioni in favore di esso. Sono sinonimi di 'ragionamento' in questo senso: 'inferenza', 'argomentazione', e anche (con anglicismo) 'argomento'.Va detto, qualora non fosse ovvio, che la definizione precedente si riferisce ad un ragionamento 'atomico' (un microragionamento). Ma, naturalmente, accade frequentemente che una pluralità di ragionamenti atomici siano fra loro intrecciati, così da produrre un macroragionamento nel quale la conclusione di un ragionamento atomico svolge il ruolo di premessa in un altro ragionamento atomico.
I ragionamenti possono essere classificati secondo diversi criteri. Nel presente contesto, i criteri di classificazione rilevanti sono due.
a) Un primo criterio rilevante di classificazione attiene agli elementi (al tipo di enunciati) che entrano a comporre un ragionamento.Si dice aletico o teorico un ragionamento i cui componenti (premesse e conclusione) siano, tutti, proposizioni, ossia enunciati del discorso conoscitivo o descrittivo, come tali o veri o falsi. Si dice normativo o pratico un ragionamento la cui conclusione sia una norma, ossia un enunciato del discorso prescrittivo o direttivo, come tale né vero né falso.
Il ragionamento giuridico appartiene ovviamente al genere dei ragionamenti normativi. La sua unica peculiarità è che la norma che funge da conclusione è una norma (non morale, non di etichetta, ecc., ma) giuridica. Diremo dunque giuridico ogni ragionamento la cui conclusione sia una norma giuridica.In letteratura, peraltro, si dicono giuridici per antonomasia i ragionamenti dei giudici. In essi, non solo una norma giuridica svolge il ruolo di conclusione ma inoltre, per le ragioni che vedremo, almeno un'altra norma giuridica non può non figurare tra le premesse.
b) Un secondo criterio rilevante di classificazione attiene alla struttura logica dei ragionamenti, e per conseguenza alla loro 'forza', se così possiamo dire.
Un ragionamento ha struttura deduttiva allorché la conclusione è logicamente implicita nelle premesse; ha struttura non deduttiva negli altri casi.I ragionamenti deduttivi sono altresì 'cogenti' o 'stringenti', nel senso che, se si accettano le premesse, non si può (senza contraddirsi) rifiutare la conclusione: le premesse 'garantiscono' la conclusione. I ragionamenti non deduttivi (induttivi, abduttivi, e quant'altro), per contro, sono non stringenti, nel senso che di essi si può (senza contraddirsi) rifiutare la conclusione, pur accettando le premesse: le premesse non 'garantiscono' la conclusione.
Un ragionamento aletico è logicamente valido, e dunque stringente, allorché ha carattere deduttivo: se le premesse sono vere, allora, necessariamente, anche la conclusione è vera. (Si osservi che la validità del ragionamento è del tutto indipendente dalla verità degli enunciati che entrano a comporlo. In concreto: la falsità delle premesse e della conclusione non esclude che il ragionamento sia valido ma, d'altro canto, la verità delle premesse e della conclusione non garantisce che il ragionamento sia valido).
Ma come definire le condizioni di validità dei ragionamenti normativi? Il problema nasce dal fatto che non possiamo estendere ai ragionamenti normativi le condizioni di validità dei ragionamenti aletici. Non possiamo cioè dire che un ragionamento normativo sia logicamente valido allorché dalla verità delle premesse consegue necessariamente la verità della conclusione: per la banale ragione che nei ragionamenti normativi compaiono norme, e le norme non hanno affatto valori di verità (non sono né vere né false).
A quali condizioni, dunque, può dirsi logicamente valido un ragionamento normativo? E anzi: se la validità dei ragionamenti dipende dai valori di verità degli enunciati componenti, può un ragionamento normativo essere logicamente valido? Insomma: si può validamente ragionare con norme?Da un lato, sembra ovvio che validi ragionamenti normativi siano possibili, dal momento che ragionamenti del tutto comuni in cui, ad esempio, da una norma generale (in congiunzione con una proposizione fattuale) si inferisce una norma individuale - "I contratti devono essere adempiuti. Questo è un contratto. Quindi questo deve essere adempiuto" - sono intuitivamente corretti, e non si vedono ragioni per dubitarne.Ma, dall'altro lato, l'intuizione non pare una risposta sufficiente. Se le relazioni di implicazione logica si definiscono in termini di verità - come si usa fare da Aristotele in poi - e se le norme sono prive di valori di verità, allora non possono esservi relazioni di implicazione logica tra norme.
Ecco i due corni del cosiddetto 'dilemma di Jørgensen'.
Il dilemma di Jørgensen ammette diverse risposte: le più interessanti paiono le seguenti (ciascuna delle quali conta alcune varianti).
1) I ragionamenti normativi sono perfettamente possibili, e il dilemma non ha ragion d'essere, giacché una delle sue premesse è errata. Contrariamente a ciò che il dilemma assume come pacifico, le norme hanno valori di verità: anch'esse, come le proposizioni, possono essere vere o false. Ne è prova il fatto che enunciati del tipo "È vero che non si deve uccidere" sono enunciati ben formati della lingua italiana. Le norme sono vere allorché corrispondono a doveri o valori oggettivamente esistenti nella 'natura delle cose' (o nella struttura dell'umana esistenza) e riconoscibili mediante l'uso della 'retta ragione'.Questo modo di vedere, caratteristico del giusnaturalismo, presuppone il cognitivismo etico, ossia la tesi della conoscibilità di valori, doveri, e quant'altro.
2) I ragionamenti normativi sono frutto di illusione, di autoinganno. Malgrado le apparenze, nessun ragionamento normativo è valido. Le norme sono, per così dire, fatti: non entità concettuali, non contenuti di pensiero. E tra i fatti si danno, forse, relazioni causali, ma certamente non relazioni di implicazione logica.In altre parole, ciò che chiamiamo 'norma' è interamente riducibile o all'atto di comando di un'autorità normativa, o all'atto di accettazione di un destinatario. Gli atti di comando e di accettazione sono eventi spazio-temporali: fatti, appunto. E dal fatto che un'autorità abbia comandato, o un destinatario abbia accettato, di fare o di omettere una certa cosa non segue deduttivamente che l'autorità abbia altresì comandato, o il destinatario accettato, di farne od ometterne un'altra (per quanto questa seconda cosa possa apparire in qualche senso 'conseguente' alla prima).
3) Essendo le norme prive di valori di verità, non si può ragionare deduttivamente con norme. Ma, se non si può ragionare con norme, si può tuttavia ragionare con proposizioni fattuali che asseriscano il 'soddisfacimento' (l'osservanza, l'adempimento, l'effettività) di norme.
Così, ad esempio, dalla proposizione secondo cui la norma (generale) "Gli assassini devono essere puniti" è adempiuta si può inferire la proposizione secondo cui la norma (individuale) "L'assassino Tizio deve essere punito" è, anch'essa, adempiuta. In un certo senso, dunque, la logica può applicarsi alle norme: ma solo indirettamente, per il tramite di proposizioni fattuali (come tali vere o false) che vertono sul loro 'soddisfacimento'.
4) I componenti dei ragionamenti normativi sono enunciati deontici (ossia enunciati in termini di 'dovere'). Siffatti enunciati, tuttavia, sono ambigui: possono essere usati per esprimere, in diversi contesti, sia norme, sia proposizioni normative, ossia proposizioni che vertono su norme, affermandone l'esistenza, la validità (in qualche senso di questa enigmatica parola), o descrivendone il contenuto. Ora, sebbene le norme siano prive di valori di verità, non sono però prive di valori di verità le proposizioni che vertono su di esse.
Ebbene, nei ragionamenti normativi, gli enunciati deontici esprimono non già norme, bensì proposizioni normative. Chi, ad esempio, dalla premessa che gli assassini devono essere puniti conclude che l'assassino Tizio deve essere punito, non inferisce una norma da un'altra norma, bensì una proposizione da un'altra proposizione: dalla proposizione che asserisce l'esistenza di una certa norma (generale) inferisce una proposizione che asserisce l'esistenza di un'altra norma (individuale). Se la prima proposizione è vera, allora anche la seconda sarà vera. D'altro canto, le proposizioni normative sono sintatticamente identiche alle norme (per così dire: le iterano, le ripetono, le riecheggiano). Così, ad esempio, la proposizione che afferma l'esistenza e/o descrive il contenuto della norma secondo cui "Gli assassini devono essere puniti" non ha altra forma esteriore se non quella della norma stessa: "Gli assassini devono essere puniti". Quel che più conta, il comportamento logico delle proposizioni normative è isomorfo a quello delle norme sottostanti.
Insomma, se nessuna norma può dirsi implicare un'altra norma, è però innegabile che la proposizione normativa generale "Gli assassini devono essere puniti", in congiunzione con la proposizione fattuale "Tizio è un assassino", implichi logicamente la proposizione normativa individuale "Tizio deve essere punito". Ecco dunque che, sebbene non si possa validamente ragionare con norme, è tuttavia possibile ragionare validamente con proposizioni normative. Ma le proposizioni normative, d'altra parte, 'riflettono' le norme cui si riferiscono, e la logica delle proposizioni normative 'riflette' a sua volta la logica delle norme. Le regole della logica possono dunque applicarsi alle norme indirettamente, per il tramite delle proposizioni normative che le ripetono e le descrivono.
5) Ogni norma può essere in ultimo ridotta alla forma standard "È obbligatorio che p" (dove p sta per una proposizione): ad esempio, "È obbligatorio che i ladri siano puniti". Orbene, questa formulazione normativa può essere analizzata in due componenti: una qualificazione normativa o deontica di un comportamento ("È obbligatorio che...") ed una descrizione del comportamento in questione ("...che tutti i ladri siano puniti"). La parte 'descrittiva' - o, più propriamente, referenziale - della norma altro non è che una proposizione: un enunciato del quale si può predicare la verità o la falsità. Praticamente: un enunciato al quale si possono sensatamente premettere le espressioni "È vero..." ed "È falso..." (per esempio: "È vero che tutti i ladri sono puniti", "È falso che tutti i ladri siano puniti"). Insomma: secondo questa analisi, ogni norma incorpora una proposizione.
Ebbene, i componenti dei ragionamenti cosiddetti normativi sono, a ben vedere, non già delle norme, ma delle proposizioni incorporate in norme: non si ragiona con le norme nella loro interezza, se così possiamo dire, ma solo con la parte referenziale delle norme. La proposizione incorporata nella norma generale "Tutti i ladri devono essere puniti" è "che tutti i ladri siano puniti"; e la proposizione "che tutti i ladri siano puniti" palesemente implica la proposizione "che il ladro Tizio sia punito".
6) Il dominio della logica è più ampio del dominio della verità. Le norme non hanno valori di verità, ma non per questo sono prive di valori logici qualsivoglia. Semplicemente, esse hanno altri valori logici, diversi da quelli di verità. I valori logici delle norme sono i valori di validità, intesa come giustizia, obbligatorietà, o, come anche si usa dire, 'forza vincolante'.
I valori di validità, così intesi, hanno un comportamento logico del tutto analogo ai valori di verità. Se di un ragionamento normativo è valida la premessa normativa, allora sarà egualmente valida la conclusione (anch'essa normativa); se la premessa normativa è invalida, sarà egualmente invalida la conclusione. Se è valida (giusta, obbligatoria, vincolante) la norma generale secondo cui "Tutti i ladri devono essere puniti", sarà egualmente valida (giusta, obbligatoria, vincolante) la norma individuale "Il ladro Tizio deve essere punito".
Nel pensiero logico moderno è opinione pressoché pacifica - a partire da Hume - che sia senz'altro invalido (non cogente, non concludente) qualunque ragionamento la cui conclusione sia una norma, ma le cui premesse siano (tutte) proposizioni, come anche qualunque ragionamento la cui conclusione sia una proposizione, ma le cui premesse siano (tutte) normative.
Si usa appunto chiamare 'legge di Hume' quella legge della logica secondo la quale non si possono validamente inferire conclusioni normative (cioè norme) da premesse esclusivamente conoscitive (cioè proposizioni), né conclusioni conoscitive (proposizioni) da premesse puramente normative (norme).
Pertanto, in un ragionamento normativo, una norma deve figurare tra le premesse, pena l'invalidità. Un ragionamento la cui conclusione sia una norma, ma le cui premesse siano (tutte) proposizioni, è invalido. Come è invalido, del resto, un ragionamento le cui premesse siano esclusivamente normative e la cui conclusione sia una proposizione.
Così, ad esempio, è invalido il ragionamento "Tizio ha promesso di pagare a Caio cento dollari. Pertanto Tizio deve pagare a Caio cento dollari", a meno di aggiungere tra le premesse la norma "Le promesse devono essere adempiute". Ed è egualmente invalido il ragionamento "Tutti i ladri devono essere puniti. Pertanto il ladro Tizio è stato punito", a meno di aggiungere tra le premesse la proposizione "La norma 'Tutti i ladri devono essere puniti' è adempiuta".
Se facciamo astrazione dagli operatori giuridici 'privati' (giuristi, avvocati, notai, e via enumerando, fino ad arrivare agli stessi cittadini), il mondo del diritto appare popolato essenzialmente da due tipi di soggetti: organi che producono norme e organi che le applicano. Da un lato i legislatori (latamente intesi), dall'altro i giudici e la pubblica amministrazione.
Tuttavia, la letteratura in tema di ragionamento giuridico è essenzialmente, se non esclusivamente, dedicata al ragionamento giudiziale (e anzi, più precisamente, al ragionamento dei soli giudici di merito: non vi sono studi specifici sul ragionamento dei giudici di legittimità).
Che non vi siano studi sul ragionamento del legislatore è facilmente spiegabile. Nella cultura giuridica moderna, la legislazione è concepita come un'attività, per un verso, 'libera nel fine' (così si usa dire) e, per l'altro verso, non già applicativa, ma creativa di diritto. I legislatori, cioè, né sono vincolati al perseguimento di fini eteronomi predeterminati, né hanno il dovere di applicare norme ad essi precostituite.
Per questa ragione, negli ordinamenti giuridici moderni, gli organi legislativi, generalmente parlando, non hanno alcun obbligo di motivare le loro deliberazioni: i legislatori non sono tenuti a 'dare ragioni' delle loro decisioni, né ci si attende che le diano. Di fatto, le leggi sono prive di motivazione.
Ciò non esclude che i legislatori compiano ragionamenti. Ad esempio, si può congetturare che un legislatore - o almeno un legislatore razionale (nel senso della razionalità strumentale) - dapprima determini i fini che intende perseguire, e poi scelga i mezzi (ossia deliberi i testi legislativi) idonei a raggiungere tali fini, mediante un ragionamento avente, grosso modo, la seguente struttura formale: "Si deve conseguire il fine F. M è un mezzo per F. Quindi si deve fare M" (dove M è una deliberazione legislativa). Tuttavia, i legislatori non hanno alcun obbligo di ragionare in questo (o in altro) modo, né hanno l'obbligo di rendere pubblico il loro ragionamento. Il ragionamento del legislatore, quale che sia (e posto che vi sia), resta un processo psicologico esterno ed estraneo al documento legislativo: non entra comunque a farne parte.
L'abbondanza di studi sul ragionamento del giudice è egualmente comprensibile. Nella cultura giuridica moderna, l'attività giurisdizionale è concepita come un'attività di mera applicazione di norme generali precostituite a casi individuali. Un'attività siffatta esige, come vedremo, un ragionamento deduttivo - e anzi, secondo Beccaria, un sillogismo - del tipo: "Tutti gli assassini devono essere puniti. Tizio è un assassino. Quindi Tizio deve essere punito".
Negli ordinamenti giuridici moderni, l'attività giurisdizionale è retta dal principio di legalità. In virtù di tale principio, ogni decisione giurisdizionale deve essere fondata su una norma giuridica preesistente. Senza di che non sarebbe garantita la certezza del diritto, ossia la prevedibilità delle decisioni giudiziali. Pertanto, non sarebbe giustificata una decisione giurisdizionale in cui il dispositivo della sentenza (ad esempio, la norma individuale che condanna un assassino) non fosse dedotto da una norma generale (in congiunzione con una o più proposizioni fattuali, descrittive delle circostanze del caso debitamente provate).
Per questa ragione, negli ordinamenti giuridici moderni, le decisioni giurisdizionali devono essere motivate, e devono essere motivate sulla base della legge, ossia sulla base di norme precostituite (si vedano ad esempio gli articoli 101, comma 2, e 111, comma 6, della Costituzione italiana vigente).
Insomma, i giudici, a differenza dei legislatori, hanno l'obbligo di compiere ragionamenti - e più precisamente ragionamenti deduttivi, tra le cui premesse deve figurare almeno una norma di legge - e, soprattutto, hanno l'obbligo di esibire tali ragionamenti, di renderli pubblici. Il ragionamento del giudice, depositato nella motivazione, costituisce parte integrante della sentenza, e sarebbe invalida una sentenza che fosse priva di motivazione (e pertanto arbitraria).
L'assenza di studi sul ragionamento dei funzionari della pubblica amministrazione, per contro, è meno comprensibile. Nell'ordinamento italiano vigente (come, del resto, in altri ordinamenti), anche gli atti amministrativi - con la sola eccezione di quelli che, come le leggi, hanno contenuto normativo (regolamenti) - devono essere motivati: "la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato le decisioni dell'amministrazione" (art. 3, comma 1, legge 241/1990). Sotto questo profilo, le decisioni amministrative non differiscono in maniera significativa da quelle giurisdizionali.A differenza di quella giurisdizionale, tuttavia, l'attività amministrativa ha (prevalentemente) carattere 'discrezionale': consiste, cioè, nel perseguire "i fini determinati dalla legge" (art. 1, comma 1, legge 241/1990), scegliendo i mezzi appropriati alla luce delle circostanze di fatto debitamente accertate. Questo tipo di attività sembra richiedere un ragionamento in tutto simile - almeno nella sua struttura formale - a quello proprio del legislatore: "Si deve conseguire il fine F. M è un mezzo per F. Quindi si deve fare M" (dove M è la deliberazione di un determinato atto amministrativo). Con l'importante differenza che l'attività della pubblica amministrazione non è 'libera' nel fine, ma appunto 'discrezionale' - così si usa dire nella dottrina amministrativistica - essendo il fine prefissato dalla legge.
A prima vista, abbiamo dunque due tipi di ragionamento, con strutture formali distinte. Il ragionamento dei giudici è di tipo 'deontologico': prende le mosse da una norma. Il ragionamento del legislatore (razionale) e dei funzionari amministrativi è di tipo 'teleologico': prende le mosse da un fine.Ma la differenza tra il ragionamento giudiziale e quello dei funzionari amministrativi si attenua, se si tiene a mente il fatto che anche i funzionari amministrativi (non così i legislatori) muovono da una norma precostituita: la norma di legge che predetermina il fine da perseguire. La differenza sta piuttosto in questo: che il legislatore solitamente rivolge ai giudici norme di condotta, ai funzionari amministrativi norme teleologiche.
Nel seguito, il discorso sarà circoscritto al ragionamento giudiziale. Peraltro, alcune delle cose che diremo - la distinzione tra 'scoperta' e 'giustificazione', la distinzione tra giustificazione interna e giustificazione esterna, l'analisi di quest'ultima - sono estensibili, con pochi adattamenti, al ragionamento dei funzionari amministrativi.
Abbiamo detto in apertura che il vocabolo 'ragionamento' può designare indifferentemente tanto un processo mentale, quanto un discorso: il processo mentale attraverso cui si perviene ad una conclusione o decisione e, rispettivamente, il discorso con il quale si giustifica - si danno ragioni a sostegno di - tale conclusione o decisione. Le due cose sono ovviamente distinte, e la distinzione va sottolineata nel presente contesto. Come in relazione alle teorie scientifiche si usa distinguere tra 'contesto di scoperta' e 'contesto di giustificazione', così in relazione alle decisioni giurisdizionali conviene distinguere tra il processo psicologico attraverso il quale il giudice perviene alla decisione ed il discorso attraverso il quale egli la argomenta o giustifica pubblicamente. L'importanza della distinzione discende dal fatto, scontato, che non necessariamente il discorso giustificatorio riflette fedelmente il processo psicologico.
È possibile - anzi, secondo alcuni, è certo - che il discorso giustificatorio costituisca la 'razionalizzazione' ex post di una conclusione cui il giudice è pervenuto in modo del tutto 'irrazionale', spinto da emozioni, preferenze, ideologie. Può darsi - in verità, è molto probabile - che nell'assumere la decisione il giudice sia guidato (anche) dai suoi privati sentimenti di giustizia. Ma, generalmente parlando, negli ordinamenti giuridici moderni, egli non può addurre in motivazione tali sentimenti: deve mostrare che la sua decisione è fondata su (deducibile da) norme giuridiche positive.
Ora, l'analisi del ragionamento giudiziale ha ad oggetto il discorso giustificatorio del giudice, non i suoi stati mentali e processi psicologici.
Nel nostro ordinamento (e, in genere, negli ordinamenti moderni che sottendono una cultura giuridica di tipo liberale) tutte le sentenze presentano una struttura comune: dispositivo più motivazione. Il contenuto del dispositivo - o decisione in senso stretto - può essere configurato come la conclusione di un ragionamento. La motivazione, a sua volta, può essere configurata come l'insieme degli argomenti addotti a giustificazione della decisione. In essa è dunque depositato il ragionamento del giudice.Occorre tuttavia precisare che quanto si dirà non costituisce una descrizione empirica del modo in cui i giudici ragionano di fatto. Costituisce piuttosto un modello ideale del modo in cui ci si attende che i giudici ragionino, conformemente al principio di legalità nella giurisdizione che è proprio degli ordinamenti giuridici moderni.
Si discute in letteratura se il ragionamento giudiziale abbia carattere logico, stringente, o invece retorico, persuasivo. Il dilemma ammette, a ben vedere, una semplice soluzione.
Nel ragionamento giudiziale si possono distinguere due livelli di argomentazione, che si usa chiamare, rispettivamente, giustificazione 'interna' (o giustificazione di primo ordine) e giustificazione 'esterna' (o giustificazione di secondo ordine).
La giustificazione interna è costituita dall'insieme delle premesse per sé necessarie e sufficienti a fondare logicamente la decisione (il dispositivo della sentenza). Tali premesse, come abbiamo visto, devono includere una norma.
La giustificazione esterna è costituita dall'insieme delle ulteriori premesse che sono necessarie a fondare la scelta delle premesse, che a loro volta costituiscono giustificazione interna.
La giustificazione interna è sempre necessaria, giacché in assenza di essa la decisione sarebbe priva di fondamento, e dunque arbitraria. La giustificazione esterna, per contro, è necessaria se e in quanto le premesse della giustificazione interna siano di fatto contestate o comunque contestabili.
La giustificazione interna ha carattere logico-deduttivo, mentre la giustificazione esterna ha piuttosto carattere retorico.
In astratto, si possono immaginare almeno due modelli di giustificazione delle decisioni giudiziali: un modello deontologico ed un modello teleologico (strumentale, consequenzialista). Ciascuno di essi corrisponde a diverse concezioni della giustizia e della razionalità. Secondo il modello deontologico, la decisione è giustificata se, e solo se, è logicamente fondata su (ossia deducibile da) una norma previa. Secondo il modello teleologico, la decisione è giustificata se, e solo se, è teleologicamente congruente rispetto ad un fine prefissato.
Come si è accennato ad altro proposito, in genere gli ordinamenti giuridici moderni (e segnatamente il diritto italiano vigente), mentre ammettono giustificazioni del secondo tipo per le decisioni amministrative, esigono una giustificazione del primo tipo per le decisioni giurisdizionali.
Di conseguenza, la giustificazione interna delle decisioni giurisdizionali deve avere struttura - se non sillogistica, come voleva Beccaria - certamente deduttiva, e deve includere una norma tra le premesse. Più precisamente, il contenuto della decisione deve essere logicamente dedotto da una norma in congiunzione con una proposizione conoscitiva.
In generale, ogni norma giuridica, nella sua struttura profonda, può essere ricostruita come un enunciato di forma condizionale, del tipo: "Se F, allora G". Qualche esempio (semplificato), scelto a caso e rappresentato in forma schematica: "Se assassinio, allora obbligo di punizione" (art. 575 Codice penale), "Se diciotto anni, allora maggiore età" (art. 2, comma 1, Codice civile), "Se cittadino, allora diritto di associazione" (art. 18, comma 1, Costituzione), "Se provvedimento giurisdizionale, allora obbligo di motivazione" (art. 111, comma 6, Costituzione), e via esemplificando. Come si vede, la protasi si riferisce ad una classe di fatti condizionanti (la classe degli assassinii, la classe dei diciottenni, ecc.), mentre l'apodosi statuisce una conseguenza giuridica (l'obbligo di punire, la maggiore età, ecc.) in relazione a ciascuno dei membri della classe.
Ebbene, l'applicazione giudiziale di una norma generale (o astratta) ad un caso individuale (o concreto) può essere configurata come un semplice ragionamento deduttivo, in modus ponens: "Se F, allora G. F. Quindi G".Beninteso, il carattere deduttivo dell'argomentazione garantisce la validità logica della conclusione, ma non la sua fondatezza giuridica. La conclusione è giuridicamente fondata se, e solo se, ricorrono due condizioni: a) la premessa normativa ("Se F, allora G") è una norma positiva valida; b) la premessa conoscitiva ("F") è una proposizione vera, la cui verità sia stata provata (in accordo con le norme giuridiche che disciplinano le prove). La validità della norma applicata e la verità della proposizione che descrive i fatti del caso devono essere a loro volta argomentate: ciò costituisce appunto la giustificazione esterna della decisione.
Prima di procedere, occorre però distinguere - ciò che non si usa fare in letteratura - due tipi di giudici: i giudici 'di merito' e i giudici 'di legittimità'. Con qualche semplificazione si può dire questo.
1) I giudici di merito giudicano tipicamente, sebbene non esclusivamente, su fatti (comportamenti), quali la pretesa commissione di un reato o il preteso inadempimento di un contratto.
2) I giudici di legittimità - specie le corti di cassazione e le corti costituzionali - giudicano tipicamente (sebbene non esclusivamente) su atti giuridici, quali sentenze di altri giudici (è il caso delle corti di cassazione) che si pretendono in contrasto con la legge, o leggi (è il caso delle corti costituzionali) che si pretendono in contrasto con la costituzione.
Quale esempio paradigmatico di norma soggetta all'applicazione dei giudici di merito, possiamo prendere una - immaginaria, ma non troppo (cfr. art. 575 Codice penale) - norma penale, la quale statuisca: "Tutti gli assassini devono essere puniti con la reclusione".
Quale esempio paradigmatico di norma soggetta all'applicazione dei giudici di legittimità, possiamo prendere una - di nuovo, immaginaria, ma non troppo (cfr. artt. 134 e 136 Costituzione) - norma costituzionale, la quale statuisca: "Tutte le leggi in contrasto con la costituzione sono costituzionalmente illegittime".
Ora, il giudice penale che si trovi ad applicare la norma che obbliga a punire gli assassini, ragionerà pressappoco così: "Tutti gli assassini devono essere puniti con la reclusione" (premessa normativa), "Tizio è un assassino" (premessa conoscitiva), "Quindi Tizio deve essere punito con la reclusione" (contenuto della decisione).
A sua volta, il giudice costituzionale, che si trovi ad applicare la norma che statuisce l'illegittimità costituzionale delle leggi in contrasto con la costituzione, ragionerà pressappoco così: "Tutte le leggi in contrasto con la costituzione sono costituzionalmente illegittime" (premessa normativa), "La legge L è in contrasto con la costituzione" (premessa conoscitiva), "Quindi L è costituzionalmente illegittima" (contenuto della decisione).
Come si vede, gli schemi di ragionamento dei giudici dell'uno e dell'altro tipo non differiscono in nulla. In entrambi i casi, la conclusione è dedotta da una norma in congiunzione con una proposizione. Diverse sono però le proposizioni che figurano tra le premesse.Il giudice del fatto usa come premessa una proposizione puramente fattuale: constata che l'imputato ha commesso omicidio.Il giudice di legittimità, per contro, usa come premessa non una proposizione fattuale, ma una proposizione metalinguistica, che verte non su un fatto, ma su un'entità concettuale: il 'contrasto' - ossia la contraddizione logica - tra una norma di legge e una norma costituzionale. (In verità, la legge può essere 'in contrasto' con la costituzione anche in altro modo e per altre ragioni, ma quello ora indicato è il caso paradigmatico e, del resto, quello di gran lunga più frequente. Ad esso ci si può limitare, per non complicare il discorso oltre misura.).
Questa differenza nelle premesse conoscitive della giustificazione interna dei giudici di merito e, rispettivamente, dei giudici di legittimità si riflette, come vedremo, nei rispettivi modi della giustificazione esterna.
Generalmente parlando, la giustificazione esterna, a differenza di quella interna, non ha carattere logico-deduttivo (anche se, naturalmente, qualunque argomentazione può essere ricondotta a deduzione con l'aggiunta di opportune premesse). Pertanto, può essere più o meno persuasiva, ma in nessun caso è stringente.
La giustificazione esterna consiste in due distinte catene di argomenti.Una prima catena è costituita dall'insieme degli argomenti addotti a sostegno della scelta della premessa normativa (ossia della norma cui si dà applicazione).
Una seconda catena è costituita dall'insieme degli argomenti addotti a sostegno della premessa conoscitiva.
Conviene avvertire che un'analisi esaustiva della giustificazione esterna della premessa normativa esigerebbe un intero trattato di teoria del diritto. Nel seguito, dovremo dunque limitarci ad un'analisi sommaria.
La giustificazione della premessa normativa può sollevare almeno cinque ordini di problemi.
1) Un primo possibile problema attiene alla validità formale dei testi normativi (leggi, regolamenti, o altre fonti del diritto) da cui la norma, assunta come premessa nella giustificazione interna, è ricavata. Di regola, infatti, le norme giuridiche sono ricavate, mediante interpretazione, dai quei testi normativi che si usa chiamare 'fonti' del diritto. Ma non sarebbe giustificata una decisione fondata sopra una norma ricavata da un testo normativo formalmente invalido. In verità, un problema di validità formale dei testi normativi si presenta assai raramente, ma, per completezza, va almeno menzionato.
I criteri di validità formale dei testi normativi sono alquanto diversi nei vari ordinamenti e, soprattutto, sono (in ogni ordinamento) distinti per ciascun tipo di testo normativo. Tuttavia, generalmente parlando, si può dire che un testo normativo sia formalmente valido quando sia stato prodotto: a) da un'autorità competente; b) secondo il procedimento prescritto. Ad esempio, nel nostro ordinamento, una legge statale è formalmente valida quando sia stata approvata dalle due Camere in conformità alle norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo.
Ora, negli ordinamenti giuridici moderni, i testi normativi sono soggetti a pubblicazione in documenti e raccolte ufficiali (quali la "Gazzetta Ufficiale della Repubblica") e, quando siano pubblicati, si presumono formalmente validi fino a prova contraria. Pertanto, di regola, non occorre argomentare in favore della loro validità formale: se non, beninteso, quando essa sia contestata da una delle parti processuali.
Quando ciò accada, la validità formale di un testo normativo deve essere argomentata adducendo, per così dire, la 'storia istituzionale' del testo in questione: ad esempio, nel caso delle leggi, questa può essere ricostruita ricorrendo agli atti parlamentari.
2) Un secondo problema - anzi, un intero grappolo di problemi distinti, ma intrecciati - attiene all'interpretazione dei testi normativi onde ricavarne la norma cui si dà applicazione. Questo problema, a differenza del precedente, è ineludibile, e costituisce anzi il problema centrale della giustificazione esterna della premessa normativa. Vediamo sommariamente di che si tratta.
a) Negli ordinamenti giuridici continentali, le fonti del diritto (la costituzione, le leggi, i regolamenti, ecc.) sono essenzialmente testi normativi: documenti esprimenti norme. Un testo normativo, d'altro canto, è una sequenza di enunciati: di 'disposizioni' normative, come si usa dire. A sua volta, un enunciato - una disposizione - altro non è che una sequenza di parole di senso compiuto. Ora, un enunciato contenuto in una fonte esprime una norma (o, come sovente accade, più norme congiuntamente), ma non è esso stesso una norma. La norma è non già l'enunciato stesso, ma il suo significato: il suo contenuto di senso, se così vogliamo dire.Il processo che conduce da un enunciato al significato si dice 'interpretazione'. L'interpretazione è dunque un'attività che si esercita su testi normativi, e da essi ricava norme. Le norme, insomma, sono non l'oggetto, ma piuttosto il prodotto, il risultato, dell'interpretazione. (Il modo di esprimersi corrente tra i giuristi, secondo il quale l'oggetto dell'interpretazione sono 'norme', è fuorviante: tende a confondere il testo con il suo significato.).
Ora, raramente i testi normativi si presentano con un significato univoco e ben definito. Quasi sempre essi sono ambigui. Talora l'ambiguità dipende dalla semantica e/o dalla sintassi della singola disposizione, isolatamente considerata. Più spesso dipende dalla compresenza di una molteplicità di disposizioni che si connettono ed intersecano variamente tra di loro.
Per conseguenza, il diritto risulta indeterminato. Ogni disposizione si presta ad una pluralità di interpretazioni, ossia esprime potenzialmente non uno, ma più significati alternativi. Le diverse interpretazioni ricavano, da una stessa disposizione, significati diversi, ossia norme distinte. L'interpretazione, pertanto, non è conoscenza di 'un' significato precostituito all'interprete, ma scelta tra una pluralità di significati egualmente possibili (anche se non tutti egualmente plausibili). L'interpretazione, come si usa dire, è atto di volontà, non di conoscenza. Ecco dunque che l'interpretazione prescelta deve essere argomentata.
b) Il problema è poi complicato dal fatto che il diritto è indeterminato anche sotto un altro profilo: esso è, sovente, incoerente. Accade cioè che - almeno secondo una certa interpretazione - due norme disciplinino lo stesso caso, o una stessa classe di casi, in modi difformi, configurando così una 'antinomia', e consentendo per la stessa controversia due soluzioni differenti.Ogni ordinamento include norme che offrono criteri di soluzione delle antinomie e, pertanto, di scelta della norma applicabile. I criteri più comuni sono i seguenti: lex superior derogat inferiori (la norma superiore rende invalida quella inferiore); lex posterior derogat priori (la norma successiva abroga quella antecedente); lex specialis derogat generali (la norma speciale fa eccezione a quella generale).
Ma vi sono antinomie - esempio paradigmatico: quelle tra principî costituzionali - per le quali non sussiste alcun criterio di soluzione. Ve ne sono altre per le quali sussistono non uno ma due criteri concorrenti e confliggenti (un solo esempio: un'antinomia tra due norme, una delle quali sia al tempo stesso successiva e generale rispetto all'altra). Antinomie siffatte ammettono non una, ma (almeno) due soluzioni alternative. Ciascuna soluzione mette capo ad una diversa norma suscettibile di applicazione. Anche la soluzione di antinomie, almeno in alcune circostanze, esige argomentazione.
c) Peraltro, il diritto non è solo indeterminato, è anche lacunoso. Accade cioè che un caso non sia disciplinato da alcuna norma: o, almeno, da alcuna norma 'espressa' (che costituisca cioè il significato, o uno dei significati, di una disposizione normativa formalmente valida).
In molti ordinamenti, tuttavia, il giudice, anche in presenza di una lacuna, non può esimersi dal decidere la controversia a lui sottoposta. Ha l'obbligo di deciderla comunque, e di deciderla 'secondo il diritto'. Ciò esige che il giudice, con opportune strategie argomentative, ricavi dai testi normativi una norma 'implicita', inespressa.
Sia l'esistenza di una lacuna, sia la costruzione della norma inespressa idonea a colmarla esigono argomentazione.
d) Compiuta l'interpretazione testuale, il lavoro del giudice non è terminato, giacché la norma generale e/o astratta, determinata per via di interpretazione, deve essere applicata ad un caso individuale e/o concreto: la norma richiede cioè 'concretizzazione'. Occorre decidere se il caso sottoposto all'attenzione del giudice ricada nel campo di applicazione della norma: appartenga cioè alla classe dei casi previsti dalla norma quali condizioni di certe conseguenze giuridiche.La decisione di includere un caso concreto in una classe di casi si dice 'sussunzione'. Sussumere un caso concreto nella classe di casi prevista da una norma giuridica costituisce 'qualificazione giuridica' del caso in questione.
I problemi nascono dal fatto (pacifico) che ogni norma è fatalmente vaga, i suoi contorni sono indefiniti. Ogni norma, si usa dire, presenta una 'trama aperta': al centro vi è una zona di luce, ai margini una 'zona di penombra'. In altre parole, data una norma, vi sono casi che certamente ricadono nel suo campo di applicazione; altri che, non meno certamente, cadono fuori di esso; ma ve ne sono altri ancora per i quali la situazione è dubbia. Anche la concretizzazione della norma, naturalmente, richiede argomentazione, per lo meno quando la controversia da decidere si collochi nella 'zona di penombra'.
Questi, esposti in modo succinto, sono i problemi dell'interpretazione. L'argomentazione dell'interpretazione prescelta richiede però un discorso a sé: ad essa è dedicato un prossimo capitolo.
3) Un terzo problema attiene alla validità sostanziale della norma assunta come premessa nella giustificazione interna. Non sarebbe giustificata una decisione fondata sopra una norma sostanzialmente invalida.Il problema della validità sostanziale delle norme si atteggia diversamente a seconda che si tratti di norme espresse o di norme inespresse.
Una norma espressa - ricavabile, cioè, mediante interpretazione da una disposizione normativa formalmente valida - è sostanzialmente valida quando non sia in contrasto con altre norme 'superiori', cioè gerarchicamente sovraordinate. Ad esempio, in un ordinamento a costituzione rigida come quello vigente, una norma di legge (statale o regionale) è sostanzialmente valida se, e solo se, non contraddice alcuna norma costituzionale.
Per la validità sostanziale di una norma inespressa deve essere soddisfatta una condizione ulteriore: occorre che la norma in questione sia ricavabile in modo persuasivo da una o più norme espresse, mediante un procedimento argomentativo espressamente prescritto dal diritto stesso e/o comunemente accettato nella cultura giuridica.
Inutile precisare che la validità sostanziale delle norme applicate (cioè assunte come premesse nella giustificazione interna) esige argomentazione ogniqualvolta sia contestata da una delle parti.
Il discorso che precede si riferisce agli ordinamenti continentali, a 'diritto legislativo'. Negli ordinamenti di common law (soprattutto di Gran Bretagna e Stati Uniti) la norma applicabile è, sovente, ricavata non da testi normativi (leggi e quant'altro), ma da 'precedenti' giurisprudenziali. In tali ordinamenti, infatti, vige la regola del precedente vincolante (stare decisis), in virtù della quale le corti inferiori hanno l'obbligo di conformarsi alle decisioni delle corti superiori. Più precisamente: un giudice (inferiore), al quale sia sottoposto un caso analogo ad un altro già deciso da un altro giudice (superiore) in una sentenza precedente, deve decidere il caso nello stesso modo. L'uso della regola stare decisis solleva principalmente due ordini di problemi, ai quali si può solo accennare.In primo luogo, la regola stare decisis esige che il giudice accerti la somiglianza tra due casi. Tuttavia, nessun caso è intrinsecamente 'analogo' a (o diverso da) alcun altro caso. La somiglianza tra due casi dipende dagli aspetti 'rilevanti' dell'uno e dell'altro. Ma stabilire quali aspetti di un caso siano rilevanti (e quali irrilevanti) non è questione di fatto: è materia di valutazione e decisione. La regola del precedente vincolante non specifica in alcun modo quali criteri un giudice debba usare per decidere se il caso a lui sottoposto sia, o non sia, analogo ad un caso precedente. Sicché la regola si presta a facili elusioni mediante la tecnica del distinguishing, che consiste nel mostrare come casi apparentemente simili siano, 'in realtà', diversi l'uno dall'altro.Naturalmente, sia la asserita somiglianza, sia la asserita differenza tra casi richiedono argomentazione. E questa non può che consistere nel mettere in evidenza gli aspetti comuni e/o le differenze tra i casi.
In secondo luogo, la regola stare decisis esige l'interpretazione dei 'precedenti', cioè delle sentenze pronunciate da altri giudici in occasioni anteriori per decidere casi (si suppone) analoghi. Interpretare una sentenza consiste nell'analizzarla per estrarre da essa la sottostante ratio decidendi, ossia per formulare la norma generale da cui (si suppone) la decisione è stata inferita.
Per identificare la ratio decidendi, occorre identificare il 'nocciolo' del ragionamento compiuto dal giudice, e più precisamente la premessa normativa della giustificazione interna. Le premesse della giustificazione interna devono essere isolate e accuratamente separate dai cosiddetti obiter dicta, ossia da ogni affermazione non strettamente necessaria a fondare la decisione. Solo la ratio decidendi, infatti, è vincolante: non gli obiter dicta. Costituisce ratio decidendi qualunque norma giuridica che sia stata espressamente o - come più spesso accade - tacitamente usata dal giudice per ricavarne la decisione.
Ora, la regola stare decisis presuppone che ogni precedente incorpori una, ed una sola, ratio decidendi determinata, suscettibile di essere 'scoperta', come un tesoro nascosto, mediante un'indagine accurata. Di fatto, però, l'identificazione della ratio decidendi - almeno ogniqualvolta questa non sia stata espressamente enunciata - non è per nulla una scoperta. È piuttosto un procedimento di 'universalizzazione' (un tipo di ragionamento largamente studiato e discusso soprattutto in metaetica), che consiste nel ricondurre congetturalmente una decisione individuale sotto una norma generale (o universale) che la giustifichi. Per illustrare il punto, si può addurre un semplice esempio, sovente citato nei manuali anglosassoni di jurisprudence.In un caso celebre, un birraio scozzese fu condannato a risarcire i danni ad un consumatore che aveva trovato resti decomposti di lumaca in una bottiglia di birra. Questa decisione può essere universalizzata congetturando, fra le altre, le norme seguenti: "I produttori scozzesi di birra in bottiglie opache hanno l'obbligo di usare la diligenza necessaria ad evitare che lumache morte vadano a finire nel prodotto"; oppure: "I produttori di birra hanno l'obbligo di usare la diligenza necessaria ad evitare che animali morti vadano a finire nel prodotto"; o ancora: "I produttori di alimenti e bevande hanno l'obbligo di usare la diligenza necessaria ad evitare che sostanze nocive vadano a finire nel prodotto"; e così via universalizzando. Ovviamente, la prima norma non troverebbe applicazione qualora il produttore di birra fosse gallese e/o le bottiglie di birra fossero trasparenti e/o nelle bottiglie si trovassero resti di lucertola. La seconda non si applicherebbe ai produttori di aranciata. E così avanti.La cosa notevole è che, come emerge dall'esempio, da uno stesso precedente possono essere 'estratte', mediante universalizzazione, una pluralità di norme ben distinte, a seconda del livello di astrazione prescelto. In questo senso, ciascun precedente può essere 'interpretato' in più modi alternativi. E, per conseguenza, uno stesso precedente può essere invocato, in diverse circostanze, per dare fondamento a decisioni del tutto diverse (e persino contrastanti). Come che sia, anche l'interpretazione del precedente richiede argomentazione.
Come si sarà compreso, la parte di gran lunga più importante e più problematica della giustificazione esterna della premessa normativa è costituita dall'argomentazione dell'interpretazione. Ora, le tecniche argomentative adottate o adottabili dai giudici per giustificare la scelta di una determinata interpretazione a preferenza di altre sono innumerevoli. Nel seguito, sono esposti succintamente solo alcuni degli argomenti più ricorrenti e, al tempo stesso, relativamente tipizzati.
Occorre tuttavia premettere che il lavoro interpretativo si svolge in due fasi concettualmente distinte (anche se nei fatti intrecciate o sovrapposte).
La prima fase consiste nella identificazione della norma vigente (o piuttosto delle norme vigenti, al plurale). Come abbiamo accennato, ciò suppone tra l'altro la soluzione di eventuali antinomie e l'integrazione di eventuali lacune: ma la problematica delle antinomie e delle lacune (salvo qualche sporadico accenno) non può essere compiutamente trattata in questa sede.
La seconda fase consiste nella 'concretizzazione' della norma applicabile, ossia nella sussunzione del caso concreto in una delle norme vigenti, previamente identificate. Ciò richiede una delimitazione del campo di applicazione - fatalmente indeterminato, come abbiamo visto - delle norme in questione.
1) Tra gli argomenti comunemente usati per identificare le norme vigenti si possono menzionare, a titolo di esempio, i seguenti.
L'argomento a contrario. - Si dice argomento a contrario quella tecnica interpretativa che si fonda sull'assunto che il legislatore abbia detto esattamente ciò che intendeva dire (ubi lex voluit dixit, ubi tacuit noluit), sicché: ciò che il legislatore non ha detto, evidentemente non intendeva dirlo, giacché, se avesse voluto dirlo, l'avrebbe detto. L'argomento, palesemente, si regge sulla presunzione di una perfetta corrispondenza tra l'intenzione del legislatore e il testo normativo, e induce ad escludere che si possa attribuire ad una data disposizione normativa un significato diverso da - in particolare: più ampio di - quello letterale. Se, ad esempio, il legislatore ha detto "cittadini", si deve ritenere che intendesse riferirsi proprio ai cittadini, e non agli uomini in genere (ivi inclusi gli stranieri e gli apolidi).
Tuttavia, l'argomento a contrario può essere usato per trarre due conclusioni assai diverse. Supponiamo che una disposizione normativa conferisca un certo diritto D ai "cittadini". Argomentando a contrario, si può sostenere: a) che la legge conferisca il diritto D solo ai cittadini, e taccia sugli stranieri e gli apolidi: da questo punto di vista, in altre parole, manca una norma che conferisca il diritto D agli stranieri e agli apolidi, ma manca altresì una norma che neghi tale diritto agli stranieri e agli apolidi: la legge è lacunosa in materia di stranieri ed apolidi; b) che la legge conferisca il diritto D solo ai cittadini e, così facendo, positivamente escluda gli stranieri e gli apolidi dal godimento di tale diritto.
Nel primo caso, la legge si presenta lacunosa: non disciplina in alcun modo il caso degli stranieri e degli apolidi. Nel secondo, al contrario, la legge - lungi dall'essere lacunosa - contiene sia la norma esplicita che conferisce quel dato diritto ai cittadini ("Se cittadino, allora diritto D"), sia la norma inespressa che nega quel diritto agli stranieri e agli apolidi ("Se non-cittadino, allora non-diritto D"). Nell'un caso, dunque l'uso dell'argomento a contrario si risolve nella creazione di una lacuna. Nell'altro caso, il medesimo argomento esclude qualsivoglia lacuna, grazie alla formulazione di una norma inespressa che disciplina anche la fattispecie non espressamente prevista.
L'interpretazione sistematica. - La locuzione 'interpretazione sistematica', a dire il vero, è largamente usata per designare non già una singola tecnica interpretativa, ma piuttosto un'intera famiglia di tecniche diverse, il cui solo tratto comune è forse quello di fare appello: a) per un verso al contesto entro cui si colloca la disposizione da interpretare, e b) per un altro verso, alla presunzione di coerenza (assenza di antinomie) dell'ordinamento giuridico. Per semplificare le cose, conviene tuttavia restringere il concetto di interpretazione sistematica ad una tecnica interpretativa specifica.Diremo dunque sistematica quella interpretazione che previene le antinomie nell'ambito di un singolo testo normativo. In che modo? Evitando di ricavare da una data disposizione (poniamo l'art. x di una certa legge) una norma che sarebbe in conflitto con un'altra norma, previamente ricavata da un'altra disposizione del medesimo testo normativo (l'art. y della stessa legge). In altre parole, si fa interpretazione sistematica ogniqualvolta si esclude una certa attribuzione di significato che, se ammessa, renderebbe un testo normativo (la costituzione, una legge, un codice, ecc.) internamente incoerente. Questo modo di interpretare, è ovvio, si regge sull'assunto che la volontà del legislatore sia coerente: che, insomma, il legislatore non intenda contraddirsi (per lo meno, non nell'ambito di un singolo testo normativo).
Ad esempio, l'art. 95, comma 2 della Costituzione dispone che i ministri sono "responsabili collegialmente" degli atti del Consiglio dei ministri. La locuzione "responsabilità collegiale", astrattamente considerata, potrebbe essere intesa come riferentesi (anche) alla responsabilità penale. Ma questa possibile interpretazione è esclusa dal contesto, giacché l'art. 27, comma 1 della Costituzione statuisce espressamente che la responsabilità penale può solo essere personale.
L'interpretazione adeguatrice. - L'interpretazione adeguatrice - una specie del genere interpretazione sistematica latamente intesa - è quella interpretazione che previene le antinomie tra norme espresse da testi normativi diversi e gerarchicamente ordinati, evitando di ricavare da una data disposizione (poniamo l'art. x di una certa legge) una norma che sarebbe in conflitto con un'altra norma, previamente ricavata da una disposizione appartenente ad un testo normativo diverso e gerarchicamente superiore (diciamo l'art. y della costituzione).
Accade spesso, ad esempio, che una disposizione di legge sia suscettibile di due interpretazioni alternative, ciascuna delle quali ricava, da quell'unica disposizione, due norme distinte - diciamo N1 e N2 - e che una di queste norme, poniamo N1, sia conforme a costituzione, mentre l'altra, N2, è incompatibile con la costituzione. Ebbene, si fa interpretazione adeguatrice scartando la seconda interpretazione (N2), e scegliendo la prima (N1). Si trovano esempi macroscopici di interpretazione adeguatrice in tutte le sentenze cosiddette 'interpretative' della Corte costituzionale (specialmente nelle interpretative 'di rigetto').
Ma, sebbene l'interpretazione della legge conforme a costituzione sia l'esempio paradigmatico di interpretazione adeguatrice, questo tipo di interpretazione ha un raggio d'azione vastissimo. Si fa interpretazione adeguatrice quando (nel dubbio) si interpreta una legge in modo conforme a (anziché contrastante con) un regolamento comunitario; un decreto legislativo delegato in modo conforme alla legge di delegazione; una legge regionale in conformità alle leggi statali che esprimono i principî fondamentali della materia di cui trattasi; un regolamento di esecuzione in modo conforme alle disposizioni di rango legislativo alla cui esecuzione esso è preordinato; e così via.
2) Tra gli argomenti comunemente usati per delimitare il campo di applicazione di una norma, previamente accertata, e quindi per sussumere sotto di essa un caso concreto, si possono menzionare, a titolo di esempio, i seguenti.
Interpretazione restrittiva: la tecnica della 'dissociazione'. - La tecnica della 'dissociazione' - ossia, banalmente, della distinzione - si fonda: o sull'assunto che il legislatore abbia sottinteso una certa distinzione (cioè l'abbia voluta, sebbene non l'abbia resa esplicita); o sull'assunto che il legislatore, pur non avendo fatto una certa distinzione, tuttavia l'avrebbe fatta se avesse preso in considerazione il caso.Il punto può essere chiarito con un esempio. L'art. 1428, Cod. civ. dispone che, in certe condizioni, "l'errore è causa di annullamento del contratto". Il legislatore non distingue tra l'ipotesi che l'errore sia stato commesso da uno solo dei contraenti (cosiddetto errore 'unilaterale') e l'ipotesi che sia stato commesso da entrambi (cosiddetto errore 'bilaterale'). Tuttavia, gli errori unilaterali sono 'sostanzialmente' diversi da quelli bilaterali. Ratio della norma è la tutela della buona fede, ma, nel caso dell'errore bilaterale, un problema di tutela della buona fede neppure si pone. Pertanto, l'art. 1428, Cod. civ. deve essere inteso nel senso che esso si riferisca non all'errore senza distinzioni, ma solo all'errore unilaterale. Come si vede, l'esito di questa argomentazione è un'interpretazione restrittiva. Così intesa, la disposizione si applica non all'intera classe degli errori, ma solo ad una sottoclasse (per ciò stesso più ristretta) di essi: la sottoclasse degli errori unilaterali.
Interpretazione estensiva: l'analogia. - L'argomento a simili (o analogico) si fonda: o sull'assunto che la formulazione legislativa non rifletta la 'reale' volontà del legislatore (lex minus dixit quam voluit); o sull'assunto che il legislatore, pur non avendo contemplato una certa fattispecie, l'avrebbe tuttavia contemplata qualora l'avesse presa in considerazione.
L'argomento presenta, grosso modo, la seguente struttura. La disposizione normativa D ("Se F1, allora G") connette la conseguenza giuridica G alla fattispecie F1; d'altro canto la fattispecie F2, sebbene non inclusa nel campo di applicazione della disposizione interpretata alla lettera, somiglia a F1; pertanto essa deve avere la medesima conseguenza giuridica; dunque la disposizione D deve essere intesa nel senso che la conseguenza G si applichi anche alla fattispecie F2.
Il punto può essere illustrato con un semplice esempio. Il legislatore ha disposto che chi abbia ricevuto indebitamente una cosa, e l'abbia in buona fede alienata ignorando di doverla restituire, è tenuto a restituire il corrispettivo conseguito (art. 2038, comma 1, Cod. civ.), e non invece a restituire la cosa stessa in natura o a corrisponderne il valore (art. 2038, comma 2, Cod. civ.). Si suppone che la ratio della norma, ovvero il principio su cui la norma si regge, sia il principio di tutela dell'affidamento: si suppone, cioè, che il legislatore pretenda (solo) la restituzione del corrispettivo, e non adempimenti più gravosi, per dare tutela alla buona fede del soggetto in questione. La fattispecie della indebita ricezione e susseguente alienazione è simile alla situazione di chi abbia acquistato un oggetto rubato ignorandone la provenienza furtiva, e l'abbia poi in buona fede alienato. Pertanto, l'art. 2038, comma 1, Cod. civ. deve essere inteso nel senso che esso si riferisca anche alla fattispecie dell'acquisto in buona fede di cosa rubata. Come si vede, l'esito di questa argomentazione è un'interpretazione estensiva. Così intesa, la disposizione si applica anche a fattispecie che, interpretando alla lettera, non vi rientrerebbero.
Si noti che, a rigore, l'argomento analogico serve a dare sostegno non tanto ad una tesi strettamente interpretativa (relativa cioè al significato di una disposizione) quanto piuttosto alla formulazione di una norma nuova, onde colmare una lacuna. Trattasi non tanto di un argomento 'interpretativo' (di disposizioni preesistenti), quanto piuttosto di un argomento 'produttivo' (di diritto nuovo). Ma il fatto è che tra interpretazione (specie se estensiva) di una disposizione e formulazione di un norma nuova non è dato trovare una netta linea di confine.
Interpretazione evolutiva. - L'interpretazione evolutiva si fonda sull'assunto che, anche quando i testi normativi restino immutati, la volontà del legislatore sia tuttavia mutevole, e continuamente si adatti alle circostanze (economiche, sociali, culturali, ecc.). Si dice 'originalista' quella interpretazione che attribuisce a ciascun testo normativo il suo significato 'originario', appunto, cioè il significato che quel testo aveva nel momento in cui entrò in vigore. Si dice 'evolutiva' quella interpretazione che, per contro, attribuisce ai testi normativi - specie a testi normativi ormai risalenti nel tempo - significati nuovi, diversi da quello originario: adatti alle mutate circostanze.
L'interpretazione evolutiva può avere esiti indifferentemente restrittivi o estensivi. Può cioè, secondo i casi, restringere o estendere il campo di applicazione delle disposizioni interpretate. Ad esempio, è estensiva quella interpretazione evolutiva dell'art. 2 della Costituzione che include tra i diritti inviolabili dell'uomo anche il diritto cosiddetto all'identità personale. Mentre è restrittiva quella interpretazione, essa pure evolutiva, che restringe il significato del vocabolo "osceno" (art. 528 del Codice penale) così da escludere che possano considerarsi osceni degli scritti o degli spettacoli che in passato erano ritenuti tali.
Si è accennato che il diritto appare, talora, lacunoso (lacunoso, beninteso, alla luce di una certa interpretazione), e che, in tali circostanze, per costruire la premessa normativa della giustificazione interna, il giudice deve ricavare dai testi normativi una norma implicita, inespressa. Occorre tuttavia distinguere tre tipi di norme inespresse, a ciascuno dei quali corrisponde un diverso tipo di argomentazione.
a) In primo luogo, vi sono norme inespresse che sono ricavate a partire da norme espresse secondo schemi di ragionamento logicamente validi (ossia deduttivi) e senza l'aggiunta di ulteriori premesse (cioè senza l'impiego di premesse che non siano norme espresse).Ad esempio, data una norma espressa N1 che statuisce: "I maggiorenni hanno diritto di voto", e un'altra norma espressa N2 che statuisce: "I diciottenni sono maggiorenni", si può deduttivamente inferire la norma inespressa N3: "I diciottenni hanno diritto di voto".
b) In secondo luogo, vi sono norme inespresse che sono ricavate da norme espresse secondo schemi di ragionamento logicamente validi, ma con l'aggiunta di premesse ulteriori: di premesse, cioè, che non costituiscono a loro volta norme espresse (ad esempio, definizioni di termini usati nella formulazione di norme espresse).
Poniamo ad esempio che una norma espressa N1 statuisca: "I maggiorenni hanno diritto di voto", e che però non vi sia alcuna norma espressa che definisca il termine "maggiorenni". Per inferire logicamente dalla sola norma N1 una norma inespressa - poniamo: "Chi ha conseguito il diploma di scuola media superiore ha diritto di voto" - occorre aggiungere a quell'unica premessa (N1) una premessa ulteriore, e precisamente una qualche definizione di "maggiorenne". Siffatta definizione è, ovviamente, frutto di interpretazione.
c) In terzo luogo, vi sono norme inespresse che sono ricavate, più o meno persuasivamente, a partire da norme espresse secondo schemi di ragionamento non deduttivi, logicamente invalidi (ad esempio, un entimema, una congettura sulla ratio legis, l'argomento analogico, ecc.).
Un esempio tra mille: "La salute è un diritto fondamentale dell'individuo" (trattasi, in ipotesi, di una norma espressa); "Il danno alla salute costituisce violazione di un diritto fondamentale"; "Pertanto, il danno alla salute deve essere risarcito".
Le norme inespresse del primo tipo possono essere considerate implicite in senso stretto (cioè in senso logico), e pertanto 'positive', sebbene non formulate. Le norme del secondo tipo, per contro, sono il prodotto di un lavoro di interpretazione e 'costruzione'; nascono, più precisamente, da una combinazione di deduzione logica e interpretazione. Le norme del terzo tipo, infine, sono frutto di creazione di diritto - 'legislazione interstiziale', come si usa dire - da parte dei giudici.
Come abbiamo accennato altrove, occorre distinguere il ragionamento dei giudici di merito da quello dei giudici di legittimità.
1) Nel ragionamento dei giudici di merito, la premessa conoscitiva della giustificazione interna è un asserto fattuale, assunto come vero. In linea di principio, la verità di un asserto fattuale (del tipo: "Tizio ha cagionato la morte di Caio") non può essere a sua volta argomentata se non adducendo osservazioni empiriche (nonché congetture sui nessi di causalità tra eventi). A questo riguardo conviene tuttavia fare due osservazioni.In primo luogo, è opportuno sottolineare - benché si tratti di un'ovvietà - che i procedimenti di accertamento fattuale impiegati da un giudice, a differenza di quelli impiegati da uno scienziato empirico, non sono interamente 'liberi'. Sono variamente condizionati da norme giuridiche: in particolare, dalle norme che disciplinano la raccolta e l'uso delle prove. Ad esempio, le regole sull'onere della prova, le presunzioni legali (e, tra queste, la presunzione di non colpevolezza), il principio del 'libero convincimento' del giudice (vigente in molti ordinamenti), e così avanti.In secondo luogo, è opportuno notare che i 'fatti' che il giudice accerta direttamente sono soltanto le prove (ad esempio, le testimonianze), non i fatti provati: a questi il giudice - non diversamente da uno storico - non ha accesso diretto.
Una prova è un fatto (direttamente osservato), che induce a ritenere avvenuto un altro fatto: quest'ultimo è, dal giudice, non già osservato direttamente, bensì inferito dalle prove. Una prova autorizza il giudice a ritenere vera una certa proposizione circa il presente e ad inferire da questa un'altra proposizione circa il passato. Questa inferenza non ha carattere deduttivo: tra le due proposizioni vi è non già un nesso di implicazione logica, ma piuttosto un più debole nesso di 'congruenza narrativa' (così la si è chiamata).
Si prenda ad esempio il seguente ragionamento: "La prima moglie del signor Landru è morta nella vasca da bagno, mentre il signor Landru era in casa. Anche la seconda, la terza, e la quarta moglie del signor Landru sono morte nello stesso modo e nelle stesse circostanze. Prima che morisse la prima moglie, il signor Landru si è informato da un avvocato circa la possibilità di ereditare le di lei sostanze. Se ne deve concludere che il signor Landru ha ucciso tutte le sue quattro mogli nella vasca da bagno". In un ragionamento siffatto le premesse paiono sufficienti a giustificare la conclusione. Questa è non solo coerente (ossia non contraddittoria) con le premesse, ma altresì 'congruente' con esse. Certo, la conclusione proposta appare più convincente di una conclusione diversa, del tipo: "Tutte le mogli del signor Landru sono morte accidentalmente". Nondimeno, è evidente che la conclusione non è logicamente implicata dalle premesse, e potrebbe essere falsa.Si noti, di passaggio, che il concetto di congruenza narrativa è alquanto sfuggente. La congruenza somiglia alla coerenza logica, ma è diversa da essa. Mentre la coerenza è una qualità negativa (assenza di contraddizioni), la congruenza è una qualità positiva. Inoltre, mentre la coerenza è un concetto a due valori (un insieme di proposizioni o è coerente, o non lo è), la congruenza è questione di grado (un insieme di proposizioni può essere meno congruente di un altro senza tuttavia essere incongruente).
2) Nel ragionamento dei giudici di legittimità, la premessa conoscitiva della giustificazione interna è una proposizione la quale asserisce l'esistenza di una contraddizione, secondo i casi, tra una decisione individuale e una norma (è il caso, ad esempio, dei giudici di Cassazione), ovvero tra due norme (è il caso, tipicamente, dei giudici costituzionali). L'accertamento di una contraddizione tra una decisione individuale ed una norma suppone ovviamente l'identificazione della norma di cui trattasi. L'accertamento della contraddizione tra due norme suppone a sua volta l'identificazione delle due norme in questione.Ora, l'identificazione di norme, come ormai sappiamo, è cosa del tutto diversa da un accertamento fattuale: esige un lavoro di interpretazione di testi normativi. Sicché, nel ragionamento dei giudici di legittimità, la giustificazione esterna della premessa conoscitiva consiste essenzialmente nell'argomentazione di decisioni interpretative. Pertanto, essa non differisce in modo significativo dalla giustificazione esterna della premessa normativa. In entrambi i casi, il nocciolo della giustificazione consiste nell'addurre argomenti interpretativi, del tipo di quelli che già abbiamo visti in precedenza (argomento a contrario, interpretazione sistematica, interpretazione adeguatrice, e molti altri che, per brevità, non sono stati illustrati).
Tuttavia, non si può non menzionare almeno una peculiarità del ragionamento del giudice costituzionale.
I tribunali costituzionali, generalmente parlando, svolgono la funzione di accertare la sussistenza di eventuali antinomie (contraddizioni) tra norme di rango legislativo e norme di rango costituzionale. Accade però sovente che l'accertamento di un'antinomia tra una legge e la costituzione sia reso problematico, oltre che dai consueti dubbi interpretativi, dal fatto che si incontrano antinomie in seno alla costituzione stessa: in particolare, tra quelle disposizioni costituzionali che esprimono non già norme specifiche, ma, come si usa dire, 'principî'. Sicché una legge appare conforme a costituzione se raffrontata ad un certo principio costituzionale, mentre appare incostituzionale se raffrontata ad un principio diverso. Come è facile comprendere, in circostanze siffatte, il giudice costituzionale - per decidere se vi sia antinomia tra legge e costituzione - deve, previamente, risolvere l'antinomia, il conflitto, tra i principî costituzionali coinvolti. Un'antinomia, occorre dire, per la quale nessun ordinamento giuridico predispone un criterio di soluzione.
La tecnica di soluzione delle antinomie tra principî costituzionali comunemente impiegata dai tribunali costituzionali prende il nome di 'ponderazione' o 'bilanciamento', e somiglia a quel modo di ragionare che alcuni filosofi morali chiamano 'equilibrio riflessivo'. Essa consiste nell'istituire, tra i due principî confliggenti, una peculiare relazione gerarchica. Si tratta di una gerarchia: a) assiologica, b) mobile.
Una gerarchia assiologica è una relazione di valore istituita (non dal diritto stesso, ma) dall'interprete: per l'appunto, mediante un giudizio di valore. Istituire una gerarchia assiologica significa accordare ad uno dei due principî confliggenti un maggior 'peso', un maggior valore, rispetto all'altro. Il principio dotato di maggior valore prevale, nel senso che viene applicato; il principio assiologicamente inferiore soccombe - non nel senso che risulti invalido o abrogato, ma nel senso che viene accantonato, provvisoriamente sacrificato a vantaggio dell'altro.
Una gerarchia mobile è una relazione instabile, mutevole, che vale per un certo caso concreto, ma che potrebbe essere rovesciata in relazione ad un caso concreto diverso. Per istituire questa relazione gerarchica, infatti, il giudice costituzionale non soppesa il valore dei due principî in astratto e una volta per tutte, ma valuta invece il possibile impatto della loro applicazione al caso concreto. Se l'esito che, nel caso concreto, avrebbe l'applicazione del principio P1 pare a lui più giusto (o meno ingiusto) dell'esito che avrebbe invece l'applicazione del principio P2, allora il principio P2 sarà, nel caso concreto, accantonato, mentre il principio P1 sarà, nel caso concreto, applicato. Ma 'nel caso concreto', si badi. In altre parole, non è escluso che, in un caso diverso, sia l'applicazione di P2 ad avere esiti sentiti come più giusti (o meno ingiusti) dell'applicazione di P1, e che pertanto la relazione gerarchica sia rovesciata, applicando P2 e accantonando P1. In questo senso, si tratta di una gerarchia mobile: se anche in un caso è stato attribuito maggior peso o valore a P1, nulla impedisce che in un caso diverso si attribuisca maggior peso o valore a P2. Per conseguenza, il conflitto tra principî costituzionali non è risolto stabilmente, una volta per tutte, facendo senz'altro prevalere uno dei due principî confliggenti sull'altro; ogni soluzione del conflitto vale solo per il caso concreto, e resta pertanto imprevedibile la soluzione dello stesso conflitto in casi futuri.
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