ragione
Termine usato correntemente da D. con una serie di significati diversi, conformi ora al linguaggio comune, ora al linguaggio filosofico. Cfr. un'enumerazione dei significati di " ratio " in Tommaso d'Aquino: " primo quidem dicitur esse quaedam cognoscitiva virtus... Alio modo ponitur pro causa, ut cum dicitur: Qua ratione hoc fecisti? id est, qua de causa?... Tertio modo dicitur ratio etiam computatio, sicut habetur Math. XVIII, quod rationem coepit ponere cum servis suis... Quarto modo dicitur ratio aliquid simplex abstractum a multis, sicut dicitur ratio hominis id quod per considerationem abstrahitur a singularibus, ad hominum naturam pertinens " (In De Div. nom. VII 5).
1. Secondo uno dei significati più frequenti, r. equivale a " motivo ", " giustificazione " psicologica, morale, o di semplice opportunità, di un'azione o di un comportamento: Dico che prima si conviene dire de la parte de l'anima... per questa ragione, che sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore sì dee riservare di dietro (Cv II VIII 2: cfr. l'accenno alla stessa regola di retorica in Pg XXX 71-72). In Cv I III 6 - IV 1, D. si accinge a spiegare le r., profondamente insite nella vita sociale, nella dinamica dei rapporti di amicizia e inimicizia fra gli uomini, per cui lo stato di miseria in cui egli è apparso a molti ha finito per nuocere alla fama sua e delle sue stesse opere, presenti e future, mentre in II 2 ss. sono discussi i motivi per cui non si concede per li retorici alcuno di sé medesimo sanza necessaria cagione parlare (§ 3) e le eccezioni a questo principio. Cfr. inoltre Cv III I 5, 6 (2 volte) e 10 E a questo deliberamento [cioè a parlare della Donna gentile, della Sapienza] tre ragioni m'informaro: de le quali l'una fu lo proprio amore di me medesimo... La seconda ragione fu lo desiderio de la durazione di questa amistade... La terza ragione fu uno argomento di provedenza; ché, sì come dice Boezio [Cons. phil. II I 10], " non basta di guardare pur quello che è dinanzi a li occhi ", cioè lo presente (in un contesto analogo, cfr. II VI 3 Poi li ho chiamati ad udire quello ch'io voglio, assegno due ragioni per che io convenevolmente deggio loro parlare, ecc. Cfr. I V 2-3 E da ciò [dall'essere cioè il trattato vulgare e non latino] brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi questo che l'altro... E queste cose per sue ragioni, a sodisfacimento di ciò che riprendere si potesse per la notata ragione, intendo per ordine ragionare in questa forma. Cfr. I X 5 e 7; Vn XXVIII 2 non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni; Cv II VI 3, 4 e 5, III X 5, XII 5, IV X 3, XIV 3, I II 15, IV 1 (2 volte) e 6, VII 5, VIII 1 e 6, XI 5, XII 1, XIII 11, II I 15, VI 5, III IX 16, X 5; IV VIII 10 e la ragione mostrare intendo, per cui cioè D. vuoi dimostrare che, nonostante le apparenze, non parla, sul problema della nobiltà, contra la reverenza del Filosofo o contra la reverenza de lo Imperio).
L'espressione singolare che troviamo in Detto 135 (per la ragione dannata) pare equivalga a espressioni come " per il dannato motivo ", o simili.
In quest'uso più vasto e generico del termine r., di fronte a formule espressive appartenenti al linguaggio più corrente, si deve tuttavia osservare che il termine è di frequente inserito da D. in contesti particolarmente significativi, ove spesso è questione di problemi fondamentali nello svolgimento del suo pensiero: cfr. Vn XXVIII 3 (pare che sia non sanza ragione... e poi n'assegnerò alcuna ragione); XXIX 2, 3 e 4 (ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione), ove sempre si tratta del simbolismo del numero nove e del numero tre, così intimamente legati alla persona di Beatrice. Analoghe osservazioni possono valere per Cv I VI 2 e 7; VII 3 (l'impossibilità di subordinare un commento latino alle canzoni in volgare); III VIII 14; IV XXV 4 (le passioni necessarie all'adolescenza); XXIII 14 (la natura privilegiata dell'ora sesta del giorno); VII 2 (sanza inquisizione d'alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d'alcuno valente uomo, tutto che esso sia da niente: al contrario, sul tema della nobiltà, la canzone dantesca rende incontanente ragione, dicendo che quelli che hanno questa grazia... sono quasi come dei... e ciò dare non può se non Iddio solo, XX 3).
In Cv I X 3 il termine è usato per tradurre l'‛ utilitas ' di un testo giuridico (ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire ne faccia da quello che lungamente è usato, ove il testo originario ' è, con ogni probabilità, il passo del Digesto ricordato dal MazzucheIli, I IV 2 [De Constitutionibus principum]: " In rebus novis constituendis evidens esse utilitas debet ut recedatur ab eo iure quod diu aequum visum est ". Cfr. nel Convivio, nello stesso senso, i §§ 1-2).
Il significato di " motivo ", o piuttosto di " interesse ", soggettivo e arbitrario, è evidente in Cv IV XXVII 15, nella traduzione di un testo ciceroniano (0ff. I XIV 43), mentre in alcuni casi il termine r. è usato per indicare l'opinione avversaria, da dimostrare falsa (Cv IV XV 1 e 3), o alla quale segue subito dopo l'enunciazione della r. vera (XII 11): sul problema infatti di un'affinità possibile fra ricchezza e scienza, il cui desiderio aumenta ugualmente a ogni nuovo acquisto e che dovrebbe per questo considerarsi imperfetta e vile, la spiegazione fornita da D. non rinvia certo a motivazioni soggettive, ma rappresenta piuttosto l'enunciato di una verità metafisica, con valore universale e oggettivo (E la ragione è questa: che lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio, IV XII 14). Ancor più chiaramente in I I 1 Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da provvidenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione: cfr. Metaph. I 1, 980a; cfr. la stessa r. in Cv III XV 3. Analogamente, rinvia a un principio universale, fisico-metafisico, l'affermazione che la nobiltà è indipendente dalle ricchezze, in Cv IV X 11 e per la ragione... che [ciò che] altera o corrompe alcuna cosa convegna essere congiunto con quella. Cfr. anche, in questo senso, Cv III I 5, 6 (due volte), 7 e 10. In realtà lo schema che è a fondamento dell'umano desiderio è una piramide rovesciata, ispirata alla piramide visuale degli ottici, alla cui base si trova l'ultimo desiderabile, cioè Dio (Cv IV XII 17 Sì che, quanto da la punta ver la base più si procede, maggiori appariscono li desiderabili; e questa è la ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l'uno appresso de l'altro): il significato del termine deve ricondursi qui alla nozione di causa, come avviene anche in III X 4, ove s'invocano r. naturali e sovranaturali.
Valore universale hanno evidentemente, per D., le esigenze su cui è fondata l'esistenza dell'Impero, le r. già formulate da Aristotele (Polit. I 3, 1254a 28) secondo le quali, quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di quelle conviene essere regolante... e tutte l'altre rette e regolate (IV IV 5; vedi anche i §§ 13 e 14).
Per un uso del termine in contesti ugualmente significativi, in cui si pongono problemi di valutazione morale o concernenti le strutture sociali, cfr. Cv I II 4, 8, 13, 14, 16 e 17, III 10, IV 6, III XV 10, IV IX 10, XIII 10; XIV 15 (2 volte), XII 13, XXVIII 18; Pg XXII 30, XVIII 65, If XV 65, XXXII 136, Pd IV 20, VIII 117.
In Fiore CCXVII 7, la forma per ragione che è usata in senso equivalente a " in maniera che ".
2. Come abbiamo osservato per alcuni dei testi presi in esame, l'uso del termine r. esprime spesso un vero e proprio rapporto causale (ove la causalità è, ovviamente, intesa negli schemi aristotelici), anche quando si tratta di problemi morali. Questo rapporto causale sembra espresso ancor più evidentemente in altri testi, ove r. sta appunto a indicare il nesso esistente fra i due termini del rapporto stesso, il " perché ", il " quia ", mentre il termine primo, cioè la causa, è designato come cagione (v.). Indicativo soprattutto Cv II VIII 4, ove il problema è quello del perché un amore, in quanto effetto dell'azione delle Intelligenze del terzo cielo, possa estinguersi e ne possa rinascere un altro, perché cioè la virtù delle Intelligenze corrompe l'uno e l'altro genera, mentre piuttosto innanzi dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama lo suo effetto e, amando quello, salva quell'altro (cfr., analogamente, III II 4, ove sono definiti i caratteri dell'amore, cui l'anima tende di propia sua natura: E la ragione di questa naturalitade può essere questa. Ciascuna forma sustanziale procede de la sua prima cagione, la quale è Iddio... e non ricevono diversitade per quella, che è semplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende. Cfr. anche III 2).
Un rapporto causale è ugualmente espresso in Cv II IV 9 e 14-15 (dove il termine compare tre volte), V 7, XIII 8, IV XXIV 3 (due volte); Pg IV 82 (unquanco / non vid'io chiaro sì com'io discerno / . . che 'l mezzo cerchio del moto superno, / che si chiama Equatore... / per la ragion che di', quinci si parte / verso settentrïon: ove la spiegazione è desunta, questa volta, dalla struttura dell'universo fisico).
3. Il termine r. è usato anche come sinonimo di " discorso ", " conversazione ", in accordo con l'uso del verbo ‛ ragionare ' (l'esempio più indicativo in questo senso è rappresentato da Pg XXII 131 Ma tosto ruppe le dolci ragioni / un alber che trovammo in mezza strada; cfr. anche XIV 126 sì m'ha nostra ragion la mente stretta); più frequente è il significato di " ragionamento ", " argomentazione ", come in Detto 372; in If XI 68 Maestro, assai chiara procede / la tua ragione, e assai ben distingue / questo baràtro; Pg XV 76 E se la mia ragion non ti disfama, / vedrai Beatrice; XVIII 12; Pd II 72 Virtù diverse esser convegnon frutti / di princìpi formali, e quei, for ch'uno, / seguiterieno a tua ragion distrutti; Cv I IV 12; II Voi che 'ntendendo 54; IV XV 15, ove si osserva che sono molti di sì lieve fantasia che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno conchiuso, senza muoversi in realtà dal punto di partenza.
In altri casi il significato è piuttosto quello di " spiegazione " (cfr. Pg XVIII 85 per ch'io, che la ragione aperta e piana / sopra le mie questioni avea ricolta; If XI 33 come udirai con aperta ragione; Cv II VIII 15, ove si afferma che la dottrina di Cristo ne fa certi sopra tutte altre ragioni dell'immortalità dell'anima; cfr. IV VIII 16 perché detto ho ch'i' sono non reverente... da vedere è come questo è negare e non disconfessare... E perché lunga conviene essere la ragione, per proprio capitolo immediatamente intendo ciò mostrare; XII 20 Onde avvegna che questa ragione del tutto non risponda a la questione mossa di sopra, almeno apre la via a la risposta. In questo senso può intendersi anche II XIV 7 e questo non pare avere ragione vera, ove si allude a una spiegazione scientifica, in cui il pensiero di Aristotele è stato forse travisato dai traduttori). Il significato più preciso di " argomento " a sostegno di una tesi o di " dimostrazione " (cfr. le ragioni dimostrative di Cv II XIV 6), risulta invece da altri testi, come Pd XXIV 49 così m'armava io d'ogne ragione; Cv IV Le dolci rime 65 onde lor ragion par che sé offenda / in tanto quanto assegna / che tempo a gentilezza si convegna; III V 7, ove le r. sono quelle fornite da Aristotele per sostenere la teoria dell'immobilità della terra. La r. avversaria è confutata in IV XIV 2 E in prima si ripruova ciò per una ragione di costoro medesimi che così errano; poi, a maggiore loro confusione, questa loro ragione anche si distrugge: cfr. anche i §§ 6 e 15; III 9 Queste due oppinioni... due gravissime ragioni pare che abbiano in aiuto: cfr. il seguito e § 10; XXIII 10. Cfr. Vn XII 14 37 che le saprà contar mia ragion bona: / " Per grazia de la mia nota soave... ").
In quest'ambito di significati può includersi un uso particolare del termine, che trova corrispondenza nei modi della lirica provenzale, secondo il quale r. (in provenzale razo) indica il contenuto di un poema, commentato nella prosa esplicativa che lo accompagna. Cfr. in questo senso Rime XL 1 Savete giudicar vostra ragione, / o om che pregio di saver portate; Vn XXV 8 non sanza ragione alcuna, ma con ragione la quale poi sia possibile d'aprire per prosa (cfr. § 10); XXXV 4, XXXVI 3, XXXVII 5, XXXIX 6 e 7, XL 8; Cv I I 18, II XI 8 Ora appresso ammonisco lei [cioè la canzone] e dico: Se per avventura incontra che tu vadi là dove persone siano che dubitare ti paiano ne la tua ragione, non ti smarrire; IV I 11 mia donna intendo sempre quella che ne la precedente ragione è ragionata (ove si allude ai trattati precedenti dell'opera, esplicativi del testo poetico); XXII 9 (ove la precedente ragione è propriamente il capitolo precedente).
4. In senso più propriamente filosofico, il termine volgare r. è soggetto alla stessa ambiguità cui è soggetto il latino ratio, che traduce indifferentemente i termini greci λόγος, διάνοια e talvolta νόησις, designando perciò sia il fondamento intellegibile, oggettivo, delle cose, sia la facoltà umana capace di cogliere questo stesso fondamento intellegibile. Cfr. s. Tommaso I Sent. XXXIII I 1 ad 3 " Sciendum est autem quod ratio sumitur dupliciter: quandoque enim ratio dicitur id quod est in ratiocinante, scilicet ipse actus rationis, vel potentia quae est ratio; quandoque autem ratio est nomen intentionis, sive secundum quod significat definitionem rei, prout ratio est definitio, sive prout ratio dicitur argumentatio ". Entrambi questi significati sono largamente rappresentati nell'opera dantesca.
4.1. Per quanto riguarda, prima di tutto, il significato di r. come fondamento intellegibile delle cose, è da ricordare che la tradizione patristica, fondamentalmente platonizzante, tende a identificare con le rationes, eternamente presenti nel Verbo divino, la verità ontologica, l'essenza stessa delle cose (di qui la dottrina agostiniana delle rationes seminales, la teoria delle causae primordiales nell'opera dell'Eriugena). La creazione, in questo senso, è in primo luogo atto di conoscenza da parte della Sapienza divina, che con il Verbo s'identifica (cfr. If III 5-6 fecemi la divina podestate, / la somma sapïenza e 'l primo amore), dal momento che la conoscenza divina è conoscenza dell'essere delle cose nella sua verità, e quindi è fondamento delle cose stesse.
Il bellissimo testo salomonico di Prov. 8, 22-32 evoca per D. un'immagine della creazione, in cui l'elemento aristotelico s'inserisce chiaramente in un contesto più tradizionale (Cv III XV 16 in massima laude di sapienza, dico lei essere di tutto madre... dicendo che con lei Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso... Ciò è a dire che nel divino pensiero, ch'è esso intelletto, essa era quando lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse. E però disse Salomone... " Quando Iddio apparecchiava li cieli, io era presente; quando con certa legge e con certo giro vallava li abissi... quando circuiva lo suo termine al mare... quando elli appendeva li fondamenti de la terra, con lui e io era, disponente tutte le cose, e dilettavami per ciascuno die "). Questo contesto dev'essere tenuto presente per comprendere il valore del termine r. in una frase come quella che D. pone a conclusione del Convivio: Oh quanto e come bello adornamento è questo che ne l'ultimo di questa canzone si dà ad essa [cioè la nobiltà], chiamandola amica di quella [la sapienza] la cui propria ragione è nel secretissimo de la divina mente (IV XXX 6). In uno stesso contesto deve intendersi l'affermazione che la Donna gentile, la Filosofia, in quanto creatura miracolosa, rende credibile ogni miracolo, affermazione così formulata da D. (III XIV 14): così per lei si crede [ch'] ogni miracolo in più alto intelletto puote avere ragione, e per conseguente può essere. Un valore pregnante, nel senso ora indicato, deve ugualmente attribuirsi in Rime LXVIII 34 poi che 'l corpo sarà consumato, / se n'anderà l'amor che m'ha sì stretto / con lei a quel ch'ogni ragione intende.
In un senso più strettamente logico, ratio equivale, aristotelicamente, a " definizione " ed è ‛ significata ' dal nome delle cose (giacché il nome è " vox significativa ", e la ‛ vox ' diventa " signum " quando, ‛ conosciuto ' un ente, è assunta a significarlo): Ma però che... conoscere la cosa sia sapere quello che ella è, in sé considerata e per tutte le sue c[au]se, sì come dice lo Filosofo nel principio de la Fisica [Phys. I 1, 184a]; e ciò non dimostri lo nome, avvegna che ciò significhi, sì come dice nel quarto de la Metafisica (dove si dice che la diffinizione è quella ragione che 'l nome significa), conviensi qui... dire che è questo che si chiama Filosofia, cioè quello che questo nome significa (Cv III XI 1. Cfr. Metaph. IV 7, 1012a 22-24 " Definitio... fit ex significare aliquid necessario res esse. Ratio namque cuius nomen est signum, definitio est rei ". Cfr., di s. Tommaso, il commento a questo stesso testo, e, soprattutto, In Poster. Anal. I lect. IV " Oportet ergo scientem, si est perfecte cognoscens, quod cognoscat causam rei scitae... Est autem haec recta manifestatio definitionis. Definitio enim est ratio, quam significat nomen... Si quis etiam recte consideret, per hanc notificationem magis ostenditur quid significat nomen quam directe aliquid significetur "; cfr. anche la distinzione fra la " definitio quid nominis ", " expositiva nominis vel manifestativa ipsius rei nominatae per aliqua accidentia ", e la " definitio quid rei ", " significans quid est, quia essentia cuiuslibet rei est una ", Alb. Magno Metaph. IV II 3). Nello stesso ambito si colloca Cv III XI 15 E così si può vedere chi è omai questa mia donna, per tutte le sue cagioni e per la sua ragione, e perché Filosofia si chiama; IV XII 12 Che sia perfetta, è manifesto per lo Filosofo nel sesto de l'Etica, che dice la scienza essere perfetta ragione di certe cose (cfr. Arist. Eth. Nic. VI 3, 1139b 18 ss.; cfr. la definizione tomista della scienza come " ratio recta speculabilium ": In Eth. VI lect. II n. 1125); Le dolci rime 89 Dico che nobiltate in sua ragione / importa sempre ben del suo subietto, / come viltate importa sempre male, ripreso in XVIII 1.
In quest'ambito di significati, le espressioni ‛ aver r. di principio ' o ‛ aver r. di fine ' stanno a indicare il porsi di un oggetto, nell'ambito della conoscenza, come elemento che non ha un ‛ prius ' dal quale possa essere dedotto, o che è ultimo e ‛ conclusivo ', perché ricavato da elementi noti, i quali ‛ terminano ' in esso (cfr. Cv IV X 6 la diffinizione de la nobilitade più degnamente si farebbe da li effetti che da' principii, con ciò sia cosa che essa paia avere ragione di principio, che non si può notificare per cose prime, ma per posteriori, e II XIII 26, dove al punto, ‛ principio ' della Geometria, è posto in correlazione il cerchio, in quanto perfettissima figura in quella, che conviene però avere ragione di fine). In Cv II XIII 17 l'affermazione che il corpo mobile ha in sé ragione di continuitade, e questa ha in sé ragione di numero infinito significa piuttosto che la natura corporea ha come fondamento (come causa materiale, si potrebbe dire) una quantità continua, una grandezza determinata, la quale, se considerata come quantità discreta, divisibile, è all'origine di un numero infinito. La presenza della nozione di causa finale nella nozione di ratio è chiaramente sottolineata in Mn I II 7 Rursus, cum in operabilibus principium et causa omnium sit ultimus finis - movet enim primo agentem - consequens est ut omnis ratio eorum quae sunt ad finem ab ipso fine summatur. Nam alia erit ratio incidendi lignum propter domum constituendam, et alia propter navim.
5. Il gruppo di significati più rilevante nel linguaggio filosofico, l'uso del termine r. nel senso di " facoltà raziocinante ", " virtus cognoscitiva " dell'essere umano, è anche quello, evidentemente, più complesso e difficile.
È da tener presente, infatti, che la nozione di r. è resa problematica dall'interferire di elementi culturali diversi, come l'agostinismo e, nella sua versione più recente, l'agostinismo cosiddetto avicennizzante, l'aristotelismo in tutte le sue interpretazioni, l'averroismo e il neoplatonismo dionisiano, con le diverse dottrine relative all'anima umana. Per attenerci a una schematizzazione che non sia arbitraria e alla quale si possa attribuire bensì un valore storico effettivo, ricorreremo prima di tutto a un diligente catalogo dei diversi modi in cui il linguaggio filosofico corrente esprime le sue nozioni di r., redatto da Ferrario di Catalogna (o Catalano), Magister domenicano della facoltà di Parigi, nel corso di una quaestio quodlibetalis, disputata nel 1275 (un anno derala morte di Tommaso d'Aquino), e alla quale la sua fama è intopo mente affidata (per il testo, abbiamo tenuto presente la parte pubblicata da G.E. Demers, in appendice allo studio Les divers sens du mot " ratio " au Moyen âge, in Etudes d'hist. littér. et doctrin. du XIIIe siècle, serie I, 1, Parigi-Ottawa 1932, 105 ss.).
Ogni definizione, cui sarà dato un numero per esigenza di chiarezza, implicherebbe evidentemente un'esposizione delle dottrine cui si riferisce, esposizione impossibile a esaurirsi in questa sede, che sarà fornita unicamente per le definizioni in rapporto con il linguaggio dantesco: Ecco dunque, a partire dal più ampio e generico, i significati in cui, secondo l'autore, che nella sua opera si dimostra fra l'altro fedele tomista, " ratio multipliciter accipitur ": 1) " Aliquando nominat naturam quae qualitercumque participat intellectum, et sic accipitur multum large ". 2) " Aliquando dicit obumbrationem quandam naturae intellectualis secundum quod dicit Isaac quod ‛ ratio oritur in umbra intelligentiae ', et convenit tantum hominibus " (questo punto, su cui sarà necessario soffermarsi, è particolarmente importante per la distinzione fra ‛ intellectus ' e ‛ ratio '). 3) " Aliquando sumitur ratio pro altera parte naturae rationalis, scilicet pro anima rationali ". 4) " Aliquando nominat illam partem animae quae potest esse subiectum virtutis et vitii, quae a Philosopho, primo Ethicorum [cfr. I 20, 1002b] dividitur in rationale per essentiam et per participationem ". 5) " Aliquando nominat totam illam partem animae quae in sui operatione non utitur organo corporali, et sic dividitur contra sensitivum et vegetativum; et sic continet omnes potentias intellectivas tam, apprehensivas quam motivas, et sìc voluntas continetur sub ratione " (è questa, fondamentalmente, la nozione dantesca di r.). 6) " Aliquando dicit partem animae intellectivae apprehensivam, et dividitur contra voluntatem ". 7) " Aliquando sumitur pro potentia opinativa, et sic dividitur contra scientificum in VI Ethicorum [VI 1, 1139a 11-17], quia scientificum est circa necessaria, ratiocinativum est circa contingentia " (D. usa le stesse distinzioni). 8) " Aliquando dicitur vel dicit potentiam inquisitivam veritatis per rationes universales, et sic dividitur contra intellectum, quia intellectus apprehendit subito et sine inquisitione, ratio inquirendo... Et ratio sic sumpta est eadem potentia cum intellectu, differens penes officia, sicut ratio superior et inferior " (riassunta fedelmente, è questa la distinzione fra ‛ intellectus ' e ‛ ratio ', elaborata soprattutto da Tommaso d'Aquino, partendo da concezioni dionisiane). 9) " Aliquando sumitur improprie pro potentia cogitativa, quae est potentia sensitiva, et habet organum determinatum, scilicet mediam cellulam cerebri, ut dicit Commentator in tertio De anima " (Quaestio VI, pp. 136-138).
Alla fine di questo elenco, di cui sono state omesse le citazioni che esemplificano ognuno dei diversi usi, l'autore conclude con una nuova distinzione, d'impronta tomista, fra la " ratio " intesa nella sua funzione di ‛ essenza ', come ciò che dà l'essere, e la " ratio " intesa come attività, come " potentia " dell'anima (" Patet igitur ex praedictis quod aliquando sumitur ratio pro essentia, aliquando pro potentia. Et sic anima potest dici rationalis vel a ratione prout nominat potentiam vel a ratione prout nominat essentiam; sed quia essentia nobilior est potentia, et denominatio fieri debet a nobiliori ideo magis proprie dicitur rationalis ab essentia quam a potentia "). Ancor più chiara è la distinzione analoga, in Tommaso d'Aquino, fra " ratio ut natura " e " ratio ut ratio ": " Ratio ut natura dicitur ratio secundum quid est naturae creaturae rationalis, prout scilicet fundata in essentia animae dat esse naturale corpori... Ratio ut ratio dicitur secundum id quod est proprium rationis in quantum est ratio, et hoc est actus eius, quia potentiae definiuntur per actus " (De Verit. 26 9 ad 7).
Tenendo presente questa metodologia dell'epoca, si potrà facilmente constatare che la nozione dantesca di r. è prima di tutto una definizione " ab essentia ", in quanto la facoltà raziocinante distingue l'uomo da ogni altro essere vivente e costituisce l'essenza stessa dell'umanità (cfr. Cv III XI 14 secondo l'umanitade... cioè secondo ragione), il modo di essere specificamente umano: Questo piacere in altra cosa di qua giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in questo riso [cioè della Sapienza, della Filosofia]... E in questo sguardo solamente l'umana perfezione s'acquista, cioè la perfezione de la ragione, de la quale, sì come di principalissima parte, tutta la nostra essenza depende (XV 4; cfr. Arist. Eth. Nic. X 7, 1177a). Più specificamente, la stessa nozione di r., corrispondente a quella che abbiamo indicato con il n. 5 nell'elenco di Ferrario, si fonda sulla ben nota dottrina aristotelica, espressa nel De Anima (II 1 ss., 412a ss.), secondo la quale causa del vivere è l'anima, intesa come sostanza formale, entelechia di un corpo naturale, dotato di vita in potenza (II 1, 412a), ove pur essendo la sostanza formale comune alle piante, agli animali e all'uomo, a una maggiore complessità del corpo vivente corrispondono tuttavia funzioni sempre più complesse, gerarchicamente ordinate, dal semplice vegetare fino all'insieme delle funzioni umane, nutritive, sensitive, motrici e pensanti: Sì come dice Aristotile nel secondo de l'Anima, " vivere è l'essere de li viventi " [Anima II 4, 415b, versio antiqua lect. VII " Vivere autem viventibus est esse. Causa autem et principium horum anima "]; e per ciò che vivere è per molti modi (sì come ne le piante vegetare, ne li animali vegetare e sentire e muovere, ne li uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero intelligere), e le cose si deono denominare da la più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali è sentire - animali, dico, bruti -, vivere ne l'uomo è ragione usare. Dunque... da quello uso partire è partire da essere... E non si parte da l'uso del ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita? (Cv IV VII 11. Cfr. il § 4, ov'è detto che reducere a ragione [colui in cui è la luce di ragione] del tutto spenta è come reducere in vita chi è morto da quattro giorni. Nello stesso senso, cfr. II VII 3 [2 volte]. Cfr., ugualmente importante, III II 14 ma per dire che sia la mente... Dico adunque che lo Filosofo nel secondo de l'Anima [cfr. II 3, 412b, 20 ss.], partendo le potenze di quella, dice che l'anima principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare: e dice anche muovere; ma questa si può col sentire fare una.... E quella anima che tutte queste potenze comprende, [e] è perfettissima di tutte l'altre, è l'anima umana, la quale con la nobilitade de la potenzia ultima, cioè ragione, participa de la divina natura). Ognuna delle facoltà dell'anima, secondo Aristotele, comprende e riassume in sé la facoltà che la precede, portandola a una perfezione ulteriore, così che la facoltà sensitiva contiene la facoltà nutritiva, alla maniera in cui il quadrilatero contiene il triangolo (Anima II 3, 414b; Cv IV VII 15 Ché, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, le potenze de l'anima stanno sopra sé come la figura de lo quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo... sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentangulo rimane quadrangulo e non più pentangulo, così levando l'ultima potenza de l'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto. L'immagine del pentangulo, di cui non si parla in Aristotele, rappresenta uno sviluppo del concetto aristotelico, nell'interpretazione scolastica: cfr. Giovanni de la Rochelle De An. I 24; Bonaventura II Sent. XXXI I 1; Tommaso d'Aquino De An. II lect. V, n. 295; Quaestiones Disputatae, De Anima, a. 2, ad 8. Sul rapporto fra le tre potenze dell'anima, cfr. ancora Cv III II 13 è manifestissimo che queste potenze sono intra sé per modo che l'una è fondamento de l'altra; e quella che è fondamento puote per sé essere partita, ma l'altra, che si fonda sopra essa, non può da quella essere partita. Onde la potenza vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra 'l quale si sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e questa vegetativa potenza per sé puote essere anima, sì come vedemo ne le piante tutte. La sensitiva sanza quella essere non puote, e non si truova in alcuna cosa che non viva; e questa sensitiva potenza è fondamento de la intellettiva, cioè de la ragione: e però ne le cose animate mortali la ragionativa potenza sanza la sensitiva non si truova, ma la sensitiva si truova sanza questa, sì come ne le bestie, ne li uccelli, ne' pesci e in ogni animale bruto vedemo).
Il problema originario di Aristotele è evidentemente quello d'individuare, da un punto di vista che potremmo dire fisico-biologico, il principio formale in base a cui un corpo può dirsi vivente, e di definire al tempo stesso quale sia l'attuazione piena delle possibilità proprie delle varie specie di nature viventi: il fatto che l'essere specificamente umano si realizzi compiutamente nell'atto dell'intendere, nella funzione conoscitiva, ripropone ancora una volta il problema della natura dell'intelletto, e in particolare dei rapporti fra un intelletto che di per sé è capacità, possibilità di accogliere tutte le forme intellegibili, e l'atto dell'intendere sempre realizzato, identificazione piena d'intelletto e intellegibile, grazie alla quale unicamente si rende possibile quel passaggio dalla potenza all'atto che è la conoscenza di ogni singola forma intellegibile. È ben noto che la dottrina dell'intelletto possibile e dell'intelletto agente costituiscono uno dei punti più controversi e tormentati di tutta l'interpretazione aristotelica, da Alessandro di Afrodisia in poi. Ugualmente note sono, nella scolastica latina, da Guglielmo d'Alvernia ad Alberto Magno, a Tommaso d'Aquino, le diverse reazioni e le dispute provocate dalle interpretazioni dei filosofi arabi, Averroè soprattutto (si rinvia su questo punto a intelletto; intelletto possibile).
Più che nel Convivio, la consapevolezza di queste implicazioni complesse si dimostra nella Monarchia, ove D., partendo dalla stessa gerarchia aristotelica dei corpi naturali, identifica l'essenza dell'uomo non con una generica ratio, bensì con l'intelletto possibile, la cui potenza o virtus intellectiva non può essere realizzata dall'individuo singolo, o da un gruppo limitato d'individui, ma si realizza integralmente soltanto nell'umanità intera, secondo una concezione che esplicitamente si riferisce ad Averroè (Mn I III 6 ss.). Il vocabolario del Convivio evoca senza dubbio una più generica nozione di r., equivalente alla nozione di mente (III II 10, citato) e di intelletto (cfr. Cv IV VII 11, citato: ragionare, o vero intelligere; §§ 12-13, ove è di nuovo questione della teoria aristotelica delle tre potenze dell'anima e del loro rapporto di dipendenza l'una dall'altra: e questa sensitiva potenza è fondamento de la intellettiva, cioè de la ragione. In III XIII 5 la formula ‛ intelletto e r. ' sembra indicare una sinonimia: però che l'umana natura - fuori de la speculazione de la quale s'appaga lo 'ntelletto e la ragione - abbisogna di molte cose a suo sustentamento): tutto questo nel contesto aristotelico che abbiamo esaminato, con esplicito rinvio, puntualmente, all'autorità del Filosofo.
I temi trattati sotto le voci INTELLETTO e INTELLETTO POSSIBILE sono quindi ugualmente validi per quest'ultima accezione del termine r.: questo dicasi in particolare per il problema di un autonomo conseguimento della felicità sul piano puramente umano, a opera della r., delle diverse soluzioni offerte dalle diverse opere di D., e così pure per il problema affine dei rapporti fra r. e fede. Cfr. Cv II III 2, ove non è propriamente questione di un rapporto fra r. e fede, ma piuttosto dei limiti della r. umana, in quanto costretta a servirsi del senso, mentre trova piuttosto la sua felicità nella contemplazione delle nature intellegibili ed eterne, anche se incerta è la loro visione, come appunto nel caso delle Intelligenze motrici del terzo cielo, cui D. si riferisce, in un contesto, ancora una volta, chiaramente aristotelico: E avvegna che quelle cose, per rispetto de la veritade, assai poco sapere si possano, quel cotanto che l'umana ragione ne vede ha più dilettazione che 'l molto e 'l certo de le cose de le quali si giudica [secondo lo senso], secondo la sentenza del Filosofo in quello de li Animali: cfr. Part. an. I 5, 644b. Sul tema affine dell'eternità dei cieli, cfr. la stessa posizione in Pg XXIX 49 ss.
Un punto di vista esclusivamente cristiano, nel senso più tradizionale, è invece quello espresso in Cv III VII 16, sul problema dei miracoli, ove si afferma come principalissimo fondamento de la fede nostra siano miracoli fatti per colui che fu crucifisso - lo quale creò la nostra ragione, e volle che fosse minore del suo potere -, e fatti poi nel nome suo per li santi suoi; anche se molti sono in realtà sì ostinati che di quelli miracoli per alcuna nebbia siano dubbiosi, e non possano credere miraculo alcuno sanza visibilmente avere di ciò esperienza. Sullo stesso problema, sul fatto cioè che la r. stessa, la filosofia, indica all'uomo l'esistenza di qualcosa che ha l'apparenza del miracolo, in quanto trova il suo fondamento in un intelletto superiore, in una superiore razionalità, di fronte alla quale l'intelletto finito può assumere unicamente una disposizione di fede, cfr. III XIV 14 (2 volte). Circa la divina provedenza, che è sopra ogni ragione, cfr. IV IV 11, e V 1. V. anche, su questi temi, II IV 8 (tre volte); VIII 15, ove si afferma, in contrasto con il tomismo, che l'immortalità dell'anima è perfettamente visibile solo allo sguardo della fede; Mn II VII 1 ss. scire oportet quod divinum iudicium in rebus quandoque hominibus est manifestum quandoque occultum. Et manifestum potest esse dupliciter: ratione scilicet et fide. Nam quaedam iudicia Dei sunt ad quae humana ratio propriis pedibus pertingere potest, sicut ad hoc: quod homo pro salute patriae seipsum exponat... Quaedam etiam iudicia Dei sunt, ad quae etsi humana ratio ex propriis pertingere nequit, elevatur tamen ad illa cum adiutorio fidei eorum quae in Sacris Licteris nobis dicta sunt (cfr., nello stesso senso, Pd XXIX 40-43). Non discorda sostanzialmente da questo testo, nonostante il tono di condanna per l'umana presunzione, Pg III 34 Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone. / State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria. Il tono di condanna diviene sarcasmo in Pd XIX 70 ss., ove il problema è quello della perdizione dei giusti che non conoscono Cristo: Or chi tu se', che vuo' sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d'una spanna? (vv. 79-81).
Un tema obbligato, e del resto ben noto, trattando dei rapporti fra r. e fede, è quello delle rispettive funzioni delle due guide, Virgilio e Beatrice, nel viaggio dantesco: cfr. Pg XV 76, e XVIII 46 Quanto ragion qui vede, / dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta / pur a Beatrice, ch'è opra di fede. Cfr. l'invocazione di Virgilio al sole, considerato come simbolo della r. naturale, di cui si chiede la guida, quando altre r., di ordine superiore, non facciano valere esigenze contrarie, in Pg XIII 20 Tu scaldi il mondo, tu sovr'esso luci; / s'altra ragione in contrario non ponta, / esser dien sempre li tuoi raggi duci. Su questo tema controverso, impossibile a esaurire in questa sede, si possono sottoscrivere le pagine equilibrate del Gilson, il quale rileva, prima di tutto, come i limiti che D. attribuisce alla r. siano quelli stessi riconosciuti da Aristotele di fronte alle supreme verità della metafisica (cfr. Cv II XIII 10, ove si afferma che li raggi della r. non arrivano a investire ciò che è infinito, anche quando non si tratta dell'infinità divina), con in più una consapevolezza, tutta cristiana, dell'esistenza di verità rivelate accessibili soltanto alla fede. In secondo luogo, sottolineando la differenza fondamentale con la posizione tomista, il Gilson riconosce che in D. la separazione dei diversi ordini, come appunto il dominio della filosofia e della fede (o la distinzione delle tre beatitudini, della vita attiva, della vita contemplativa e della visione beatifica), non implica una subordinazione gerarchica dell'uno all'altro, anche quando sussista una gerarchia di dignità, mentre per Tommaso d'Aquino ogni gerarchia di dignità rappresenta al tempo stesso una gerarchia di giurisdizione (l'influenza del pensiero dionisiano è ancora da definire criticamente, in tutta la sua portata): allargando il discorso, si potrebbe dire che D. afferma, su questo piano, quel concetto di autonomia (la famosa formula " rex in regno suo est imperator ") che le dottrine politiche e le costituzioni giuridiche più avanzate andavano elaborando, che D. non riconosce peraltro sul piano strettamente politico, in quanto il miraggio di una metafisica platonizzante, l'idea di una " reductio ad unum " politicamente realizzata, gli prospetta la visione di un'umanità pacificata e unificata sotto il potere supremo. In questa prospettiva Aristotele, lo maestro de l'umana ragione, com'è definito in Cv IV II 16 e, analogamente, in VI 8, resta, anche nelle altitudini del Paradiso, l'autorità cui si ricorre in materia appartenente alla sfera della r. e della filosofia, come Tolomeo in materia di astronomia, mentre ai teologi, e alla rivelazione, si deve ricorrere, anche sulla terra, di fronte alle verità che appartengono alla fede. Così Virgilio cede il passo a Beatrice, la quale, a sua volta, cede il passo a s. Bernardo.
Questi concetti sembra possano ugualmente essere utili per comprendere la differenza fra la nozione dantesca di r., come si è venuta configurando attraverso l'esame dei testi, e la dottrina, elaborata con tanta chiarezza da Tommaso d'Aquino, della distinzione fra r. e intelletto (cui Ferrario accenna al n. 8 della sua elencazione).
Partendo appunto da testi dionisiani (cfr. De coel. Hier. IV 1) Tommaso delinea una gerarchia dell'essere, che differisce dallo schema aristotelico, in quanto distingue l'essere razionale, cioè l'uomo, dall'essere puramente intellettuale, cioè l'angelo: " Secundum enim Dionysium distinguuntur quatuor gradus entium, scilicet intellectualia [τὰ νοερά], rationalia [τὰ λογικά], sensibilia [il termine dionisiano è " viventi ": τὰ ζῶντα] et simpliciter existentia [i " non viventi ": τὰ ἄζωα]. Homo autem non continetur sub intellectualibus, sed sub rationalibus " (I Sent. III IV 1 ad 4). In questa prospettiva, l'intelletto, come risulta da una lunga serie di testi tomisti, costituisce una facoltà di conoscenza del tutto sottratta ai condizionamenti materiali, e quindi anche all'ordine spazio-temporale, capace di cogliere direttamente l'essenza del suo oggetto, senza ignorarne tuttavia gli accidenti e i principi individuanti. L'intelletto, quindi, non ha bisogno, come la r., di un processo discorsivo (II Sent. IX I 8 ad 1 " In cognitionem veritatis ratio inquirendo pervenit, quam intellectus simplici intuitu videt "), cogliendo la verità con assoluta immediatezza, cioè statim, subito, sine continuo et tempore, indipendentemente da ogni frazionamento e da ogni rapporto di successione, secondo l'ordine immutabile delle verità eterne (III Sent. XXXV II 2 sol. 1c " Si in aliqua sunt quae statim, sine discursu rationis, apprehenduntur, horum non dicitur esse ratio, sed intellectus "; II Sent. III I 6 ad 2 " illa substantia intellectualis dicitur cuius tota cognitio secundum intellectum est, quia omnia quae cognoscit subito et sine inquisitione sibi offeruntur "; III Sent. XIV I 3, sol. 2 " Hoc autem genere cognitionis - scilicet humano - angeli non cognoscunt, sed alio altiori modo secundum ordinem, scilicet sine continuo et tempore "). Su questo punto il vocabolario tomista (i testi che si potrebbero citare sarebbero ben più numerosi) si modella abitualmente sul vocabolario dionisiano (cfr. ad es. De Div. nom. VII e De Verit. XV 1).
La nozione di ratio è coerente con una concezione gerarchica, che distingue un " perfectus modus intelligendi ", secondo il quale " intelliguntur ea quae sunt secundum naturam suam intelligibilia ", da un " imperfectus modus intelligendi ", " in quantum intelligibilia sumuntur a sensibilibus " (Cont. Gent. II 91 8), e attribuisce quest'ultimo ‛ modus ' all'anima umana, situata all'ultimo rango fra le sostanze spirituali, come ἐνέργεια di un corpo fisico vivente, al limite fra l'eternità e il tempo, " ultimus terminus aeternitatis et principium temporis " (In Lib. de Causis II). La r. risulta quindi " defectibilis propter permixtionem phantasiae et sensus " (Cont. Gent. III 91 4), in quanto conoscenza di un intellegibile enucleato dalla materia (la quale oppone costantemente i suoi limiti) e percepito attraverso facoltà di natura sensibile, come appunto il senso e la fantasia (la contrapposizione della r. al senso è senza dubbio un luogo comune, come ad es. in Pd II 57 poi dietro ai sensi / vedi che la ragione ha corte l'ali. In Tommaso si sottolineano soprattutto i limiti della r. in quanto costretta a servirsi del senso, mentre D. tende a contrapporre il senso alla r., il ‛ vivere secondo senso ' al ‛ vivere secondo r. ', quando l'uno escluda o finisca per sopraffare l'altra. Cfr. Cv III XIII 4, e I IV 3 La maggior parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori; e la loro bontade, la quale a debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi de la ragione, li quali passano a veder quello. Cfr. anche i §§ 4, 5 e 6. Da qui il disprezzo per l'oppinione de la gente volgare, che è d'ogni ragione ignuda; IV III 5. Al contrario, la vera oppinione è come le spighe de la ragione, che rischiano continuamente di essere soffocate dalle male erbe dei falsi giudizi: VII 3-4, 3 volte. In Fiore CLXVIII 6 si dubita, com'è buona tradizione, che la r. possa attribuirsi alla donna). Nel pensiero tomista, le caratteristiche della ratio sono quindi, per certi versi, opposte a quelle dell'intelletto: quanto la conoscenza ‛ intellettuale ' è immediata, unificante, sottratta all'ordine della successione spazio-temporale, altrettanto la conoscenza ‛ razionale ' è frammentaria, bisognosa di un procedimento discorsivo, di una cogitatio che nel sillogismo trova il suo strumento più perfetto. L'ordine aristotelico delle potenze dell'anima è considerato valido per quanto riguarda l'uomo, in cui " ratio et intellectus... non possunt esse diversae potentiae ", bensì il ‛ ratiocinari ' sta all'‛intelligere ' come il movimento alla quiete (" Patet ergo quod ratiocinari comparatur ad intelligere sicut moveri ad quiescere ... quorum unum est perfecti, aliud autem imperfecti... Manifestum est autem quod quiescere et moveri non reducuntur ad diversas potentias, sed ad unam et eandem, etiam in naturalibus rebus ", Sum. theol. I 79 ad 8). Tuttavia, nella gerarchia degli esseri costruita secondo schemi neoplatonici (i precisi limiti ideologici dell'aristotelismo in Tommaso d'Aquino sono un problema ancora aperto), la distinzione di intellectus e ratio implica chiaramente la subordinazione della natura razionale, cioè dell'uomo, alla natura intellettuale, cioè all'angelo. Questo è il significato di una concezione già elaborata da Alberto Magno, che rivela chiaramente la sua origine neoplatonica (la fonte comune è il De Definitionibus di un ebreo spagnolo del X sec., Isacco Israeli, tradotto da Gerardo da Cremona), in base a cui la ratio è definita ombra dell'intelletto puro (al n. 2 nell'elenco di Ferrario), come si conviene a un'anima collocata all'ultimo rango delle nature spirituali: " Anima vero, quia extremum in intellectualibus tenet, participat naturam intellective magis defective [scil. quam angeli] quasi obumbrata, et ideo dicitur rationalis, ut dicit Isaac, in libro De definitionibus, ‛ ratio oritur in umbra intelligentiae ' " (II Sent. III I 6; cfr. In Boet. De Trinitate I 1 ad 4. Cfr. nello stesso senso, di Alberto Magno, II Sent. I 13; De Intell. et intellig. I 5, ove però non è indicata la distinzione fra natura angelica e natura umana: l'intelligenza alla cui ombra si produce l'anima razionale è l'intelligenza prima, cioè la divinità. Per il testo di Isacco Israeli cfr. De Definitionibus, ms. Vat. lat. 2186, fol. 156 v.).
È facile dimostrare che certe suggestioni neoplatoniche sono tutt'altro che assenti dall'opera di D. (v. PLATONISMO), anche se agiscono in questo caso in direzione diversa. Sia sufficiente il richiamo a Cv III VII 5, ov'è ripreso il tema tradizionale della bontà divina irradiata, come da fonte luminosa, diffusa e riflessa, sempre più debolmente, in tutte le cose (Così la bontà di Dio è ricevuta altrimenti da le sustanze separate, cioè da li Angeli, che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità de la loro forma, e altrimenti da l'anima umana, che, avvegna che da una parte sia da materia libera, da un'altra è impedita, sì come l'uomo ch'è tutto ne l'acqua fuor del capo... e altrimenti da li animali... e altrimenti da la terra... però che è materialissima, e però remotissima e improporzionalissima a la prima simplicissima e nobilissima vertude, che sola è intellettuale, cioè Dio: ove, infine, il termine ‛ intellettuale ' ha un significato prossimo a quello tomista, ma è riservato alla divinità).
In questo schema s'inserisce tuttavia, in D., il motivo specifico del valore dell'individuo, dalla cui ‛ complessione ' seminale le influenze astrali attuano l'anima vegetativa e sensitiva, mentre la parte eterna e divina dell'anima, l'intelletto o anima razionale, è creata direttamente da Dio, sanza mezzo (Pd VII 139-144: v. ANIMA; Platone). All'uomo D. attribuisce quindi la possibilità di ridursi a una condizione bestiale, ma di rendersi anche simile all'angelo per la sua nobiltà (da segnalare, a questo proposito, l'identificazione di nobilitade e r. in Cv IV XIII 16; cfr. anche III XIV 9 e IV XXII 16. In IV I 4 si ha invece un'equivalenza di r. e onestade, realizzate, nella misura più perfetta, dalla donna gentile: la definizione stoica dell'onesto, desunta da testi ciceroniani, come Tusc. IV XV 34 e Fin. III VIII, l'identifica del resto con ‛ quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sé di ragione è da laudare ', IV VI 10). Il giusto esercizio della r. e della volontà avvicina l'uomo alla condizione angelica (per i rapporti fra r. e volontà, cfr. IV IX 4 E a vedere li termini de le nostre operazioni, è da sapere che solo quelle sono nostre operazioni che subiacciono a la ragione e a la volontade; che se in noi è l'operazione digestiva, questa non è umana, ma naturale. Segue - §§ 5-7 - la distinzione delle operazioni che possono o non possono dirsi proprie della r.: v. RAZIONALE. Per una distinzione, appena accennata, fra natura e r., cfr. III II 8, mentre per i rapporti fra r. e fortuna, cfr. IV XI 7, 2 volte): E avvegna che posti siano qui gradi generali, nondimeno si possono porre gradi singolari; cioè che quella riceve, de l'anime umane, altrimenti una che un'altra. E però che ne l'ordine intellettuale de l'universo si sale e discende per gradi quasi continui ... sì come vedemo ne l'ordine sensibile; e tra l'angelica natura, che è cosa intellettuale [è il significato dionisiano e tomista], e l'anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l'uno a l'altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l'anima umana e l'anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia; e noi veggiamo molti uomini tanto vili e di sì bassa condizione, che quasi non pare essere altro che bestia; e così è da porre e da credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che quasi non sia altro che angelo... E questi cotali chiama Aristotile, nel settimo de l'Etica, divini (III VII 6-7. È da sottolineare che le strutture neoplatoniche sono ricondotte ad Aristotele, e non il contrario: cfr. Eth. Nic. VII 1, 1145a).
In questa prospettiva, possiamo valutare esattamente il significato dell'affermazione che l'anima umana, con la nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l'anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella (III II 14: in base alle conclusioni cui siamo giunti sarebbero da discutere i testi tomisti invocati a questo proposito dal Busnelli). Nonostante, del resto, l'affermazione che l'uomo può rendersi simile all'animale, le differenze risultano, per D., radicali, però che lo pensiero è proprio atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l'hanno (II VII 4; cfr. soprattutto III VII 8, 9 e 10. In Pg XXVI 123 si può notare l'accostamento arte-r.: prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti. Cfr. anche, su questo punto, Cv IV VIII 7. Cfr., analogamente, Fiore VIII 3, ove si parla di mastro Argus, costruttore della nave di Giasone: e fece a conto regole e ragione).
Su questo, che costituisce evidentemente un ‛ topos ', cfr., anche per l'equivalenza di ‛ ratio ', ‛ mens ' e ‛ intelligentia ', Agost. Gen. ad litt. III 20, cit. in Sum. theol. I 79 8 " illud quo homo irrationabilibus animalibus antecellit, est ratio, vel mens, vel intelligentia, vel si quo alio vocabulo commodius appellatur ". Il testo s'ispira a Cic. Leg. I X 30. Soltanto la passione può annullare queste differenze, in quanto l'anima razionale decade dal suo rango, dalla sua funzione naturale, per lasciarsi asservire dall'anima concupiscibile (Cv III X 2 e l'anima, più passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che allora non giudica come uomo la persona, ma quasi come altro animale pur secondo l'apparenza, non discernendo la veritade. Cfr., in senso analogo, I VI 4, II VII 4. Per quanto riguarda la passione amorosa, si può notare che nei suoi aspetti più incontrollati si oppone senz'altro alla r., anzi nel Fiore e nel Detto, la R. stessa, personificata, interviene costantemente per tentare di sottrarre all'Amore i suoi fedeli: v. RAGIONE. Analogamente, nelle Rime, la passione amorosa, quella che ha dannato i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento, com'è detto in If V 39, è assimilata a un impulso contro il quale è inutile ogni resistenza razionale: cfr. CXI 5, e CVI 20, ove si afferma che, ragionevolmente, sarebbe da lodare una rinuncia della donna alla sua bellezza da cui la passione è ispirata: Dico che bel disdegno / sarebbe in donna, di ragion laudato, / partir beltà da sé per suo commiato; così anche al v. 95, e CXVI 26 Quale argomento di ragion raffrena, / ove tanta tempesta in me si gira? La speranza formulata in XCI 47, che la donna amata con il passare del tempo diventi più ragionevole, più ragion prenda, e quindi più accondiscendente all'amore, non è forse dettata da un'uguale nozione di ragione. Nelle Rime stesse, tuttavia, D. si richiama anche alla concezione della bellezza e dell'amore come espressione della bontà divina, come in CVI 147 che se beltà tra i mali / volemo annumerar, creder si pone, / chiamando amore appetito di fera. / Oh cotal donna pera / che sua biltà dischiera / da natural bontà per tal cagione / e crede amor fuor d'orto di ragione! La stessa concezione in Vn II 9, IV 2, XV 8, ove Amore è consigliato da la ragione; tuttavia, quando l'immagine di una donna pietosa, come di persona che troppo... piacesse, viene a distogliere il poeta dal pensiero di Beatrice ormai morta, si ha di nuovo un contrasto con la r.: cfr. XXXVIII 2, XXXIX 1 e 2). L'armonia delle facoltà umane si realizza invece quando l'appetito naturale (v.), buono in sé perché fornito dalla natura a tutti gli esseri viventi (in quanto cioè ogni animale, sì come elli è nato, razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle odia, Cv IV XXII 5 ss.; cfr. Vn XXXVIII 5 e 7, ove l'appetito è identificato al cuore, la r. all'anima, in quanto l'anima dell'uomo è, per definizione, razionale: cfr. XX 3), viene a trovarsi nel giusto rapporto di sudditanza con la parte superiore dell'anima, cioè la r., distinta questa volta, platonicamente, dalla parte irascibile e concupiscibile: questo appetito mai altro non fa che cacciare e fuggire; e qualunque ora esso caccia quello che e quanto si conviene, e fugge quello che e quanto si conviene, l'uomo è ne li termini de la sua perfezione. Veramente questo appetito conviene essere cavalcato da la ragione; ché sì come uno sciolto cavallo, quanto ch'ello sia di natura nobile, per sé, sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch'ello sia nobile, a la ragione obedire conviene, la quale guida quello con freno e con isproni, come buono cavaliere. Lo freno usa quando elli caccia, e chiamasi quello freno temperanza, la quale mostra lo termine infino al quale è da cacciare; lo sprone usa quando fugge... e questo sprone si chiama fortezza, o vero magnanimitade, la quale vertude mostra lo loco dove è da fermarsi e da pugnare (Cv IV XXVI 5, 6-7. Cfr. III XI 11 per diritto appetito e per diritta ragione).
All'interno della nobilissima parte de l'anima, definita di volta in volta intelletto, mente o r., le cui funzioni sono di natura complessa, conoscitive e morali al tempo stesso (come del resto nel pensiero aristotelico: cfr., ad esempio, in IV VIII 1, il rapporto fra r. e discrezione, stabilito sulla base dell'interpretazione tomista del testo aristotelico: cfr. In Eth. I lect. I n. 1), è possibile ritrovare anche in D. la nozione di un'attività specificamente ‛ ragionativa ', distinta dall'attività ‛ scientifica ', intesa come una delle virtudi, che tutte insieme sono comprese nel concetto di mente (Cv III II 15-16, ispirato a Eth. Nic. VI 1, 1138b-1139a: su questo punto v. RAGIONATIVO). Siamo lontani però dalla distinzione dionisiana e tomista, con tutte le conseguenze che ne derivano (la differenziazione aristotelica delle ‛ virtutes ' è accolta comunque anche da Tommaso d'Aquino; cfr. In Eth. VI lect. I). A una nozione di r. intesa molto genericamente può ricondursi l'espressione ‛ fare r. ', nel senso di " giudicare ", o piuttosto, come sembra usata da D., nel senso di " considerare ": cfr. If XXX 145 e fa ragion ch'io ti sia sempre allato; Pd XXVI 8 e fa ragion che sia / la vista in te smarrita e non defunta.
Per altri usi, ancora abbastanza generici, del termine, cfr. Fiore XV 3, CIX 8, CXCI 1, CCXII 12, CCXXXII 14, Detto 130.
Uno straordinario senso di fiducia nella r. umana, che può anche talvolta giudicare indipendentemente dalle autorità più venerate, come Virgilio e Cicerone (Cv IV XXIV 9), e costituisce il principio supremo in cui tutte le facoltà naturali trovano la loro perfezione e armonia, ispira queste parole di D., in cui la sua concezione sembra riassumersi: dirizzato l'artimone de la ragione a l'òra del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino (Cv II I 1).
6. In un'accezione del tutto peculiare, il termine è usato per designare il diritto romano, e, per estensione, può indicare ogni altro sistema giuridico (cfr. Cv IV XII 9 l'una e l'altra Ragione, Canonica dico e Civile: cfr. anche il § 10), in quanto al diritto romano, nella sua elaborazione giustinianea, si riconosce valore paradigmatico.
L'origine dell'espressione ‛ ratio scripta ', o piuttosto ‛ raison escripte ', deve considerarsi in connessione con le vicende, particolarmente complesse, dell'insegnamento e dell'applicazione del diritto romano in Francia. È ben nota l'esistenza di una precisa linea di demarcazione fra i cosiddetti pays de droit coutumier (in cui vige il diritto locale, consuetudinario, cioè tutta la Francia settentrionale) e i pays de droit écrit (cioè la Francia meridionale, in cui vige il diritto romano teodosiano, la Lex Romana Wisigothorum, con la relativa Interpretatio). Nonostante la decisa influenza della cultura giuridica bolognese nei pays de droit écrit, il diritto romano giustinianeo, in quanto costituisce il diritto del Sacro Romano Impero, come avevano appunto teorizzato i glossatori, resta oggetto di una costante diffidenza da parte dei sovrani francesi, sia che si tratti del suo insegnamento (particolarmente interessanti le vicende dell'insegnamento del diritto romano alla Sorbona), sia che si tratti, a maggior ragione, della sua applicazione pratica (si ricorderà d'altra parte che vi sono state anche vere e proprie reazioni popolari contro l'applicazione del diritto romano). La politica propria del Regnum Franciae, tendente ad affermare l'indipendenza dall'Impero non soltanto de facto, come avveniva generalmente altrove (con un'eccezione particolarmente importante, il Regnum Siciliae), bensì anche de iure, ispira evidentemente quest'attitudine nei confronti del diritto romano. Lungi però dal privarsi di uno strumento così perfezionato e complesso come il corpus giustinianeo, i sovrani francesi non mancano di utilizzarlo secondo finalità proprie, senza riconoscere ad esso il carattere di lex omnium generalis, in quanto emanata dal dominus mundi (è questa la posizione dei glossatori). Nei pays de droit écrit l'uso del diritto romano è così autorizzato dal sovrano: " ex permissione nostrorum progenitorum et nostra ": non per convalidare un'eccezione al diritto consuetudinario, secondo il quale " Regnum nostrum... praecipue ... regitur ", ma per riconoscere il valore di consuetudine all'uso del diritto scritto: " non ut iuribus scriptis ligentur, sed consuetudine iuxta scripti iuris exemplari introducta " (cfr. il testo di questa famosa ordonnance del 1312 di Filippo il Bello, ove risulta definitivamente fissata quella che era stata anche l'attitudine dei predecessori, in F. Ercole, Da Bartolo all'Altusio. Saggi sulla storia del pensiero pubblicistico del Rinascimento italiano, Firenze 1932, 168 n. 3).
Diversamente, nei pays de droit coutumier, si riconosce talvolta, anche se raramente, al diritto romano la funzione di diritto suppletivo, o, di preferenza, si ricorre a esso come a ‛ raison escriptè ' (l'espressione è segnalata per la prima volta nell'Ancien Coutumier du pays de Berry, del sec. XIV, ai capp. 158 e 161: cfr. E. Chénon, Histoire générale du droit français public et privé des origines à 1815, Parigi 1926, I 489 n. 2): il ricorso è spesso motivato con la formula " non ratione imperii, sed imperio rationis ". Come giustamente conclude il Maffei, l'identificazione del diritto romano con la ‛ ratio scripta ', priva cioè del carattere dell'obbligatorietà, " l'avergli assegnato… natura di diritto consuetudinario, l'aver sancito la sua adattabilità secondo il volere regio, implicava una trasformazione in senso nazionale di quel diritto ", con una conseguente frattura della continuità storica del diritto romano come diritto dell'ordinamento imperiale. Del resto, il diritto comune che si diffonde dal sec. XV in tutta l'Europa non è più diritto comune in senso tecnico, in quanto emanato dall'Impero universale (come lo intende Bartolo da Sassoferrato), ma piuttosto in quanto espressione di una ‛ ratio ', che si considera comune a tutti gli uomini.
Nessuna traccia di questi problemi nell'opera di D., che tuttavia si riferisce abitualmente al corpus giustinianeo come alla Ragione. Cfr. infatti Cv I X 3 Però si mosse la Ragione a comandare, che l'uomo avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che ‛ ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire ne faccia da quello che lungamente è usato ' (Dig. I IV 2 De constitutione principum: citato, fra gli altri, dal Boncompagni Rethorica novissima, prol., e da Tomm. Sum. theol. II 97 2). Cfr. Cv IV XIX 4 sì come scritto è in Ragione e per regola di Ragione si tiene, in quelle cose che per sé sono manifeste non mestiere di pruova (cfr. Dig. XXXIII IV 1, 8 " Quidquid demonstratae rei additur satis demonstratae, frustra est "; cfr. Accursio Glossa V I Dig. Qui satisd. II 8 " Quae manifesta sunt, id est notoria, probatione non indigent ".
Il Chiaudano ritiene che nell'espressione e per regola di Ragione si tiene, la R. non stia a indicare il diritto, bensì la comune capacità raziocinante, e debba quindi scriversi con la minuscola. Il Chiappelli sostiene invece, forse più esattamente, che il termine voglia indicare non il Digesto, con una ripetizione superflua, ma piuttosto la glossa accursiana, la magna glossa o glossa per antonomasia, cui si riconosce quasi valore di fonte del diritto: è ben noto l'adagio, risalente però alla fine del XV sec., " quicquid non agnoscit glossa, nec curia agnoscit "). Cfr. inoltre Cv IV XXIV 2 (cfr. Inst. I 23), e IV XXIV 17 (cfr. Dig. XXVI 2, De testamentaria tutela 1 e 27).
Com'è noto, queste citazioni, più o meno letterali, insieme con qualche altro riferimento o allusione a testi giuridici, sono state considerate dal Chiappelli documento valido della buona cultura giuridica di D., mentre al contrario, per il Chiaudano, il loro carattere generico, il fatto che le stesse citazioni siano facilmente reperibili in altri testi, soprattutto filosofici, dimostrerebbe piuttosto l'inconsistenza della cultura giuridica dantesca, cui mancherebbe la conoscenza diretta delle fonti (su tutta la questione, per la quale si rinvia comunque a Diritto Romano, una posizione equilibrata, in difesa del Chiappelli, è stata assunta dall'Ercole).
Importante sembra piuttosto la posizione che D. assume, in un testo particolarmente significativo, sul problema del rapporto fra il diritto e l'autorità da cui promana, cioè, per D. come per i giuristi bolognesi, l'autorità imperiale. Indubbiamente, gli argomenti su cui D. fonda la sua tesi imperiale non sono in genere di natura strettamente giuridica, richiamandosi piuttosto ai principi basilari dell'etica, a una superiore ‛ ratio ' necessaria al vivere umano, posizione che è del resto coerente con la severa attitudine critica assunta dal poeta nei confronti dei giuristi (canonisti soprattutto) e dei loro intrighi: si ricorderà comunque che la polemica contro l'inutile formalismo e tradizionalismo giuridico, il conseguente ritorno alla ratio come supremo criterio di giudizio, costituiscono motivi particolarmente rilevanti nell'opera stessa di un grande giurista, contemporaneo e amico di D., Cino da Pistoia (cfr. l'affermazione espressa in un parere legale, e riferita da un giurista dell'epoca, cit. in Monti, Cino da Pistoia giurista [Città di Castello 1924, 215]: " Multum est consideranda mens et ratio legislatoris et ubi possit colligi mens et ratio, quae est idem, ab ea est concludendum ").
L'equità cui ogni azione umana dovrebbe conformarsi costituisce per D. il fondamento della norma giuridica, destinata a contrastare l'ignoranza e il mal volere, che ne impediscono appunto la realizzazione: Cv IV IX 8 E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire... trovata fu la Ragione scritta, e per mostrarla e per comandarla. Onde dice Augustino: " Se questa - cioè equitade - li uomini la conoscessero, e conosciuta la servassero, la Ragione scritta non sarebbe mestiere " [secondo il Nardi, che non manca qui di prendersela con " il brutto vezzo degli editori che, coi due punti e virgolette, impegnano D. in una citazione letterale, che poi non riescono a trovare ", il testo dantesco rinvia al De lib. arb. I 15 " Eos... qui legi aeternae per bonam voluntatem inhaerent, temporalis legis non indigere satis, ut apparet, intelligis "]; e però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: " La ragione scritta è arte di bene e d'equitade " [cfr. Dig. I 1 " Iuri operam daturum prius nosse oportet unde nomen iuris descendat. Est autem a iustitia appellatum; nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi ". È nota la divisione bolognese fra le tre parti del Digesto, di cui le due ultime ritrovate in epoche successive: Dig. vetus, Infortiatum e Dig. novum. È da notare comunque che la definizione ora citata viene considerata da D. puramente descrittiva in Mn II V 1 non dicit quod quid est iuris, sed describit illud per notitiam utendi illo]. A questa scrivere, mostrare e comandare, è questo officiale posto di cui si parla, cioè lo Imperadore, al quale tanto quanto le nostre operazioni proprie, che dette sono, si stendono, siamo subietti; e più oltre no (Cv IV IX 9).
È noto che la funzione dell'aequitas, i suoi rapporti con il diritto, costituiscono uno dei problemi più ardui e complessi della storiografia giuridica. Considerata nel diritto classico come il principio di uguaglianza cui deve ispirarsi tutto il sistema del diritto positivo, l'esigenza " quae in paribus causis paria iura desiderat " (Cic. Top. IV 23), secondo la quale cioè a situazione giuridica uguale dovrebbe corrispondere uguale trattamento, l'aequitas rappresenta qualcosa d'intrinseco al sistema stesso (lo ius civile è infatti definito da Cicerone come " aequitas constituta iis qui eiusdem civitatis sunt ", Top. II 9). Nel diritto giustinianeo, sotto l'impulso della nuova cultura ellenistico-cristiana, la nozione di aequitas è soggetta alla stessa trasformazione subita dal concetto di ius naturale, identificandosi con un ideale di giustizia umana, al di sopra del diritto positivo, in contrapposizione talvolta con la ratio iuris, a cui il sistema deve costantemente tendere. Attraverso l'insegnamento della Chiesa la nozione di aequitas viene ad assumere, nel corso del Medioevo, un'importanza sempre più rilevante, identificandosi con l'ordine presente nelle cose stesse, in una natura che è espressione diretta della volontà ordinatrice divina (per limitarci alla classica definizione di Isidoro [Etym. X 7] ‛ aequus ' equivale a " secundum naturam iustus ", ove ‛ natura ' ha evidentemente il valore che abbiamo indicato). D. stesso, del resto, si colloca esattamente sulla linea di questa tradizione, quando stabilisce una corrispondenza precisa fra natura e ius, come due aspetti diversi della stessa volontà divina: cfr. Mn II II 2 ss. Est enim natura in mente primi motoris, qui Deus est... Ex hiis iam liquet quod ius, cum sit bonum, per prius in mente Dei est; et, cum omne quod in mente Dei est sit Deus... et Deus maxime se ipsum velit, sequitur quod ius a Deo, prout in eo est, sit volitum. Et cum voluntas et volitum in Deo sit idem, sequitur ulterius quod divina voluntas sit ipsum ius.
Se l'aequitas intesa in questo senso è a fondamento della legislazione canonica, che è creazione interamente nuova, espressione delle esigenze storiche del suo tempo (l'aequitas è detta appunto canonica per antonomasia), alla stessa nozione deve ricorrere ugualmente il diritto civile, che va riscoprendo e adattando alle nuove esigenze i testi legislativi di un'epoca ormai lontana, creando in realtà strutture nuove, ispirate, almeno idealmente, a questa nozione di ordine provvidenziale, presente nella realtà: " si quid inutile, ruptum, aequitative contrarium in legibus reperitur, nostris pedibus subcalcamus " (così l'ignoto autore delle Exceptiones legum romanarum, prol., ediz. G. Mor, Milano 1938). L'aequitas, " iustitiae fons et origo ", è invocata dai giuristi con accenti solenni, che investono di un significato del tutto nuovo l'originaria definizione ciceroniana: " aequitas est rerum, idest obligationum convenientia, quae in paribus causis, idest negotiis, paria iura desiderat. idest Deus, secundum hoc quod desiderat aequus dicitur. nihil enim aliud est aequitas quam Deus. si talis aequitas in voluntate hominis perpetuo sit, iustitia dicitur. quae talis voluntas redacta in praeceptionem, sive scriptum, sive consuetudinarium ius dicitur " (Summa Institutionum detta Vindobonensis I 2 gl. de iustitia et iure: pubblicata sotto il nome di Irnerio da G.B. Palmieri, Bologna 1914. L'autore della Summa trecensis, pubblicata anch'essa dal Fitting sotto il nome di Irnerio [Berlino 1894], distingue più precisamente un'aequitas constituta, integrata cioè e riconosciuta dall'ordinamento stesso, " in praeceptionem redacta ", e un'aequitas rudis, come criterio ideale a cui il legislatore, il ‛ princeps ' s'ispira: cfr. Exord. 2-3). È evidente che D., nell'evocare l'equità come fondamento del diritto positivo, e quindi del potere imperiale, non può non aver presente una tradizione che appartiene alla cultura (non soltanto strettamente giuridica) del suo tempo, anche se i concetti non sono sempre esattamente definiti come nel linguaggio dei giuristi (ad esempio, la distinzione fra l'equità e la giustizia è già chiaramente fissata in un'opera famosa del XII sec., le Quaestiones de iuris subtilitatibus [ediz. Fitting, Berlino 1894]; cfr. De Aequitate I " et quidem in rebus ipsis et negotiis idem videtur aequitatis et iustitiae nomen, significatione distat autem, quia nomen iustitiae mittit nos ad voluntatem intelligendam, quae voluntas utique versatur in eo quod aequum vocatur, ipsum autem aequum non nisi in rebus ipsis consistit ". Nel testo citato del Convivio l'equità dipende invece anche dalla volontà, in quanto si può perdere per ignoranza o malvolere, mentre a sua volta la giustizia può essere contrastata da un'impossibilità oggettiva, come si afferma in Mn I XI 6-7 Quantum ergo ad habitum, iustitia contrarietatem habet quandoque in velle; nam ubi voluntas ab omni cupiditate sincera non est, etsi adsit iustitia, non tamen omnino inest in fulgore suae puritatis... Quantum vero ad operationem, iustitia contrarietatem habet in posse). La stessa citazione agostiniana sull'inutilità del diritto, se le azioni umane si conformassero sempre all'aequitas, prende un altro rilievo, se messa a confronto con un testo di Cino da Pistoia, il quale muove però, a differenza di D., da una precisa definizione dell'aequitas: " vel alio modo differunt iusticia et aequitas: quod iusticia respicit animam et aequitas res ipsas: unde aequitas est rerum convenientia, et ideo secundum proprietatem verborum deberet dici iudex iustus et iudicium aequum... si enim non esset aliquod ius scriptum nec liber legalis tantum esset de aequitate quantum est hodie. unde potest dici quod aequitas non est praeceptum: quia etsi nil esset praeceptum tantum esset de aequitate quantum et nunc. ius vero est praeceptum ab his qui autoritatem praecipiendi habent, qui quandoque iniquum praecipiunt cum homines et fallant et fallantur " (Super Codicem, de legibus et constitutionibus, 1. inter aequitatem [C. I 14, 1]).
A questa nozione di aequitas, che è frutto di una complessa elaborazione dottrinale, s'ispira in realtà, pur senza un riferimento esplicito alla nozione stessa, la concezione del diritto formulata nella Monarchia: lo ius è definito infatti come realis et personalis hominis ad hominem proportio, quae servata hominum servat societatem, et corrupta corrumpit (II V 1); i suoi fondamenti risiedono nello stesso ordine naturale delle cose (VI 3 Propter quod patet quod natura ordinat res cum respectu suarum facultatum, qui respectus est fundamentum iuris in rebus a natura positum. Ex quo sequitur quod ordo naturalis in rebus absque iure servari non possit, cum inseparabiliter iuris fundamentum ordini sit annexum); esso rappresenta quindi un riflesso diretto della volontà divina, cessando di definirsi diritto quando si allontana da essa (Il 5 Et iterum ex hoc sequitur quod ius in rebus nichil est aliud quam similitudo divinae voluntatis; unde fit quod quicquid divinae voluntati non consonant, ipsum ius esse non possit, et quicquid divinae voluntati est consonum, ius ipsum sit).
Se il termine R., con la maiuscola, è usato, in senso tecnico, per indicare il diritto per antonomasia, cioè il diritto romano, qualunque legge, anche di natura morale o religiosa, deve considerarsi, nella concezione dantesca del diritto, come espressione, sia pure inadeguata o imperfetta, della r.. e quindi della natura dell'uomo (questo almeno sembra il significato di Cv II VIII 9, in cui è questione dell'immortalità dell'anima: questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini, Tartari, e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione).
In un senso che può considerarsi affine, nel senso cioè dell'espressione corrente ‛ aver r. ', il termine si contrappone alla forza, come in Cv IV IV 8, ove D. accenna alla famosa questione, discussa nel corso della Monarchia, se la romana potenzia sia stata acquistata (come sostengono le correnti antimperiali) non per ragione né per decreto di convento universale... ma per forza, che a la ragione pare esser contraria (cfr. al § 12 la conclusione, desunta dall'argomento della natura provvidenziale dell'Impero romano, voluto da un decreto divino: La forza dunque non fu cagione movente ... ma fu cagione instrumentale, sì come sono li colpi del martello cagione del coltello, e l'anima del fabbro è cagione efficiente e movente; e così non forza, ma ragione, [e] ancora divina, [conviene] essere stata principio del romano imperio). In un significato analogo, la r. è implicitamente contrapposta alla forza in Pd VI 31(perché tu veggi con quanta ragione / si move contr' al sacrosanto segno).
L'espressione ‛ rendere r. ', nel senso di " rendere conto " di qualcosa secondo giustizia (cfr. If XXII 54 di ch'io rendo ragione in questo caldo), può ricondursi a questo gruppo di significati, come pure la definizione del Purgatorio, il monte ove ragion ne fruga (Pg III 3), in cui la r. è da identificarsi con la giustizia divina.
Un senso giuridico il termine assume anche in Pd VI 137, ove l'espressione dimandar ragione equivale a " sottoporre a processo ".
Bibl. - Per quanto riguarda la nozione di r. come facoltà propria dell'essere pensante, si rinvia alla bibliografia di ‛ intelletto ' e ‛ intelletto possibile '; per i temi specificamente qui presi in esame v. G.E. Demers, Les divers sens du mot " ratio " au Moyen âge, in Études d'histoire littéraire et doctrinale du XIIIe siècle, serie I, 1, Parigi-Ottawa 1932, 105 ss.; R.W. Mulligan, " Ratio inferior " and " ratio superior " in St. Albert and St. Thomas, in " The Thomist " XIX (1956) 339 ss.; J. Peghaire, Intellectus et ratio selon S. Thomas d'Aquin, Parigi-Ottawa 1936; É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1933, 122-130, 151-160; di B. Nardi cfr. soprattutto Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, 62 ss., 282 ss. Per una nozione di ‛ ratio ' cristiana, in armonia con la rivelazione, anteriormente all'introduzione della filosofia di Aristotele, cfr. T. Gregory, Filosofia e teologia nella crisi del XIII sec., in " Belfagor " XIX (1964). Per quanto riguarda la R. come sinonimo di " diritto ", si rinvia, sul tema della conoscenza delle fonti giuridiche da parte di D., alla bibliografia di Diritto Romano: ci limiteremo a ricordare L. Chiaudano, D. e il diritto romano, in " Giorn. d. " XX (1912) 37 ss.; L. Chiappelli, Ancora su D. e il diritto romano, ibid. XX (1912) 202 ss. Intorno alla ‛ ratio scripta ', cfr. D. Maffei, Gli inizi dell'umanesimo giuridico, Milano 1956, 177 ss. (v. la bibl., pp. 177-178 n. 2). Sul problema dell'‛ aequitas ' cfr. F. Calasso, Introduzione al diritto comune, Milano 1951, 166 ss., 173 ss.