Abstract
Si prende in esame il problema della ragionevolezza delle decisioni pubbliche e in particolare dell’amministrazione pubblica, tanto nell'ambito del processo decisionale quanto come tecnica di controllo giurisdizionale. Il punto di partenza è rappresentato dal confronto fra i parametri di razionalità-logicità e quelli, eventualmente diversi dai primi, di ragionevolezza di un corso d'azione. Questo introduce alla classificazione, in una prospettiva comparata, delle tecniche di controllo giurisdizionale dell’azione amministrativa di carattere discrezionale sulla base dell’intensità del controllo. Si esaminano quindi gli usi della ragionevolezza nella giurisprudenza e nella letteratura giuridica. Nello scenario così definito emergono il tema della incidenza della ragionevolezza sulla concreta attività delle amministrazioni pubbliche, del rapporto fra ragionevolezza e proporzionalità nonché quello dello scivolamento verso il merito dei controlli a parametro “vago”.
Assumere decisioni (perseguendo l’interesse generale) è uno dei tratti che caratterizza, anche secondo il senso comune, l’amministrazione pubblica. Decidere un corso d’azione implica, nel contesto della ragion pratica, fornire ragioni per l’azione (Raz, J., Ethics in the Public Domain, Oxford, 1994). È a tale contesto che appartengono tanto la razionalità quanto la ragionevolezza, termini che indicano concetti imparentati ma, secondo l’opinione che qui si condivide, distinti.
La razionalità richiama una qualche accezione di logica, normalmente la logica proposizionale attraverso cui siamo abituati a definire una decisione logica o razionale quando è sorretta da una corretta serie di deduzioni a partire da certe premesse e inoltre una che, in base ai fini prescelti, ha la più alta probabilità di soddisfarli. Vi è, peraltro, chi distingue tra logicità e razionalità, nel senso che mentre per la prima le premesse sono indifferenti la razionalità richiederebbe conclusioni consistenti con premesse a loro volta razionalmente poste.
Non vi è accordo sul fatto, però, che qualunque scelta razionale sia per ciò stesso ragionevole. Anzi, una istanza specifica della ragionevolezza in un contesto giuridico sembra riguardare quelle decisioni che non dovrebbero essere prese se ci si affidasse esclusivamente a un criterio di stretta razionalità (Atienza, M., On The Reasonable in Law, in Ratio Juris, 1990, 3, 149).
Il problema è che neanche vi è accordo su cosa intendiamo per “ragionevole”. O meglio, la ragionevolezza sembra essere uno di quei termini su cui più meno tutti ci intendiamo secondo una intuizione di senso comune, ma che diviene sfuggente quando si passa alla formulazione di definizioni precise.
Un carattere proprio della ragionevolezza sarebbe quello di richiedere qualcosa di più del porre in essere azioni adatte a perseguire un determinato scopo, di tenere conto, invece, di un elevato livello di coordinazione tra fini diversi (Church, J., Reasonable Irrationality, Mind, 1987, 354-366). Così, se si ha voglia di vedere un film è razionale recarsi al cinema, ma questa azione diviene irragionevole se impedisce di prepararsi per un importante colloquio di lavoro l’indomani.
L’elemento della coordinazione tra fini riguarda anche un altro carattere ricorrente tra gli studiosi delle scienze umane e sociali su ciò che distingue la ragionevolezza dalla razionalità, vale a dire che il ragionevole riguarda gli individui nella loro dimensione relazionale in un determinato contesto sociale di riferimento, laddove la razionalità, intesa in senso logico-razionale, considera il decisore uti singuli (Zorzetto, S., Ragionevolezza, in Ricciardi, M.-Rossetti, A.-Velluzzi, V., a cura di, Filosofia del diritto. Norme, concetti, argomenti, Roma, 2015, 291).
In questo senso un atteggiamento ragionevole è quello che tiene conto dei punti di vista degli altri e che in luogo di massimizzare un (il proprio) interesse adotta una soluzione che possa risultare accettabile anche dai primi. Questo approccio sembra spiegare il frequente riferimento della ragionevolezza di un corso d’azione a termini quali giustizia, equità, accettabilità sociale e alla tecnica del bilanciamento nonché la sua riconduzione, per esempio nell’ambito del controllo di costituzionalità delle leggi, al principio di eguaglianza (Cheli, E., Stato costituzionale e ragionevolezza, Napoli, 2011; Modugno, F., La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007).
Si può anche soggiungere che, mentre la dimensione logico-formale della ragione mira a definire con precisione un determinato risultato, alla ragionevolezza si addice un ineliminabile margine di vaghezza. Dinanzi a una norma che vieta di entrare con qualsiasi veicolo nel parco, è illogico sostenere che si può girare in bicicletta nel parco. Per stabilire se è ragionevole uscire con l’ombrello in una mattinata di sole, occorre tenere conto di numerosi fattori contestuali al netto dei quali rimarrà comunque un margine di indeterminatezza tra una scelta del tutto irragionevole e una del tutto ragionevole.
Nei diritti amministrativi degli ordinamenti tanto di common law quanto di civil law il principio di ragionevolezza è diffusamente impiegato come tecnica di controllo giurisdizionale dell’azione amministrativa, sebbene varino sensibilmente i presupposti concettuali, la terminologia e l’intensità dello scrutinio. Nella letteratura comparatistica ne sono stati individuati in particolare tre modelli sulla base del grado di penetrazione del controllo giudiziale nel merito delle decisioni amministrative (v. Wouters, J.-Duquet, S., Reasonabless as a Standard of Judicial Review: Comparative, European, and International Perspectives, in Riv. trim. dir. pubb., 2014, 35-76). Il primo è quello della manifesta irragionevolezza, che in stretta adesione al Wednesbury Unreasonabless standard of review, enunciato da Lord Green (House of Lords, Associated Provincial Picture Houses Ltd v Wednesbury Corp [1948] 1 K.B, 230), afferma che una corte può annullare una decisione amministrativa solo quando questa è talmente irragionevole che nessuna autorità ragionevole avrebbe potuto assumerla oppure secondo una più recente formulazione «outrageous in its defiance of logic or accepted moral standards» (Lord Diplock, in Council of Civil Service Unions v Minister for the Civil Service [1985] A.C. 374, 410).
Una versione così stringente del principio è però oggi poco seguita nello stesso Regno Unito e negli altri ordinamenti a esso affini (Canada, Nuova Zelanda, etc.) perché a essa si tende a sostituire un “soft look test” – con fogge e denominazioni diverse adottato negli ordinamenti europei e in quello UE (per la Francia ad esempio v. Mestre, Motifs (contrôle des), in Répertoire Dalloz, II, Paris, 1991, 8 sul contrôle de raisonnabilité) – attraverso cui le corti verificano con una certa maggiore ampiezza che vi sia congruenza tra i fatti e gli argomenti offerti dall’autorità nel prendere una determinata decisione. In alcune applicazioni di questa seconda modalità si sottolinea la necessità di un nesso di proporzionalità tra i fatti accertati e le misure adottate, pertanto sorge la questione, molto dibattuta, della relazione tra il principio di ragionevolezza e quello di proporzionalità (v. infra § 5). Il terzo modello, di origine statunitense, si definisce “hard look test”, perché mediante questo si riconsidera l’intero processo decisionale e in particolare se l’amministrazione ha approfonditamente considerato tutte le opzioni a disposizione (Ip, E.C., Taking a ‘Hard Look’ at ‘Irrationality’: Substantive Review of Administrative Discretion in the US and UK Supreme Courts, in Oxford Journal of Legal Studies, 34, 3, 2014, 481-510).
Questa classificazione, che si basa sull’intensità del controllo giudiziale, dice poco sulla natura della ragionevolezza e anzi tende piuttosto ad accentuarne il versante logico-razionale, in conformità con gli usi del termine che trattano ragionevolezza e razionalità come sinonimi. In particolare il secondo modello sembra riferibile a ciò che nell’ordinamento italiano viene ricondotto a varie figure di eccesso di potere quali l’evidente illogicità o contraddittorietà, il travisamento dei fatti e simili.
Un punto unanimemente condiviso, anche se si guarda agli altri ordinamenti, è che il principio di ragionevolezza attiene all’area della discrezionalità amministrativa, quella vale a dire nella quale il corso d’azione non sia stato già compiutamente indicato dalle norme conferenti all’autorità in questione il potere (non tanto di decidere un corso d’azione quanto) di verificare che sussistano i presupposti di fatto perché si abbia una certa conseguenza giuridica. È per questa ragione che della ragionevolezza si tratta in genere a proposito dell’eccesso di potere, il vizio proprio delle decisioni discrezionali (Benvenuti, F., Eccesso di potere per vizio della funzione, in Rass. dir. pubb., 1950, 1 ss.), che in quanto formula aperta è idonea a modellarsi secondo una molteplicità di opzioni. Sotto l’ombrello del sindacato di ragionevolezza si riconducono una disparata serie di tipologie di controllo delle decisioni amministrative, tanto che si è ipotizzato che eccesso di potere e ragionevolezza siano categorie coestensive (Ledda, F., L’attività amministrativa, Milano, 1987, 110). Ci si può quindi persino chiedere se esista uno specifico sindacato sulla ragionevolezza di un provvedimento amministrativo.
Anche nella letteratura italiana si incontra l’idea che non vi siano sostanziali differenze tra un sindacato di logicità-razionalità e uno di ragionevolezza (Vipiana, M.P., Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Padova, 1993, 8) e questo sembra trovare conferma nell’analisi della giurisprudenza (infra, § 3). Più in generale è stato notato che nell’ordinamento italiano la tendenza a inquadrare i parametri di logicità dell’azione amministrativa nel concetto di ragionevolezza è di lungo corso (Sandulli, A., La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, 287).
La crescente attenzione negli ultimi decenni nei discorsi della dottrina per il principio di ragionevolezza sembra, però, giustificata da un intento prescrittivo, quello di raccomandare un più intenso controllo giudiziale sulle decisioni discrezionali. In questo caso la ragionevolezza cui si allude sembra qualcosa di diverso dalla mera logicità, per avvicinarsi al senso di giustizia che le decisioni imparziali debbono assicurare ovvero a un concetto normativo che si fonda sulla identificazione delle considerazioni rilevanti e sul loro bilanciamento in relazione alla loro importanza (Sadurski, W., “Reasonableness” and Value Pluralism in Law and Politics, in Bongiovanni, G.-Sartor, G.-Valentini, C., a cura di, Reasonableness and Law, Dordrecht, 2009, 129). Non per caso il principio di ragionevolezza viene spesso ricavato da quello di imparzialità (Allegretti, U., L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, 123; v. anche la sentenza citata infra, § 5) come da altri principi generali, quali la buona fede (Merusi, F., L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 248 ss.). A questo proposito riemerge anche l’accennato problema dell’autonomia della ragionevolezza dal principio di proporzionalità in ragione del richiamo a nozioni quali equilibrio, misura e proporzione di una decisione che voglia dirsi giusta (Sala, G., L’eccesso di potere amministrativo dopo la legge 241/90: un’ipotesi di ridefinizione, in Dir. amm., 1993, 202).
Il riferimento al principio di ragionevolezza è menzionato talvolta nella legislazione anche in questo caso spesso accoppiato a quello di proporzionalità. Di recente l’art. 5 della l. 7.8.2015, n. 124 nel delegare il Governo a emanare uno o più decreti legislativi per individuare i procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio attività o di silenzio assenso, ai sensi degli articoli 19 e 20 della l. 7.8.1990, n. 241, nonché di quelli per i quali è necessaria l'autorizzazione espressa e di quelli per i quali è sufficiente una comunicazione preventiva, indica come criteri direttivi, tra gli altri, i principi del diritto dell'Unione europea relativi all'accesso alle attività di servizi e i principi di ragionevolezza e proporzionalità. L’art. 3 del D.P.R. 16.4.2013, n. 62, recante il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, fa obbligo al dipendente di rispettare i principi di integrità, correttezza, buona fede, proporzionalità, obiettività, trasparenza, equità e ragionevolezza. In diversi altri casi esso è menzionato in leggi tributarie e di contabilità. La prima menzione del termine in una legge del Parlamento si rinviene nell’Allegato I, l. 29.9.1980, n. 662, di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale per la prevenzione dell'inquinamento causato da navi, che stabilisce un dovere di vigilanza dell’autorità statale sulle dotazioni di determinati impianti sulle navi «nella misura del possibile e della ragionevolezza».
Nel prossimo paragrafo si vedrà come il richiamo alla ragionevolezza in opposizione alla razionalità “calcolistica” può anche giustificare raccomandazioni di segno contrastante. Nei paragrafi terzo e quarto si esamineranno gli usi della ragionevolezza, rispettivamente, nella giurisprudenza amministrativa e nella letteratura di diritto amministrativo italiane, nel quinto si accennerà, infine, al problema del rapporto tra ragionevolezza e proporzionalità.
La difficoltà di definire in positivo cosa vuol dire che una decisione amministrativa deve essere ragionevole e non semplicemente razionale è alla base del dibattito cui parteciparono Herbert Simon e Charles Lindblom a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Osservare il problema da questo punto di vista consente di mettere in luce un aspetto di notevole importanza, per quanto piuttosto trascurato nelle trattazioni degli studiosi di diritto amministrativo, che si concentrano sul versante del controllo giudiziale, quello del modo come le autorità amministrative applicano (dovrebbero applicare) il principio di ragionevolezza.
Secondo Simon (Simon, H., Administrative Behavior. A Study of Decision-Making Processes in Administrative Organization, London, 1976, 96 ss.) una perfetta razionalità delle decisioni amministrative richiederebbe dapprima l’individuazione di tutti i possibili corsi d’azione, determinando poi le conseguenze di ogni alternativa e infine valutando i costi e benefici di ciascuna di esse. Si tratta all’evidenza di condizioni irrealizzabili nelle circostanze reali caratterizzate da ristrettezze di tempi, risorse, informazioni e anche capacità predittiva. Dal che Simon traeva la conclusione che le burocrazie pubbliche operano in un contesto di ‘razionalità vincolata’ (bounded rationality) che comporta che ciò cui possiamo aspirare è un livello tollerabile di soddisfazione di tale esigenza di razionalità piuttosto che uno ottimale.
Lindblom in un articolo significativamente intitolato “la scienza di cavarsela” (Lindblom, C., The Science of Muddling Through, in Pub. Adm. Rev., 19, 1959, 79) opponeva a questo modello, da egli definito “razionale-comprensivo”, l’osservazione che le amministrazioni pubbliche decidono in base ad adattamenti marginali delle politiche pubbliche a partire dallo status quo, secondo un approccio incrementale che ha poco a che fare con l’ideale del decisore razionale descritto da Simon e in cui spesso persino una netta distinzione tra mezzi e fini è inappropriata o inutile. Non di rado gli stessi fini sono determinati in base ai mezzi effettivamente disponibili.
Mentre il primo approccio ha un intento prevalentemente normativo, il secondo sembra limitarsi alla rilevazione fenomenologica, riferita all’amministrazione statunitense della metà del secolo scorso ma plausibilmente estensibile all’amministrazione contemporanea anche italiana. Anche lo scritto di Lindblom ha però un intento normativo, quello di raccomandare un metodo fondato su ciò che le amministrazioni perlopiù già fanno, più o meno consapevolmente, vale a dire agire incrementalmente secondo successive limitate comparazioni: un metodo che Lindblom definisce dei ‘rami’ in opposizione a quello antagonista delle ‘radici’. In un certo senso il metodo decisionale dei rami appare più ragionevole nella maggior parte delle circostanze dell’esigente metodo delle radici.
Anche la teoria più diffusa in Italia sulla discrezionalità amministrativa – quella di Massimo Severo Giannini che la descrive come ponderazione tra interesse primario e interessi secondari (M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione: concetto e problemi, Milano, 1939) – incontra il problema di fondarsi su un modello di razionalità comprensiva non agevole da rinvenire nel concreto svolgersi dell’attività amministrativa.
Peraltro, considerando un qualunque metodo di razionalità decisionale, occorre chiedersi se – in assenza di previsioni legislative al riguardo – le amministrazioni siano libere di sceglierne uno, optando per esempio tra razionalità comprensiva e metodo incrementale in via generale o in relazione alle circostanze del caso. Nella casistica giurisprudenziale non si trovano risposte a questa domanda. Sono molte le sentenze ove, a partire dai principi – imparzialità, buon andamento, eguaglianza – si prescrive alle amministrazioni di decidere seguendo canoni di logicità e ragionevolezza, senza però che sia mai stato elaborato un test che consenta di comprendere cosa questo significhi in concreto.
A rigore, se si ritiene “ragionevole” che nel decidere l’amministrazione adotti il “metodo dei rami”, dovrebbe essere esclusa a priori un’accezione esigente del principio di ragionevolezza come quella raccomandata da un cospicuo orientamento che riconduce la ragionevolezza al principio di imparzialità nel suo significato inclusivo, vale a dire come norma che obbliga l’amministrazione a considerare tendenzialmente tutti gli interessi comunque rilevanti per la decisione.
Esiste, dunque, una sorta di asimmetria tra la ragionevolezza/razionalità come guida per l’azione e la stessa come criterio impiegato dalle corti per sindacare le decisioni amministrative, ciò che costituisce la principale fonte dei problemi e dispute che da sempre si pongono al momento di tracciare il confine tra ciò che concerne il merito delle decisioni e ciò che riguarda un controllo che si ritiene debba comunque limitarsi all’ambito della legalità, qualsiasi cosa si intenda per quest’ultima.
Da una semplice analisi empirica della casistica giurisprudenziale condotta utilizzando il “motore di ricerca” del sito istituzionale della giustizia amministrativa emerge quanto indicato nella seguente tabella.
Nei sei anni presi in considerazione la ricorrenza dei termini “illogicità” e “irragionevolezza” nelle sentenze del Consiglio di Stato ha un andamento simile. La frequenza di entrambi aumenta pressoché costantemente, ma si mantiene costante anche il rapporto tra di essi, ove “illogicità” compare più del doppio delle volte in ciascun anno, a riprova del fatto che questo è ancora il modo più diffuso di riferirsi a vizi di una decisione che riguardino la sfera della sua razionalità. È anche interessante notare che in un numero rilevante di casi (anche questi con un andamento simile negli anni considerati) i due termini compaiono assieme (v. tab. 2).
Nella maggior parte delle sentenze nelle quali questo si verifica, i due termini sono impiegati, inoltre, come una sorta di endiadi.
Occorre naturalmente tenere presente che la ricorrenza di tali termini nel corpo di una sentenza è un indicatore molto generico. In un elevato numero di casi si tratta dei motivi di ricorso invocati dalle parti che il collegio giudicante si limita a riferire. Nella stragrande maggioranza di questi casi, all’enunciazione del motivo non segue nella parte propriamente motivazionale della sentenza un’indagine sulla presenza di elementi di illogicità/irragionevolezza. Oppure, come è stato notato, si circoscrive in linea di principio l’ammissibilità di un sindacato sulla discrezionalità a soli canoni di logicità, razionalità, ragionevolezza senza che ne segua un controllo concreto (Cudia, C., Funzione amministrativa e soggettività della tutela, Milano, 2008, 321, con indicazione della casistica in nota).
Nonostante questo, l’esame delle sentenze così selezionate fornisce utili elementi di analisi. Quasi sempre irragionevolezza e illogicità sono usate tanto dalle parti quanto dai giudici con l’intento di invocare/verificare qualche forma di irrazionalità in cui l’azione amministrativa sia incorsa. Molto spesso tali espressioni compaiono accoppiate ad altri termini, quali contraddittorietà, congruità, completezza, arbitrarietà, abnormità riferiti alla motivazione, all’istruttoria o, più raramente, alla decisione. In questi ultimi casi, l’ipotesi più frequente è che le censure investano la cosiddetta discrezionalità tecnica, specialmente in presenza di fattispecie in cui si tratti di esprimere giudizi in relazione a selezioni concorsuali, gare, etc.
Ricorrono formule, non sempre di ovvio discernimento, quali la “perplessità e irragionevolezza dell’iter logico”, o il “contrasto con i principii di ragionevolezza, proporzionalità e correttezza dell’azione amministrativa”.
Tale analisi empirica si limita a censire gli usi del principio di ragionevolezza nel linguaggio del Consiglio di Stato (esito non diverso si ottiene estendendo l’analisi ai tribunali amministrativi regionali).
Assumendo un approccio critico alla casistica attraverso l’impiego di determinate concezioni dogmatiche, si può anche sostenere che nelle ipotesi evidenziate non si rinviene alcuna autonoma nozione di ragionevolezza, come per esempio se si condivide che il principio di ragionevolezza occorrerebbe esclusivamente quando il sindacato del giudice amministrativo si estende al «giusto contemperamento tra interessi contrapposti» (Lombardo, G., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza amministrativa, in Riv. trim. dir. pubb., 1997, 984), secondo un’accezione della ragionevolezza che ne avvicina il significato alla tecnica del bilanciamento tra interessi, diritti, valori, etc.
La giurisprudenza amministrativa, peraltro, riconduce non di rado tale esigenza di contemperamento direttamente al principio di imparzialità, sebbene in alcuni importanti casi sia stato impiegato il concetto di ragionevolezza proprio nell’accezione appena citata.
Uno paradigmatico è costituito dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 1993, ove si legge che il punto di equilibrio tra le tante esigenze contrapposte che occorre considerare nell’ambito delle decisioni, connotate dalla più ampia discrezionalità, relative alla regolamentazione delle zone pedonali e a traffico limitato, deve essere raggiunto in base a una valutazione da cui si evinca la “ragionevolezza” del sacrificio dell’uno o altro degli interessi in gioco. Anche in questo caso, peraltro, la ragionevolezza di tale sacrificio si risolve per il Consiglio di Stato nella non contraddittorietà delle misure assunte, tornando pertanto all’applicazione di un criterio di logicità della scelta. Inoltre, il riferimento alla ragionevolezza del sacrificio, quindi alla sua accettabilità, fa riemergere il problema del rapporto con il principio di proporzionalità.
È interessante, inoltre, menzionare la differenza di vedute tra il Consiglio di Stato e il TAR del Lazio in questo caso, in quanto emblematica del modo come il richiamo alla ragionevolezza – al di là delle diverse qualificazioni – favorisca l’apertura dello scrutinio a valutazioni di carattere sostanziale. Il Consiglio di Stato, infatti, ritiene ragionevole consentire ai proprietari sia di autorimesse sia di posti-auto di circolare nella zona pedonale, laddove il giudice di primo grado aveva ritenuto il contrario. Entrambi utilizzano buoni argomenti, ma la metafora del bilanciamento tra interessi, valori etc. non riesce a nascondere che di argomenti di merito si tratti. L’approccio del Consiglio di Stato da questo punto di vista appare, peraltro, improntato a un uso prudente della ragionevolezza. Sembra evincersi dalla pronuncia, infatti, che così come non è irragionevole consentire a certe categorie di possessori di auto l’accesso alla zona pedonale, potrebbe esserlo anche il non consentirlo, proprio perché si tratta di questioni di «merito politico-amministrativo». L’approccio del TAR al sindacato sul contemperamento degli interessi contrapposti era stato evidentemente più penetrante, atteso che aveva ritenuto irragionevole che in un centro storico chiuso al traffico si consentisse la circolazione a un’apprezzabile quantità di automobili.
Il primo tipo di approccio sembra riconducibile alla manifesta irragionevolezza, che implica un elevato grado di deferenza delle corti al decisore pubblico, il secondo al soft look test che consente ai giudici di spingersi a verificare in che modo il fine pubblico indicato dalla legge debba concretizzarsi in relazione al contesto della decisione.
Il primo esplicito riferimento alla ragionevolezza come norma connaturata all’agire amministrativo si deve a Feliciano Benvenuti che in uno scritto del 1950 vi riconduce le figure sintomatiche dell’illogicità manifesta e della contraddittorietà (F. Benvenuti, Eccesso di potere, cit.). L’idea di una immanenza della ragionevolezza al diritto amministrativo e più in generale all’ordinamento giuridico verrà riproposta successivamente a più riprese da diversi studiosi non solo amministrativisti, sino a farne il «principio primo di un ordinamento giuridico» (Morrone, A., Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, 453 ss.; Sala, G., op. cit., 207, che parla di principio generalissimo di tutto l’ordinamento).
La maggiore attenzione della dottrina di diritto amministrativo per il tema ha comunque coinciso con l’emanazione della l. n. 241/1990, che ha portato molti studiosi a rinvenire nel procedimento amministrativo il luogo di un confronto o di un rapporto tra interessi e situazioni contrapposti che è possibile ridurre a sintesi o armonizzare attraverso un processo decisionale il cui esito sia comprensibile e accettabile, dunque ragionevole, (solo) in quanto procedimentalizzato. L’autrice che ha dedicato una ampia monografia al tema (Vipiana, M.P., op. cit.) ha individuato una ragionevolezza come principio del procedimento amministrativo (“ragionevolezza-canone”) distinta dalla ragionevolezza come strumento di controllo giudiziale (“ragionevolezza-parametro”) da declinare in tutte le fasi in cui si suole articolare il procedimento: determinazione degli indirizzi, istruttoria e decisione. Nel passaggio dalla fase istruttoria – in cui si individuano gli interessi pubblici e privati e se delinea una preliminare composizione – a quella decisoria la ragionevolezza giocherebbe un ruolo scriminante, nel senso che sarebbero ragionevoli soltanto quelle decisioni per così dire assunte a “rime obbligate” in quanto derivanti “logicamente” dall’istruttoria compiuta. A questo proposito si distingue ulteriormente tra “ragionevolezza in senso soggettivo”, che opera nella fase preparatoria della decisione, e in “senso oggettivo” che opera appunto al momento di assumere una decisione i cui margini di scelta sarebbero sensibilmente ridotti dalla necessità di dedurre logicamente un certo corso di azione dalle premesse derivanti dalla ragionevole acquisizione di fatti e contemperamento di interessi già avvenuto nella fase precedente (Vipiana, M.P., op. cit., 72 ss.).
In tale direzione la dottrina a volte ricollega alla ragionevolezza persino l’ideale della certezza del diritto, che all’apparenza si pone con quest’ultimo valore in una relazione dialettica. Si afferma, per esempio, che la ragionevolezza sia una «valvola affidata all’opera continua di dottrina e giurisprudenza» costituente un «fattore di certezza» nonché il «criterio che consente di verificare la completezza dell’istruttoria, l’adeguatezza tra la stessa e la decisione finale, la coerenza interna, la non arbitrarietà nella selezione degli interessi, la conformità alla natura delle cose e dunque la logicità e coerenza del processo di decisione» (Morbidelli, G., Il procedimento amministrativo, in Mazzarolli, L., e altri, a cura di, Diritto Amministrativo, I, pt. gen., Bologna, 2005, 565).
È qui particolarmente evidente il fatto che la polisemia del termine e la sua elasticità consentono agli studiosi di perseguire differenti strategie prescrittive in base al contesto di riferimento e agli obiettivi che ciascun autore si pone. L’ «eccedenza semantica» del termine sembra essere in effetti un tratto caratteristico dei discorsi dei cultori del diritto amministrativo su questo tema (Zorzetto, S,, La ragionevolezza dei privati, Milano, 2008, 47).
Altro punto discusso in letteratura è se la ragionevolezza sia un principio (nel senso di una norma) o invece uno standard di giudizio, sebbene non sia chiarissima quale sia la posta in gioco rispetto a tale alternativa. Chi insiste su questa seconda opzione lo fa per asserire che l’osservanza del principio di ragionevolezza è diretto a garantire l’accettabilità della scelta non vincolata da norme giuridiche «alla stregua di correnti criteri di valutazione» (Sala, G., op. cit., 209).
Come è già emerso in precedenza, non minori ambiguità sorgono al momento di distinguere il principio di ragionevolezza da quello di proporzionalità (su cui v. Principio di proporzionalità).
Come è stato osservato, il principio di proporzionalità, è entrato, sebbene non da molto (precisamente a partire dalla sentenza del Cons. St., sez. V, 18.2.1992, n. 132) nel «lessico giurisprudenziale, sovrapponendosi ed intrecciandosi in modo confuso e approssimativo col principio di ragionevolezza inteso nel duplice senso di non contraddittorietà e di adeguatezza tra mezzi da adottare e fine da realizzare» (Cognetti, S., Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2010, 168).
La dottrina è divisa sulla autonomia concettuale fra ragionevolezza e proporzionalità (v. Cognetti, S., op. cit., 202 nota 67), ma tende a prevalere l’idea che mentre la ragionevolezza sarebbe un valore sostanziale che evoca concetti come saggezza, equità, giustizia, etc., la proporzionalità sarebbe invece quasi una tecnica, un «metodo di misurazione oggettiva» che «segue regole obbligate che non possono deviare dal loro sviluppo lineare impresso in termini di pura consequenzialità logica» (op. ult. cit., 207).
In genere questo ordine di idee passa per una rigorosa definizione del principio di proporzionalità come test avente una struttura a tre livelli composto da una verifica di idoneità, una di necessarietà e una di proporzionalità stricto sensu della decisione amministrativa. Nel panorama comparato esistono, peraltro, anche test di proporzionalità a quattro o cinque stadi (v. per esempio Elliott, M., Proportionality and deference: the importance of a structured approach” in Forsyth, C.F., a cura di, Effective Judicial Review: A Cornerstone of Good Governance, Oxford, 2010, 264 ss., che fa precedere ai consueti tre la valutazione sull’importanza dell’interesse colpito e quella sulla legittimità dell’obiettivo perseguito).
Nella casistica giurisprudenziale italiana, tuttavia, è molto raro rinvenire un siffatto impiego del principio di proporzionalità. Per lo più è il secondo stadio del test che trova applicazione implicitamente o esplicitamente, vale a dire se la misura amministrativa fosse effettivamente necessaria al perseguimento del fine o non fosse disponibile una soluzione in grado di diminuire o annullare il sacrificio imposto a qualcuno. D’altronde valutazioni di questo genere (si pensi alla sentenza dell’A.P. citata supra § 3) sono a volte operate in termini di “giustizia” o “equità”, e pertanto di ragionevolezza, della decisione. Inoltre, è difficile negare che quando si giunge alla fase del test di proporzionalità in senso stretto – che mira a effettuare un bilanciamento tra benefici pubblici e sacrifici privati e che riguarda perciò propriamente l’esercizio del potere discrezionale – il confine con il principio di ragionevolezza inteso come contemperamento di interessi confliggenti è oltremodo sfuggente (come ammette Barak, A., Proportionality. Constitutional Rights and Their Limitations, Cambridge, 2012, 378).
In una sentenza che si può considerare paradigmatica (TAR Veneto, sez. I, 30.5.2016, n. 568), i giudici osservano in primo luogo che il «principio di proporzionalità dell'azione amministrativa è parte del nostro ordinamento non solo perché compreso tra i principi dell'ordinamento comunitario, ma anche perché insito nella Costituzione ove sia rettamente inteso il principio di buona amministrazione (sic) ex art. 97». Il principio di proporzionalità, ricorda il TAR, impone alla pubblica amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto sia opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato. Quando l'azione amministrativa coinvolga interessi diversi, in particolare, occorre ponderare adeguatamente le contrapposte esigenze al fine di individuare la misura che comporti il minor sacrificio possibile. In questo senso il principio di proporzionalità sarebbe una «regola (sic) che implica la flessibilità dell'azione amministrativa e, in ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità ed alla legalità. In definitiva, il principio di proporzionalità va inteso nella sua accezione etimologica e dunque da riferire al senso di equità e di giustizia, che deve sempre caratterizzare la soluzione del caso concreto, non solo in sede amministrativa, ma anche in sede giurisdizionale. Parallelamente, la ragionevolezza costituisce un criterio al cui interno convergono altri principi generali dell'azione amministrativa (imparzialità, uguaglianza, buon andamento): l'amministrazione, in forza di tale principio, deve rispettare una direttiva di razionalità operativa al fine di evitare decisioni arbitrarie od irrazionali».
Come si vede proporzionalità e ragionevolezza secondo i giudici sono nozioni ampiamente sovrapponibili sebbene siano poste nel brano citato in un ineffabile rapporto di parallelismo. Entrambe fanno riferimento a esigenze di razionalità e non arbitrarietà, che nel caso della proporzionalità vengono specificate nella necessità di limitarsi a misure che siano “opportune” e “necessarie” per conseguire lo scopo. Sullo sfondo campeggia la metafora del bilanciamento e il richiamo al senso di equità e giustizia.
Una separazione netta tra ragionevolezza e proporzionalità è perseguita nel diritto inglese per ragioni di politica giurisdizionale. Con l’erompere della tutela dei diritti umani convenzionali a seguito del Human Rights Act del 1998, attraverso cui l’azione dei pubblici poteri risulta assoggettata a un controllo di proporzionalità in base alla giurisprudenza della CEDU, la relazione tra Wednesbury Unreasonabless e test di proporzionalità è divenuta uno dei temi più caldi.
La posizione delle corti, cui aderisce buona parte della letteratura accademica, è che si tratti di due tecniche di controllo dell’esercizio del potere che riguardano situazioni distinte e che riposano su piani separati. Vale a dire che il principio di proporzionalità, impiegato quando si controverte sulla tutela di un diritto di diretta derivazione convenzionale, non trova applicazione al di fuori di tali ipotesi, ove la manifesta irragionevolezza continua a essere la sola tecnica a disposizione per il controllo della discrezionalità. Il tentativo di una parte della dottrina di far evolvere i tradizionali rimedi di common law nei confronti del potere amministrativo verso lo standard previsto per i diritti umani nella convenzione europea, pertanto, non può dirsi al momento riuscito (v. Anthony, G., Article 6 ECHR, Civil Rights, and the Enduring Role of the Common Law, in Eur. Pub. Law, 19, 2013, 75 ss.; Goodwin, J., The last defence of Wednesbury, in Public Law, 2012, 445 ss.).
La posta in gioco è ancora una volta la profondità del sindacato giurisdizionale sull’azione di governo e pertanto, a ben considerare, tale dibattito, giocato in termini di contrapposizione tra ragionevolezza e proporzionalità, non è tanto diverso da quello che in vari paesi, tra cui l’Italia, divide la dottrina tra fautori di un sindacato debole e fautori di un sindacato forte sul potere discrezionale.
Art. 97 Cost.; l. 7.8.1990, n. 241.
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