RAI - RADIOTELEVISIONE ITALIANA
(App. IV, III, p. 146)
Con la riforma della RAI, dopo il 1975, in soli quattro anni l'intero settore dei media in Italia subì un mutamento radicale, con un profondo rinnovamento nella cultura e nelle strategie della comunicazione. In quello che si può ormai chiamare il suo stadio ''maturo'' (dagli anni Cinquanta fino all'inizio degli Ottanta), la televisione si era presentata come un sistema di offerta via etere rivolta a un pubblico di massa e, tuttavia, rigorosamente rinchiusa nei confini nazionali.
In Europa infatti (dove esiste e agisce una storia stratificata, un rapporto stretto tra potere e società, una complessità sociale sconosciuta negli USA), lo stato non rinuncia al controllo di uno strumento tanto importante nella formazione della pubblica opinione e nella trasmissione di valori e conoscenze: da qui, sulla linea indicata dalla britannica BBC negli anni Venti, la costituzione di concessionarie di un servizio pubblico in regime di monopolio, garantite da un canone e incaricate di gestire una programmazione non rivolta tanto all'inseguimento del massimo ascolto, quanto gelosa delle minoranze e consapevole di un compito di grande responsabilità.
È su questa base che si era sviluppato in Italia un modello di programmazione che recintava in spazi dichiarati la pubblicità e predisponeva a priori un'offerta volta a equilibrare i macrogeneri dell'informazione, dello spettacolo e dell'educazione. Il sistema della telediffusione (tv broadcasting) era organizzato come una struttura autosufficiente, che si occupava di tutto il ciclo, dalla produzione al consumo, evitando deliberatamente scambi e sovrapposizioni con altre fabbriche, a cominciare da quella del cinema.
All'inizio degli anni Ottanta, con il proliferare di radio e televisioni commerciali private al di fuori di qualsiasi legge, lo scenario era mutato: da un lato si era interrotta la tradizione del monopolio e si era affermato il sistema misto, dall'altro, irrompevano le ''nuove tecnologie''. Il pluralismo interno, che la televisione pubblica si era data con il varo di nuovi canali e una strategia di decentramento, non bastava più. La società stava infatti alzando i livelli di consumo, riorganizzando i rapporti tra tempo libero e tempo di lavoro, intensificando le dinamiche delle mode e dei modelli di comportamento, mentre nell'industria e nella distribuzione commerciale si era formata una riserva di capitale da investire nella comunicazione, una volta che si fosse compreso che la circolazione delle merci passava anzitutto per il circuito immateriale dell'immagine e dell'informazione. Fu questo il serbatoio, la leva potente che consentì di scardinare il principio del monopolio: anche per la televisione arrivava il mercato e, con esso, competitori agguerriti che si contendevano ascolti e utenti di pubblicità, esattamente sulla falsariga di quanto già era accaduto da decenni in America, da cui non a caso provenivano grandi quantità di programmi per alimentare i voraci palinsesti commerciali.
La novità costrinse i servizi pubblici di radiotelevisione a ripensare compiti e funzioni. In modi diversi, a seconda delle tradizioni culturali e politiche dei vari paesi, le televisioni pubbliche erano chiamate a ricodificare il broadcasting alla luce di un sistema che aveva di fatto rovesciato il rapporto tra domanda e offerta. Con velocità diverse da una nazione all'altra, si riorganizzarono le strutture aziendali e si prese atto che il dogma dell'autosufficienza era finito per sempre.
In Italia, tre diversi fattori avevano caratterizzato il sistema tradizionale del broadcasting nella televisione monopolistica della RAI. Innanzitutto la sua separazione dal circuito economico, con una risorsa pubblicitaria fortemente minoritaria e controllata, gestita con precisi limiti di ordine merceologico e di programmazione. In secondo luogo una forte connotazione educativa, sottratta alla dittatura dell'audience (criterio del ''teleascolto'', con prelievo e calcolo statistico del numero di telespettatori di un determinato programma, o canale, o rete, ecc.), o meglio, dove l'aumento del consumo era assicurato da un prodotto già venduto prima ancora di essere diffuso (attraverso un canone che fino agli anni Settanta rappresentava il 75% delle entrate della RAI). Infine, un mercato di tipo protezionistico dove la riserva del broadcasting allo stato impediva la presenza di altri soggetti, sia nazionali che stranieri. Caratteristiche, queste, che autorizzarono un atteggiamento di tipo dirigistico da parte dei governi avvicendatisi per decenni nell'Italia postbellica.
L'idea di una radiotelevisione pubblica fondata sulla funzione culturale di servizio entrava dunque in crisi per cause oggettive, in Italia e nel mondo. Nel periodo monopolistico la radio e la televisione si erano rivolte a un pubblico omogeneo, con il quale il rapporto era di generale affezione e di continua crescita qualitativa e quantitativa. Con la nascita di nuovi soggetti, che in breve tempo si erano organizzati e avevano assunto precise identità, si scopriva l'esistenza di tanti pubblici con caratteristiche, gusti e interessi sempre più frammentati, e che la scolarità di massa e il benessere economico ha resi anche più attenti ed esigenti. Una domanda culturale così diversificata e cresciuta non avrebbe mai potuto trovare nella televisione monopolistica il proprio soddisfacimento. In secondo luogo, nel breve perdurare dell'assetto monopolistico riformato, il servizio pubblico si era proposto come il garante della libertà di espressione e del pluralismo. Con il sorgere di una situazione di concorrenza sembrava però che gli spazi di libertà e di pluralismo fossero da questa assicurati più e meglio del monopolio. In terzo luogo, non appariva scandaloso che la legittimità della riserva allo stato del diritto di diffusione circolare dei messaggi, in base alla nozione giuridica di interesse generale, potesse essere applicata anche a tutte quelle imprese che avessero voluto esercitare, con regole definite e condivise, il medesimo servizio.
Il sorgere delle radiotelevisioni private e la crisi della RAI. - La radiotelevisione degli anni Ottanta si può descrivere sinteticamente così: da un lato un servizio pubblico che doveva continuamente ricercare la propria identità e combattere per la sua sopravvivenza minacciata da molteplici fattori di cambiamento; dall'altro, una televisione privata, che aveva assunto subito una fisionomia originale, quantomeno merceologica, che lottava anch'essa per la sua affermazione, ma che finiva per assumere una posizione di monopolio commerciale inversamente proporzionale alla perdita di monopolio culturale e istituzionale del servizio pubblico.
Il servizio pubblico, in Italia, non era più in grado − di fronte all'espansione nel mercato elettronico, alle modificazioni delle caratteristiche del consumo e del comportamento degli utenti − di corrispondere a una situazione così profondamente mutata, e le nuove opportunità offerte da un sistema di libera concorrenza dovevano essere sfruttate fino in fondo proprio per favorire libertà e pluralismo. Ebbe inizio quindi una lotta concorrenziale tra la radiotelevisione pubblica − che trascorsi i primi anni di eccellente riscossa si era tutta ripiegata in difesa di una immagine statica dell'ente radiotelevisivo − e il gruppo privato che era riuscito, per l'abilità di un imprenditore come S. Berlusconi (v. in questa Appendice), a conquistare una posizione di assoluto predominio nel mercato dei media. Le numerosissime proposte di legge nate in poco tempo con il preciso scopo di normalizzare il settore rimasero tuttavia solo proposte. L'assenza di regolamentazione divenne in realtà una scelta precisa di politica industriale. Si possono distinguere due fasi in questo processo: la prima (1976-79) caratterizzata dalla veloce proliferazione delle radio e delle televisioni a carattere locale, nonché dal susseguirsi di numerosi progetti di regolamentazione legislativa; la seconda (1980-84) segnata dalla formazione di un solo gruppo privato, la Fininvest di S. Berlusconi, egemone nel panorama dell'industria televisiva nazionale.
Dopo il 1979 e fino al 1985 il ritmo di incremento degli investimenti pubblicitari nella televisione privata salì da 42 miliardi, che rappresentavano il 6% della spesa globale, a 1350 miliardi, cioè il 34% della stessa. L'ingresso dell'iniziativa privata nel settore radiotelevisivo coincise con la scoperta delle potenzialità dello sfruttamento della pubblicità locale, fino a quel momento rimasta in una zona d'ombra rispetto ai mezzi classici della grande pubblicità (stampa, radio e televisione pubblica, cinema, affissioni, ecc.): accedere al mezzo radiotelevisivo privato diventava conveniente per il piccolo e medio utente − negozianti, piccole e medie imprese artigiane o industriali −, che vedeva il proprio prodotto subito reclamizzato nel proprio territorio. Per es., a tale scopo, la Nielsen, una società attiva fin dagli anni Sessanta e che si occupava delle rilevazioni per gli investimenti pubblicitari, suddivise il paese in quattro aree di rilevamento.
Lo sforzo finanziario sostenuto dagli inserzionisti permise di sostenere economicamente la programmazione delle varie emittenti le quali, carenti sotto il profilo tecnico e produttivo, delegavano alle concessionarie di pubblicità anche l'approvvigionamento dei programmi. Queste ultime iniziarono così a entrare in partecipazione azionaria con altre stazioni, formando il nucleo base di quelle che, di lì a poco, sarebbero diventate vere e proprie reti, con una fisionomia molto simile al sistema americano dei networks (reti di emittenti televisive o radiofoniche private, controllate da una proprietà comune o tra loro associate, che trasmettono gli stessi programmi). L'interpretazione estensiva della definizione di ''ambito locale'' contenuta nella sentenza della Corte costituzionale (del 1976) finì per costituire uno stato di fatto difficilmente sgretolabile, dati i cospicui interessi dell'Italia produttiva coinvolti nel fenomeno.
Nella primavera del 1978 il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera acquistò l'intero pacchetto azionario di Telealtomilanese, un'emittente che trasmetteva su tutto il territorio della Lombardia dagli impianti di Cologno Monzese; era prevista una produzione di notiziari e di programmi informativi curata dalla redazione del Corriere d'informazione. In maggio anche S. Berlusconi fondava una propria emittente televisiva, Telemilano, che costituì il nucleo di partenza di ciò che sarebbe diventato nel 1980 Canale 5, una rete che trasmetteva attraverso cassette una medesima programmazione in undici regioni per mezzo di altrettante stazioni locali affiliate in network. Nel corso del 1979 e del 1980 il gruppo dell'imprenditore edile, artefice di Milano 2, si sviluppò con altre società: Videoprogram (centro di produzione), Reteitalia (acquisto e distribuzione programmi), Publitalia (concessionaria di pubblicità).
Fare televisione diventava un affare come un altro, con appropriate regole, obiettivi, strategie: un affare da gestire sfruttando tutte le opportunità offerte dal mercato e tutti i punti di forza che lo scenario esterno riusciva a consentire. La concessionaria di pubblicità del gruppo Fininvest, la finanziaria che raccoglieva tutte le attività dell'imprenditore milanese, fu una delle ultime a comparire sulla scena: la nascita di Publitalia 80 segnò la svolta decisiva nella storia della televisione privata in Italia.
L'inizio degli anni Ottanta, per la RAI riformata, fu invece un periodo segnato da una profonda crisi. Da molte parti si sentiva la necessità di rilanciarne la dimensione d'impresa, dopo che anche i più irriducibili difensori del monopolio si erano dovuti rassegnare all'evidenza dei fatti. L'avvio della riforma aveva coinciso con la stagione politica delle intese e della solidarietà nazionale e la conflittualità sociale sembrò per un momento diminuire, mentre l'innovazione nei programmi e nell'informazione viveva una stagione felice. Poi, con il rapimento e l'uccisione di A. Moro (1978) ebbe inizio un periodo di normalizzazione che fece sentire i suoi effetti anche sulla RAI. Da questo momento si assistette a un preoccupante ripiegamento del servizio pubblico che, preso di contropiede, subì l'offensiva di una strategia all'americana, alla quale non era preparato a rispondere, e sopportò il peso di un condizionamento politico che sempre più sembrava tradire l'ispirazione della riforma.
La necessità di mettere ordine nel settore radiotelevisivo attraverso una legge, era vista come un aspetto inscindibile da quel governo complessivo del sistema di cui l'Italia doveva dotarsi al più presto per fare fronte ai nuovi processi di modernizzazione, alla sfida tecnologica, alla competizione che andava assumendo dimensioni sovranazionali. D'altro canto erano molti coloro che cominciavano a ritenere che la legge di riforma non fosse più in grado di convivere con le nuove strategie. Obiettivo di tutte le forze politiche era comunque il rafforzamento della produzione nazionale italiana pubblica e privata e l'accrescimento della sua competitività internazionale.
Era questa la linea pragmatica e riformistica che di fatto si andava delineando durante gli anni Ottanta. I partiti laici, repubblicani, liberali e socialdemocratici, come buona parte della Democrazia cristiana, erano favorevoli a quello che ormai era denominato ''sistema misto''; mentre il Partito comunista era ancora sostenitore di una concezione francamente conservatrice dei problemi, forse nel timore di vedersi sottrarre posizioni di potere conquistate nella RAI riformata.
Nell'arco di sei anni, dalla pronuncia della Corte costituzionale con la sentenza n. 202 del 1976, il sistema radiotelevisivo italiano aveva subito profondi mutamenti sotto lo sguardo assente del potere legislativo, attraverso regole dettate dall'opportunità momentanea, indicate di volta in volta dalla Corte costituzionale stessa o dalla magistratura ordinaria, ma applicate e interpretate al di fuori di ogni disegno responsabile e affidate al gioco spontaneo delle forze del mercato, sia economico che politico. La legge di riforma, frutto di complesse mediazioni politiche, non era più in grado di governare un sistema velocemente trasformatosi, per ragioni tecnologiche, sociali ed economiche; queste ragioni trovavano nella sede giudiziaria, anziché in quella politico-parlamentare, l'unica via per potersi affermare.
Dopo la nuova sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 1981, il gioco tornava nuovamente nelle mani del potere politico, verso cui tutte le forze in campo − anche quelle un tempo più favorevoli ai ritardi del legislatore e più orientate a sfruttare a proprio vantaggio il vuoto legislativo − si rivolgevano per reclamare certezza sul futuro e decisioni chiare. La Corte lamentava la persistente inerzia del legislatore e suggeriva di affrontare in modo risolutivo il problema della regolamentazione delle televisioni private, in particolare per evitare la concentrazione dell'industria dei programmi e della pubblicità nelle mani di pochi networks. Manifestamente la Corte tracciava essa stessa le linee portanti di un sistema misto, punto di equilibrio tra servizio pubblico e iniziativa privata. Ma, nell'indecisione delle forze politiche, il vuoto legislativo ancora per molti anni sarebbe stato riempito dall'iniziativa dei giudici. Nell'ottava legislatura, cioè tra il 1979 e il 1983, il governo non riuscì mai a presentare un proprio disegno di legge, eppure alla Camera giacevano ben sette progetti di vari gruppi politici e due al Senato.
Nel dicembre del 1981 il nuovo ministro delle Poste e Telecomunicazioni R. Gaspari, rielaborando un progetto del suo predecessore, il socialdemocratico M. Di Giesi, fece conoscere la bozza di un nuovo disegno di legge in materia, che però non raccolse molti consensi. Critiche di fondo arrivarono dai socialisti e dai socialdemocratici. In particolare sembrava ormai che una legge settoriale non bastasse più. Il PSI era favorevole a una normativa unica per l'insieme del sistema radiotelevisivo, in grado di regolare l'emittenza privata ma contemporaneamente di prevedere un aggiornamento e una revisione della legge di riforma della RAI. Anche nell'area comunista, fino a poco tempo prima arroccata in un'elementare difesa del servizio pubblico, andava facendosi strada una scelta non troppo dissimile.
La RAI stava intanto procedendo al suo riassetto. Il rinnovo della convenzione con lo stato le aveva ridato energia e certezze. Risalgono alla prima metà del 1982 l'approvazione di un importante documento sull'informazione, che tendeva a garantire giornalisti e utenti; il varo di un nuovo palinsesto più agile e in grado di far fronte alla nuova situazione di mercato; un piano di rilancio della radiofonia. Lo sviluppo rapido e generalizzato della radio privata aveva segnato un rilancio complessivo del mezzo. La radio era il terreno privilegiato per una nuova articolazione del pubblico e per una diversa organizzazione dell'apparato produttivo. A un costante aumento numerico delle emittenti commerciali (se ne contavano 4000) corrispondeva una caratterizzazione qualitativa precisa, nuove concezioni dei palinsesti, strutture diversificate. A pochissimi anni dalla liberalizzazione dell'etere, pur fra tante innovazioni, la concorrenza era riuscita a sottrarre alla RAI circa la metà dell'ascolto medio. Inoltre, sul piano tecnico, la ricevibilità del segnale era peggiorata sia sulla rete in modulazione di ampiezza (AM), sia su quella in modulazione di frequenza (FM), invasa dalle stazioni private locali. Nel 1982, una miniriforma della radio generò due canali con la formula di ''notizie e musica'', Stereouno e Stereodue, nati per contrattaccare la concorrenza ma che ebbero risultati deludenti. Nel 1984 la Commissione parlamentare di vigilanza sulla radiotelevisione si pronunciò nel merito della radiofonia, invitando l'azienda a dare a essa maggiore impulso.
Il processo di ampliamento del sistema dei networks era intanto inarrestabile: a far concorrenza alla RAI non c'era più soltanto Canale 5 ma altre due reti private, Italia 1 di Rusconi e Retequattro di Mondadori. Retequattro era costituita da 23 emittenti, 8 delle quali controllate da Telemond, una società di Mondadori già attiva sul mercato, prima con l'acquisizione di programmi e poi di piccole emittenti televisive. Nel 1982 nacque anche il circuito integrato nazionale EuroTv, costituito da una cooperativa di 28 stazioni. Fu questo il momento in cui il sistema industriale della televisione italiana cominciò a manifestare quei caratteri che ne avrebbero determinato il grande successo di impresa, ma anche l'assoluta anomalia giuridica.
Ben presto il mercato dimostrò di non avere dimensioni abbastanza ampie per alimentare tante reti commerciali nazionali in competizione: l'efficienza della raccolta pubblicitaria diventò così uno dei fattori determinanti di sopravvivenza. Berlusconi, attraverso Publitalia, era l'unico a disporre di uno strumento di acquisizione delle risorse sperimentato ed efficace. La sua supremazia era già scritta nelle cose prima ancora che nascessero gli altri networks; e, in un mercato senza regole, non poteva avvenire diversamente. Il primo a cedere, non a caso, fu Rusconi, l'unico dei tre editori che aveva una concessionaria esterna, vale a dire una struttura meno flessibile. Nell'estate del 1982 Rusconi vendette la sua rete alla Fininvest che, battendo sul tempo Mondadori, si assicurò il controllo delle due maggiori reti private nazionali.
La RAI, dal canto suo, era entrata nel pacchetto azionario di Tele-montecarlo, mentre, promossa dal quotidiano Il Giornale, era stata costituita Rete 10 con la partecipazione di Italia 1. Con l'eliminazione dalle scene televisive dei grandi editori (Rusconi, Mondadori e Rizzoli) si è aperta la stabilizzazione del duopolio RAI-Fininvest. Nel trimestre ottobre-dicembre 1981 l'audience media delle reti RAI era di 7.808.000 contro i 5.047.000 totalizzati da tutto il settore privato, con in testa Canale 5 che raccoglieva già 1.390.000 spettatori. Nel maggio dell'anno successivo il network raggiunse il 13% dell'ascolto totale. Publitalia, dal canto suo, triplicò il fatturato e nel 1983 sorpassò la SIPRA (Società Italiana Pubblicità Radiofonica e Affini) con 504 miliardi: sull'intero mercato pubblicitario della televisione (pubblica e privata) Publitalia rappresentava ormai il 43%. Berlusconi disponeva ormai di un terzo dell'audience nazionale ed era il maggior competitore del settore privato. Le elezioni politiche del giugno 1983 costituirono un altro nuovo business per la Fininvest, che vendette spazi di propaganda politica ai vari partiti. Nell'agosto del 1984, dopo la costituzione della SEDIT (Società Editoriale Italiana), una società ripartita al 50% fra Mondadori e Fininvest, Berlusconi possedeva finalmente anche Retequattro.
La crisi dei privati, sempre più forte, combattuta su terreni estranei alla RAI, stava comunque trascinando il servizio pubblico in una rincorsa affannosa della programmazione dei grandi networks. Un processo di progressiva omologazione dell'offerta televisiva era ben visibile in tutti i palinsesti, sia dell'ente pubblico che dei privati. Nella storia della sua funzione modernizzatrice la televisione sembrava toccare il suo punto più basso, mentre la rincorsa frenetica a conquistare il primato dell'ascolto e la banalizzazione dei palinsesti mortificava ogni capacità ideativa. La crisi del servizio pubblico era innanzitutto di carattere finanziario. La stagnazione dei proventi, derivanti dal ''tetto'' pubblicitario e da un canone non rivalutato, in un periodo di inflazione molto elevata, e con l'aumento vertiginoso dei costi per acquisti e produzioni, aveva per la prima volta in dieci anni causato un deficit nel bilancio. Alle dannose ripercussioni sul conto economico, determinato dalla concorrenza, si aggiungeva una campagna contro il pagamento del canone. Inoltre, nell'espansione dell'investimento pubblicitario complessivo la televisione, sia pubblica che privata, rastrellava la quota del 49%, di cui solo il 14% era appannaggio della RAI.
Dalla competizione pubblicitaria dipendeva anche quella dell'ascolto. A partire dal 1981 il numero totale dei telespettatori era anch'esso aumentato. Ma i contendenti si gettarono in un vero e proprio scontro sull'audience, combattuto a colpi di annunci e controannunci sui risultati dell'ascolto.
Gli strumenti di rilevazione, per la radio l'ISAR (Indice Statistico di Ascolto Radiofonico) e per la televisione l'ISTEL (Indice Statistico per la Televisione), funzionanti attraverso sondaggi telefonici, registravano l'andamento dell'ascolto di quarto d'ora in quarto d'ora. Le contestazioni sui risultati, ovviamente, erano all'ordine del giorno. Nell'autunno del 1983 l'ISTEL aveva annunciato che Canale 5 aveva, per la prima volta, nel corso di una serata sorpassato nell'ascolto cumulativo la RAI, con 8,1 milioni di telespettatori contro 7,3 milioni di Raiuno. In ogni caso, in sei anni si era assistito alla quadruplicazione del numero dei telespettatori che seguivano le televisioni private e a una diminuzione di circa un terzo di quelli che seguivano le reti RAI. L'insieme del settore televisivo privato, secondo i dati ISTEL, era passato in testa con il 56% contro il 44% del servizio pubblico. Da parte sua quest'ultimo non accettava un'analisi dei dati di ascolto che si sospettava fosse orientata a favore delle reti Fininvest. La RAI sosteneva che il numero medio di persone all'ascolto dei propri canali le dava il primo posto, nonostante un abbassamento sensibile. La ''guerra degli indici di ascolto'' sarebbe continuata ancora per molti mesi e avrebbe trovato uno strumento imparziale nel giugno del 1984 con la costituzione dell'Auditel. Dal gennaio 1983 il servizio pubblico mise a punto un proprio sistema audiometrico di derivazione britannica, il Meter, molto simile al francese Audimat: un decodificatore collocato su 1800 televisori di altrettante famiglie campione registrava le variazioni del telecomando.
Per quanto riguarda la RAI, il rilancio dell'informazione e della politica dei programmi, la sperimentazione di nuove tecnologie − tra cui Televideo, in concorrenza con il Videotel della SIP − l'introduzione di un nuovo modello gestionale di contabilità industriale, e il grande sviluppo dell'informatizzazione dei servizi furono alcune delle misure più importanti introdotte per ottenere una combinazione ottimale tra risorse produttive e massima efficacia operativa.
Nell'ottobre del 1984 alcuni pretori decisero di oscurare le reti Fininvest in tre diverse regioni, Lazio, Piemonte e Abruzzo. Il ricorso al decreto governativo si rese necessario per riaprire le stazioni oscurate. Decaduto per scadenza dei termini, ne venne emanato un secondo, il 6 dicembre, poi convertito nella l. n. 10 del febbraio 1985. Una legge certamente favorevole alla Fininvest, che modificava anche alcune regole riguardanti la RAI, aumentando i poteri del direttore generale, limitando quelli del Consiglio di amministrazione (al quale erano state in realtà assegnate dalla l. 14 aprile 1975 n. 103 competenze così estese e capillari da essere diventate fortemente in contrasto con l'agilità necessaria a un'azienda che doveva operare in regime di concorrenza). Di questa legge si sarebbe avvantaggiata ampiamente la Fininvest per tenere sotto controllo eventuali velleità di far nascere un terzo polo televisivo, soprattutto dopo l'acquisto di Telemontecarlo da parte della brasiliana Rede Globo. La legge obbligava a mantenere la situazione di statu quo fino all'approvazione di una normativa generale su tutto il sistema radiotelevisivo. Era comunque un elemento di stabilizzazione, ancorché momentaneo, nello scontro tra servizio pubblico e polo privato, anche perché si annunciava finalmente un progetto di legge, l'ennesimo, che il nuovo ministro delle poste A. Gava si era impegnato a far approvare al più presto.
Agli inizi del 1985 fu inoltre creata la Federazione radio e televisioni, che raggruppava le televisioni e le radio locali e nazionali private, fra le quali le reti di Berlusconi, Euro Tv, Rete A e Tele Elefante. Il primo contratto collettivo di lavoro normalizzava infine il settore privato della radiotelevisione. Solo con la SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) restava aperto un contenzioso che le reti private si sarebbero mostrate sempre riottose a conciliare. La stabilizzazione era il risultato di differenti fattori. Innanzitutto la crescita complessiva dell'industria dell'audiovisivo. In dieci anni le entrate pubblicitarie erano arrivate vicino ai 2500 miliardi (900 di canone, 530 di netto pubblicitario RAI, 1000 di netto pubblicitario per i privati). Le spese per la produzione oltrepassavano ormai quelle per gli acquisti: la Fininvest arrivava a oltre 200 miliardi superando probabilmente la RAI e portando il totale italiano vicino ai 430 miliardi. Comprendendo anche la produzione pubblicitaria e quella per le sale cinematografiche il fatturato complessivo dell'industria audiovisiva italiana aveva ormai una dimensione di circa 720 miliardi.
Inoltre un accordo del marzo 1986 tra la Fininvest e le associazioni di categoria UPA (Utenti Pubblicità Associati) e ASSAP (Associazione Italiana Agenzie Pubblicità a servizio completo), che raccoglievano rispettivamente gli utenti e le agenzie di pubblicità, portò a una limitazione degli spot pubblicitari al 16% durante il prime time (fascia oraria dalle 20 alle 22, in cui l'audience è più alta) e al 18% negli altri orari di programmazione. Nello stesso mese la Commissione parlamentare di vigilanza fissava il nuovo tetto di pubblicità per la RAI aumentandolo del 6% rispetto al 1985 (636 miliardi). L'affollamento massimo era stabilito al 10% per il 92,5% delle trasmissioni giornaliere e al 15% per il restante 7,5%. Nel quadro giuridico ''provvisorio'' delineato dalla l. n. 10 del 1985, una sentenza della magistratura romana aveva dichiarato legale, alla fine di quell'anno, l'interconnessione di contenuto, mediante cassette registrate, su scala nazionale.
L'industria dei media evolveva verso importanti modificazioni. Berlusconi diventava proprietario del quotidiano Il Giornale; siglava un accordo con la società Telespazio (proprietà divisa fra IRI, STET e RAI) per l'utilizzazione − durata cinque anni − di due canali dell'Intelsat (International Telecommunications Satellite Consortium), e per l'uso di una stazione mobile con la collocazione di 14 parabole nelle sedi regionali, mettendosi così in grado di trasmettere in diretta non appena la legge glielo avesse consentito. Nasceva intanto il network Odeon TV e prendeva il via Italia 7, una syndacation (consociazione di emittenti locali) strettamente collegata con la Fininvest. La Publitalia sostituì la SIPRA per la pubblicità di Tele Capodistria e si costituì il circuito Cinquestelle, che vedeva una forte partecipazione della RAI.
La RAI, dal canto suo, aveva provveduto alla nomina dei nuovi dirigenti delle consociate che presentavano preoccupanti disavanzi: 8 miliardi circa di deficit per la ERI; 1 miliardo e 376 milioni per la Fonit Cetra; 9 miliardi e 532 milioni per la SACIS. Solo la SIPRA presentava un utile di 45 milioni. Nell'autunno del 1987 la guerra dell'ascolto vide la RAI vittoriosa, con un incremento generalizzato del suo pubblico che in tre anni era passato da 9.585.000 spettatori nel prime time a 10.216.000 nel 1989. L'incremento di ascolto della RAI era da individuare nel consenso crescente che la terza rete era riuscita a ottenere passando dal 3,6% di ascolto del 1987 all'8,4% del 1989. Il pubblico mostrava di premiare politiche editoriali definite e fortemente innovative, identità di reti forti, con un marcato ancoraggio al sociale e ai problemi della collettività. Anche dal punto di vista della struttura produttiva interna la terza rete venne parificata alle altre e messa in grado di agire a tutto campo nei confronti della concorrenza.
La nuova legge sull'emittenza radiotelevisiva. - Nell'aprile 1988 la forte ripresa della RAI apparve nuovamente un ostacolo all'egemonia di Berlusconi. Il ministro repubblicano delle poste O. Mammì era in procinto di definire un nuovo progetto di legge. Nacque in questo contesto la proposta dell'''opzione zero'' (chi possiede quotidiani non può possedere TV e viceversa) dichiaratamente incostituzionale. Questa proposta era il frutto di un nuovo accordo tra i partiti della maggioranza. Il suo scopo era di creare una situazione di vantaggio praticamente illimitato per il gruppo Fininvest, espellendo definitivamente altri concorrenti da una competizione con nuove regole che avrebbe assicurato il nascere di un reale pluralismo economico. Questo accordo servì a evitare che la Corte costituzionale, che da più di un anno lavorava per preparare una sentenza contraria ai trust privati della televisione italiana, prendesse una nuova decisione. Ancora una volta Berlusconi otteneva la garanzia di proteggere la sua posizione dominante, mentre gruppi editoriali concorrenti erano invitati a restare fuori gioco. Nel giugno 1988 il Consiglio dei ministri approvò il testo del disegno di legge elaborato da Mammì che aboliva la regola dell'opzione zero e confermava la norma antitrust (massimo tre reti televisive per ciascun operatore). La legge istituiva la figura di un garante per l'editoria e la radiotelevisione. Pochi mesi prima il presidente della Corte costituzionale, F. Saja, in una conferenza stampa aveva fatto appello al parlamento affinché venisse varata la legge di regolamentazione. Da quel momento la Corte si riservava la facoltà di mettere fine autonomamente all'inerzia legislativa nel caso in cui questa si fosse protratta ancora troppo nel tempo. Nel luglio 1988 la Corte costituzionale, con una nuova sentenza, legittimava ancora la provvisorietà della l. n. 10 del 1985 ma richiamava all'ordine il potere legislativo perché varasse al più presto una regolamentazione centrata sulla libertà di concorrenza, sul pluralismo e sulla trasparenza. In realtà la Corte, secondo la polemica dichiarazione delle piccole emittenti riunite nell'ANTI (Associazione Nazionale Televisioni Indipendenti), aveva "deciso di non decidere". Nella sentenza era stato annullato solo il concetto di ''opzione zero''. Il disegno di legge Mammì subì comunque un'ulteriore battuta d'arresto. Si apriva inoltre un lungo braccio di ferro parlamentare sulla vicenda del tetto pubblicitario.
Fra lo stato e la RAI venne firmata la nuova convenzione della durata di sei anni. La convenzione insisteva sul ruolo dell'azienda nell'introduzione e nello sviluppo dei nuovi servizi come contributo allo sviluppo del paese. Da almeno un decennio la sfida delle nuove tecnologie, dalle trasmissioni via satellite alla televisione ad alta definizione, era al centro del dibattito. Grazie al satellite Olympus la RAI iniziava una sperimentazione di programmi in diffusione diretta ma l'alta definizione restava ancora un obiettivo assai lontano.
Dal punto di vista giuridico, sulla legge pendeva la spada di Damocle dell'intervento della Corte costituzionale, che avrebbe potuto abrogare la legge del 1985 nel caso in cui il legislatore non fosse intervenuto prima dell'inizio del 1990.
L'entrata della Ferruzzi Finanziaria in Telemontecarlo, con l'acquisto del 40% della rete dietro corrispettivo di 80 miliardi, sembrò far nascere di nuovo l'ipotesi di un terzo polo televisivo. Al contrario, la Fininvest aveva già posto le premesse per uscire vincente anche nella competizione che si sarebbe accesa intorno alla rete televisiva a pagamento prevista dalla legge. Eliminati tutti i competitori, utilizzando le maglie assai larghe di una legge concepita quasi a immagine e somiglianza di un duopolio perfettamente bilanciato (la cosiddetta ''pax televisiva'' da tutti auspicata), anche la pay tv (cioè la possibilità di ricevere il segnale di un'emittente, previo pagamento di un canone e applicazione di un decodificatore all'apparecchio televisivo) diventò appannaggio del gruppo Fininvest con Telepiù, il nuovo network varato in piena estate (tre reti con lo stesso marchio), subito dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della l. n. 223 del 5 agosto 1990. Il polo pubblico aveva iniziato una strategia di distribuzione molto diversificata del prodotto, comprendente anche l'homevideo (programmi registrati in videocassette e commercializzati), in particolare quello scolastico ed educativo, il Teletext (televideo, servizi informativi in videoscrittura, accessibili mediante telecomando), e inoltre la possibilità di introdurre la televisione a pagamento e la diffusione diretta da satellite.
Un primo dato generale in quel periodo riguardava il fatto che in ogni fascia oraria, a eccezione della notturna, la RAI risultava vincente sul gruppo Fininvest. Prima fra tutte le reti italiane, Raiuno aveva un pubblico assai stabile, anche se dal 1987 al 1989 passava dal 27% del totale al 26,2. Nello stesso periodo Raidue andava dal 14,5% al 13,8. Al contrario Raitre saliva dal 3,6% all'8,4. Le reti Fininvest subirono una flessione maggiore: Canale 5 dal 23,5% al 19,7; Italia 1 dal 13,1% all'11; Retequattro dall'8% al 7.
Dal 1988 la RAI aveva ulteriormente esteso l'arco quotidiano delle sue trasmissioni e, in particolare, l'offerta ''netta'' di programmi, riducendo a una sola ora la distanza con la Fininvest, mentre nel 1987 la distanza era di 5 ore. Si trattò di un incremento qualificato di trasmissioni (la televisione del mattino) con un rapporto più diretto con la realtà del paese, sia nazionale che locale. I dati sull'audience mostravano di premiare la terza rete, che presentava una percentuale di ''spettacolo'' assolutamente inferiore alle altre due (37,4% rispetto al 49,7 di Raiuno e al 60,9 di Raidue). La tendenza alla diminuzione dello spettacolo era comune infatti al polo pubblico e al polo privato. L'incremento dell'informazione invece fu tale che, per la RAI, si passò dal 25,3% al 30,6 e, per la Fininvest, dal 4,7 al 7,4%.
La radiofonia pubblica e privata. - Sul versante della radiofonia, nel 1990 fu varato un piano di rilancio. La quota dell'ascolto dei programmi RAI era scesa dal 40 al 30%. La società Audiradio si occupò dei rilevamenti: il mezzo aveva avuto 25 milioni di ascoltatori giornalieri nel 1986 e fino al 1990 un andamento stazionario. Nel 1992 gli ascoltatori ammontarono a 30 milioni e 500 mila. All'interno del totale la RAI aveva mantenuto un sostanziale vantaggio rispetto alle radio private fino al 1986, ma subì nel 1987 il primo sorpasso. Nei due anni successivi l'ascolto RAI scese a 12 milioni di ascoltatori, salvo poi risalire in coincidenza con la grande campagna informativa sulla situazione della Guerra del Golfo.
Nei primi anni Novanta, sulla dozzina di emittenti che possono dirsi nazionali, le radio d'intrattenimento sono otto. Tra di esse cinque (Rete 105, Radio Montecarlo, Dimensione suono, RTL. 102,5 e One-o-One Network) si rivolgono pressoché alla stessa fascia di giovani e giovani-adulti (24÷34 anni) pur con diverse sfumature di stile e di programmazione. Delle altre tre, due si sono collocate come radio per giovani-giovanissimi (11÷24 anni), trasmettendo prevalentemente musica da discoteca di provenienza estera, ma una di queste (Deejay Network), che per prima aveva individuato con decisione questo particolare segmento di pubblico, sta da tempo contaminando la formula iniziale fino ad assomigliare sempre di più alle radio del primo gruppo. Invece operando una decisa segmentazione dell'ascolto Italia Network si è ritagliata una consistente fetta di pubblico giovane e giovanissimo (644 mila ascoltatori nel giorno medio), con una scelta musicale molto precisa e settoriale, tutta centrata sulla musica da discoteca. Il successo più clamoroso è quello di Radio Italia, solo musica italiana, vincitrice assoluta dell'edizione del premio Audiradio 1992 con 1.694.000 ascolti nel giorno medio. Nel panorama delle radio commerciali, una nota a parte merita il fenomeno SPER (Società Pubblicità Emittenti Radiofoniche), il circuito di emittenti formatosi all'inizio degli anni Ottanta per impulso di una concessionaria specializzata nel settore radiofonico, creata dall'editoriale L'Espresso. Dopo una crescita lenta e difficile, e dopo l'acquisto del 50% del capitale di Radio Deejay, la SPER nel 1991 aveva in concessione circa 350 emittenti locali per le quali raccoglieva pubblicità.
Il terzo soggetto − dopo la radio pubblica e quella privata commerciale − è rappresentato dalla radio comunitaria. Questo tipo di emittenza non ha scopo di lucro e si rivolge a un pubblico raccolto sulla base di orientamenti comuni, di convinzioni condivise, politiche o religiose, o altro. Nel 1992 le radio comunitarie in Italia sono state circa 600, suddivise in tre reti nazionali, molte emittenti regionali e una moltitudine di stazioni con bacini di utenza limitati. Alcune si sono consorziate per scambiare servizi e prodotti all'interno di syndacations locali, come previsto dall'articolo 21 della legge Mammì.
Televisione e film. - Il genere della produzione artistica e industriale, che più caratterizza quella che con un termine in voga comincia a essere definita ''neotelevisione'', è il cinema. Fino a un certo momento della loro storia fra questi due mezzi di comunicazione è esistita una differenza chiara e distinta: da una parte il grande schermo, con i suoi tempi di produzione e di distribuzione, e anche di consumo, le sue mitologie; dall'altro il televisore domestico in bianco e nero, con la sua iniziale, discreta invadenza nella famiglia, la sua presenza nello spazio della casa. Ma senza dubbio nell'esercizio della sua funzione narrativa la televisione ha giocato la partita vincente. Gli anni Ottanta sono stati il periodo in cui l'esito di questa partita è apparso finalmente chiaro. L'integrazione tra cinema e televisione si è realizzata sul terreno di quest'ultima, nei palinsesti e nelle strategie di selezione dell'audience, prima ancora che nelle strategie produttive e negli interventi legislativi. Il film non è più un'opera accanto ad altre opere, come il teatro, lo sceneggiato, la lirica, il concerto. Il film entra nella dimensione televisiva ed è obbligato a rispettare le regole del central story telling system ("il sistema centrale narrativo"), che sta alla base della supremazia della televisione rispetto agli altri media.
Per quanto riguarda la RAI, nel graduale ampliamento delle fasce di programmazione, sull'offerta globale, passata da 11.087 ore del 1982 alle 15.606 del 1987, l'incidenza effettiva dei film era pari al 13,9%. Nel periodo del monopolio, dal 1954 al 1976, il servizio pubblico metteva in onda un centinaio di film l'anno. Nel 1977 improvvisamente venne superata la quota dei 200 film. Fu anche l'anno dell'ultimo accordo fra la RAI e le associazioni dei produttori e dei distributori; dopo di allora il vuoto legislativo non risparmiò più alcun settore. Nel 1981 venivano trasmessi ormai più di 400 film l'anno e nel 1987 il numero era arrivato a circa 1300, cioè a una quantità equivalente alla metà di tutti i film che la RAI aveva trasmesso in tutto il periodo in cui aveva operato in regime di monopolio. Fino al 1976 si trasmettevano due film alla settimana, nel 1987 più di tre film al giorno. Fra i 1300 film della RAI e i 1770 trasmessi dalla Fininvest il pubblico poteva disporre di ben otto film al giorno, solo sulle reti maggiori. In uno dei momenti più accesi della concorrenza fra pubblico e privato, le prime visioni televisive di film in prima serata in un intero trimestre erano state 30 per la RAI e 45 per la Fininvest. Anche dal punto di vista finanziario la crescita era stata esponenziale. Dai 50 milioni necessari per l'acquisto di un film nel 1980 si passò alla fine del decennio a costi che potevano arrivare anche a 2 miliardi.
Sul fronte privato, Reteitalia, la società che coordinava la produzione del gruppo Berlusconi, dichiarava già una produzione di 60 ore di fiction (film, telefilm, telenovelas, ecc.) nel 1986, per un investimento di 50 miliardi di lire, salite a 120 ore nel 1987 con un investimento di 120 miliardi. Dalla stessa società vennero anche coprodotti 70 film nel periodo 1987-88 per un investimento di 150 miliardi di lire; altri 50 film erano previsti nel biennio 1988-89. Reteitalia disponeva di un catalogo comprendente 90 mila ore di programmi, 8 mila film e 20 mila episodi di telefilm. La fiction televisiva è dunque ormai oggetto di un notevole processo di rivalutazione anche da un punto di vista culturale in quanto specchio della realtà e portatrice di modelli di comportamento. Per la stagione 1990-91 la RAI ha dedicato all'offerta di fiction il 96,30% sul suo volume di programmazione globale, contro il 74,70 delle reti Fininvest. Queste percentuali così alte indicano non solo la necessità di corrispondere al gradimento e alle attese del pubblico, ma soprattutto esprimono la qualità della funzione ''narrativa'' nelle consuetudini della programmazione che è destinata a conservare un posto fondamentale per la sua capacità di interpretare la realtà del paese e del mondo.
Le nuove tecnologie. - Il videoregistratore consente ormai anche in Italia di programmare in assoluta libertà il proprio consumo di cinema. Non a caso un'offerta di grande qualità viene messa in onda nelle ore serali inoltrate, o addirittura di notte. In questa grande area nuova di mercato, come abbiamo visto, la Fininvest è arrivata per prima, con i programmi della televisione a pagamento.
Con lo sviluppo e la diffusione delle ''nuove tecnologie'' elettroniche, per la televisione si è chiusa una fase e se ne è aperta un'altra destinata a ridefinire equilibri e gerarchie nel sistema dei media. Non si può leggere l'ormai decennale impegno sperimentale di un servizio pubblico come la RAI senza contestualizzarlo nel processo più ampio che negli anni Ottanta iniziò a trasformare radicalmente il rapporto triangolare fra tecnologie, comunicazione e società e, quindi, a ridefinire il ruolo dei servizi pubblici radiotelevisivi.
Satelliti e pay tv diventano responsabili di alcune caratteristiche strutturalmente innovative del sistema. La televisione a pagamento, grazie alla possibilità di criptaggio del segnale per i non utenti, rappresenta per gli operatori economici della telediffusione una fonte alternativa di risorse: con un ritorno certo e commisurato alla quantità dell'utenza, consente di trasmettere canali monotematici − cinema, sport, musica − senza pubblicità e per fasce mirate di abbonati. Il satellite condivide con la pay tv l'impostazione ''dedicata'', ma aggiunge altri elementi. Se infatti moltiplica la quantità dei canali e cancella i limiti tecnologici della trasmissione via etere, per altro si rivela uno strumento polifunzionale che consente anche di diffondere programmi in alta definizione (o negli standard di ''televisione migliorata'', compatibili con l'attuale parco di ricevitori), dati e radiofonia. Con, in più, l'asso nella manica del multilinguismo, essenziale per una tecnologia che abolisce naturalmente i confini artificiali tra un paese e l'altro e può coprire un intero continente. Ultima arrivata è la televisione interattiva, che consente direttamente l'intervento dell'abbonato e si apre quindi a un'offerta merceologicamente molto interessante di nuovi servizi.
Il nuovo assetto aziendale. - Per effetto della nuova l. n. 206 del 1993 i presidenti di Camera e Senato hanno nominato il nuovo consiglio di amministrazione della RAI, composto da cinque membri, nel giugno dello stesso anno. Questo fatto ha segnato l'inizio di un rapido processo di riorganizzazione aziendale, di riposizionamento strategico, di abbattimento dei costi. I centri di spesa sono stati ridotti a 24 con una forte concentrazione delle attività decisionali. Sono state create nuove macrostrutture, per i palinsesti e per la fiction, che hanno affiancato il lavoro delle reti televisive. La riorganizzazione ha interessato in modo particolare la radio, con l'unificazione delle tre reti (Radiouno, Radiodue e Radiotre) in un'unica Direzione Programmi, e dei tre giornali radio in un'unica testata per l'informazione radiofonica. Sul fronte privato, dopo che S. Berlusconi è diventato presidente del Consiglio nell'aprile 1994, si è posto un problema delicatissimo di compatibilità fra il suo alto incarico e la proprietà di un vasto impero televisivo. Nel luglio 1994 il Consiglio di amministrazione della RAI è stato rinnovato su nomina dei nuovi presidenti di Camera e Senato.
La programmazione televisiva ha raggiunto nel 1993 un totale complessivo di 31.948 ore, di cui 26.020 a diffusione nazionale e 5928 a diffusione regionale e locale, contro le 31.239 dell'anno precedente (25.083 a livello nazionale, 6156 a livello regionale e locale). A queste cifre vanno aggiunte le trasmissioni sperimentali via satellite per 1290 ore (la sperimentazione ha avuto termine il 30 giugno 1993, dopo 3 anni e mezzo) contro le 4125 del 1992, e quelle dei servizi Televideo, pari a 8760 ore (8784 nel 1992). L'insieme della programmazione nazionale si è così ripartita sulle tre reti: Raiuno 8500 ore (8784 nel 1992), Raidue 8760 ore (8784), Raitre 8500 ore (7515). Nel 1993 l'informazione televisiva nazionale - comprensiva delle trasmissioni sportive − si è sviluppata per 2083 ore su Raiuno, 1634 ore su Raidue e 2553 ore su Raitre, per un totale di 6270 ore pari al 24,1% della programmazione (nel 1992 erano state rispettivamente 2213, 1641 e 2366 ore per complessive 6620 ore, pari al 24,8%). Le trasmissioni televisive regionali hanno totalizzato 5928 ore (contro 6156 nell'esercizio precedente).
Nel 1993 la radio ha diffuso globalmente 55.229 ore di programmi così ripartite: 19.219 sulle tre reti nazionali (di cui 6356 ore Radiouno, 6293 Radiodue e 6570 Radiotre) più 10.174 di trasmissioni stereofoniche, 14.939 in diffusione regionale e 10.897 ore di programmi per l'estero. L'anno precedente la radiofonia aveva totalizzato 59.897 ore: 19.098 sulle tre reti nazionali (rispettivamente 6368, 6138 e 6592) più 10.185 in stereofonia, 19.428 regionali e locali e 11.186 per l'estero. I programmi informativi radiofonici a diffusione nazionale, presenti anche nelle trasmissioni stereofoniche con notiziari flash, hanno totalizzato 4333 ore pari al 22,5% dell'intera programmazione (4176 ore per un'incidenza del 21,9% nel 1992).
L'ascolto televisivo 1993 nell'arco dell'intera giornata (dalle ore 2 fino alle 2 successive) si è così ripartito: RAI 45,21%, Fininvest 44,74%, altre 10,05% (mentre i dati per il 1992 erano stati: RAI 46,18%, Fininvest 43,04%, altre 10,78%). Per quanto riguarda invece il prime time 1993 i dati dell'ascolto sono così articolati: RAI 47,98%, Fininvest 43,83%, altre 8,19% (nel 1992 erano così riportati: RAI 47,29%, Fininvest 43,37%, altre 9,34%).
Gli abbonamenti, a fine esercizio 1993, ammontavano a 15.675.302, con una densità per 100 famiglie pari al 79,31%, contro i 15.267.171 del 1992 (densità 77,24%). Il personale in organico a tempo indeterminato risultava, al 31 dicembre 1993, costituito da 12.713 unità contro le 13.158 del 1992 (con una riduzione di 445 unità). Il fatturato RAI, nel 1992, era di 3630 miliardi di lire.
Il panorama radiotelevisivo italiano vede, nel 1994, oltre alle 12 reti nazionali − le 3 reti RAI comprese − 644 televisioni e 1762 radio private che hanno ottenuto la licenza provvisoria da parte del ministero delle Poste e Telecomunicazioni.
Bibl.: Radiotelevisione pubblica e privata in Italia, a cura di P. Barile, E. Cheli e R. Zaccaria, Bologna 1980; F. Iseppi, G. Richeri, Il decentramento radiotelevisivo in Europa: la terza rete TV e la ristrutturazione della radiofonia pubblica in Italia, Milano 1980; G. Bechelloni, L'immaginario quotidiano: televisione e cultura di massa in Italia, Torino 1984; Rai, la televisione che cambia, a cura di R. Zaccaria, ivi 1984; Questioni di storia della radio e della televisione, a cura di A. Bellotto, G. Bettetini, Milano 1985; P. Musso, G. Pineau, L'Italie et sa television, Parigi 1990; Commissione Parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, Nuove tecnologie e internazionalizzazione della televisione, Roma 1991; F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia: società, politica, strategia, programmi: 1922-1992, Venezia 1992; V. Di Dario, Pippo, Mike & Raffaella: la televisione italiana dagli esordi ai giorni nostri, Milano 1992; W. Veltroni, I programmi che hanno cambiato l'Italia: quarant'anni di televisione, ivi 1992; F. De Vescovi, L'immagine e lo specchio: viaggio nell'economia della pubblicità e della televisione, Roma 1992; M. Gambaro, F. Silva, Economia della televisione, Bologna 1992; R. Barberio, C. Macchitella, L'Europa delle televisioni: dalla vecchia radio alla TV interattiva, ivi 1992; R. Grandi, I mass media fra testo e contesto: informazione, pubblicità, intrattenimento, consumo sotto analisi, Milano 1992; G. Richeri, La TV che conta: televisione come impresa, Bologna 1993; S. Balassone, A. Guglielmi, La brutta addormentata: TV e dopo, Roma 1993; E. Menduni, La radio nell'era della televisione, Bologna 1994.