D'ARONCO, Raimondo Tommaso
Nacque nella frazione di Godo, comune di Gemona (Udine), il 31 ag. 1857, da Girolamo e Santa Venturini, primogenito di otto figli.
Girolamo Da Ronco, figlio di Tommaso e di Maddalena Boezio, era nato a Gemona il 31 agosto 1825. Fu progettista e costruttore. Era titolare di una fabbrica di marmi artificiali; i figli Quinto, Vigilio e Giobatta seguirono le sue orme e continuarono l'attività dell'impresa familiare.
Fra il 1858 e il '60 Girolamo curò l'ampliamento e la nuova sistemazione del santuario di S. Antonio da Padova a Gemona, per il quale il figlio Raimondo realizzò un altare (1888). Nel 1867 costruì il teatro Sociale di Gemona e fra il 1877 e l'82 la chiesa e il campanile di Bressa di Campoformido. Dal 1880 al '90ampliò la chiesa di S. Marco a Mereto di Tomba, per la quale Raimondo, contemporaneamente agli interventi paterni, progettò cinque altari in stucco bianco e in stile rinascimentale, realizzati prima del 1890.Girolamo realizzò poi il campanile di Sedegliano (1896-1901);diede anche i disegni per la nuova chiesa parrocchiale di Terenzano (Udine) e per una vetrina di negozio in via Pelliccerie a Udine (cfr., Roma, Bibl. d. Ist. d. Encicl. Ital., A. De Alisi, Le arti figurative nella Venezia Giulia e nel Friuli, ms. [sec. XX], s. v.).
I rapporti fra Girolamo e il D. spesso non furono buoni: una lettera datata 9 ott. 1903, inviata dal padre al D., suscitava una dura e risentita risposta (13 ottobre) di quest'ultimo (Lettere..., 1982, p. 149).Comunque il D. mantenne sempre rapporti coi fratelli e con la ditta del padre: questa infatti fu l'appaltatrice dei lavori di allestimento dell'Esposizione regionale di Udine, iniziati nel marzo del 1903 e conclusi nel luglio seguente.
Girolamo morì a Udine il 29 giugno 1909.
Il D. frequentò dal 1867, e solo fino al secondo anno, la scuola di arti e mestieri della cittadina natale; ben presto, per l'indocilità del carattere (era soprannominato Attila), appena quattordicenne, fu portato dal severo padre a Graz, in Stiria, per far pratica nel mestiere di muratore. Attraverso una durissima disciplina e frequentando la locale scuola di costruzioni, un istituto tecnico di buon livello, s'impossessò del mestiere. Nel 1874, diciassettenne, il D. ritornò in Friuli; venne inserito nell'impresa paterna e nominato "soprastante a' lavori". Il 6 giugno 1875 si aggiudicò il premio di primo grado per l'invenzione e "per aver ben meritato in diligenza e profitto" presso la scuola festiva di disegno per adulti di Gemona.
Al rifiuto del padre di lasciarlo frequentare una scuola politecnica, decise di allontanarsi dalla famiglia, cosa che fece, forse negli ultimi mesi del '75, entrando, come volontario, nel corpo del genio militare di stanza a Torino. Congedatosi, s'iscrisse, il 13 nov. 1877, all'accademia di belle arti di Venezia, avvalendosi della protezione del conte Valentinis. Poco dopo si recò anche a Roma, ma dovette ripartirne ben presto per la morte della madre. A Venezia seguì gli insegnamenti di G. Franco, sotto la cui guida conseguì il diploma nel 1880: il 14 agosto dello stesso anno gli venne rilasciata la "patente di abilitazione del disegno nelle scuole normali, tecniche e magistrali". Il 31 maggio dell'anno seguente riportò "il secondo premio di II grado per la classe di Architettura nel concorso a premi di incoraggiamento per l'anno 1880 bandito dal ministero della Pubblica Istruzione" (Freni-Varnier, 1983, p. 197).
Vinti i relativi concorsi, il D. si aggiudicò un posto di professore nell'istituto teorico pratico di Massa Carrara (La Patria del Friuli, 28 maggio 1881) e, quindi, la cattedra di disegno nell'istituto tecnico di Palermo (1883-85). Nel 1885 fu invitato a ricoprire l'incarico d'insegnamento del corso di disegno presso l'istituto tecnico F.A. Bonelli di Cuneo; dal novembre dello stesso anno fu anche titolare della cattedra di "disegno d'ornato e plastica" nella scuola serale e domenicale d'arte e mestieri, ospitata nel medesimo istituto. Nel settembre del 1886 il D. si dimetteva dal suo incarico a Cuneo, dopo aver vinto il concorso per una cattedra di disegno e architettura all'università di Messina, dove insegnò per sei anni. A Cuneo aveva conosciuto Rita (Catterina Maria Teresa) Javelli, che divenne sua moglie l'11 luglio 1888.
Il 15 maggio 1888 ottenne il primo riconoscimento ufficiale: fu eletto accademico d'onore all'accademia di belle arti di Venezia.
Frattanto il D. aveva iniziato la sua attività professionale, prendendo parte a importanti concorsi, dove guadagnò buone posizioni. Al 1880-81 risale la partecipazione al concorso Vittadini di Milano per una fontana monumentale; un progetto per un monumento ai caduti in difesa di Venezia nel 1848-49 e uno per un teatro diurno furono pubblicati a Firenze in Ricordi di architettura, la rivista diretta dall'ing. G. Roster (rispettivamente nel 1882, fasc. 8, tav. V, e nel 1881,fasc. 11, tavv. I, II).
Fu però solo nel 1882 che il D. si affacciò alla ribalta nazionale, presentando assieme all'ing. P.P. Quaglia un progetto, che ricevette menzione, al concorso per il palazzo di Giustizia di Roma (vinto da G. Calderini).
Fra il 1880 e il 1889 il D. guadagnò alcuni successi e sperimentò, fra neoclassicismi e neomedievalismi, le proprie risorse compositive, rimanendo però ancor molto lontano da quello stile che ne connoterà l'opera matura. Nel 1882 vinse il concorso Vittadini, patrocinato dalla milanese accademia di Brera, per la porta Tenaglia a Milano. Nel 1883 ottenne una menzione e una medaglia d'argento al merito (diploma 20 dic. 1884) per il suo progetto al secondo concorso internazionale per il monumento a Vittorio Emanuele II a Roma, che scadeva il 15 dic. 1883 (tre disegni si conservano presso la Bibl. Glemonense a Gemona: il disegno dell'alzato è ripr. in Nicoletti, 1982, p. 44 fig. 11).
Temi circoscritti come padiglioni, cappelle cemeteriali, tombe, monumenti commemorativi, attrassero il giovane D. in questi anni, dedicati ad esperire un linguaggio e a definire le linee della sua professionalità. Testimoniano incursioni in ambiti stilistici diversi un progetto di padiglione da giardino a Gervasutta (Udine, 1882),un disegno di cappella per il cimitero secondario di Milano (altro concorso Vittadini, 1884) e due monumenti commemorativi, uno al concorso per un monumento ai caduti sotto le mura di Velletri (1886) e un altro per quello, di dimensioni gigantesche, commemorativo della battaglia di Calatafimi (disegno nov. 1886). Nel 1887 siaggiudicò il concorso a inviti per la facciata dell'edificio per l'Esposizione nazionale artistica di Venezia. Questa sua prima architettura effimera fu realizzata sul bacino di S. Marco ai Giardini di Castello (catal., 1982,p. 41, ill.) e smontata alla chiusura della mostra. Il D. abilmente svicolò da ogni prova di confronto con l'ambiente circostante, affidandosi gioco astratto di un classicismo fra grecizzante e pompeiano. A una decorazione di derivazione pompeiana aveva già fatto ricorso in un progetto della sala del palazzo degli studi di Udine nel 1883 (Ricordi di architettura, VI [1883], fasc. 4, tavv. I, II).
La sua prima importante realizzazione non venne però che nel 1889, con la costruzione del cimitero di Cividale (restaurato nel 1970), dove egli dimostrò il raggiunto controllo degli elementi della progettazione in stile: il romanico-gotico a strisce, tanto amato da G. Franco e anche da C. Boito. Si avventurò ancora nel neomedioevalismo - in questo caso il neogotico - allorché partecipò ai concorsi del palazzo del Parlamento a Roma (1889) e del cimitero di Treviso; ma nel progetto di ossario per Palestro (1891) si dimostrò allineato con il linguaggio corrente; così fu anche, sebbene con maggiore audacia, nel disegno per un monumento ai caduti di Dogali (1891) da innalzarsi a Roma o in Africa (Freni-Varnier, 1983, p. 95). Al 1892 risale la prima uscita del D. sulla scena europea: prese parte al concorso internazionale per il nuovo ponte sulla Neva a Pietroburgo.
I suoi rapporti con Torino, nel frattempo, erano abbastanza frequenti, e non solo per via della moglie piemontese. Una fittissima corrispondenza tra Messina e Torino, con il giovane architetto torinese A. Rigotti (diplomatosi nel 1889), allievo, e collaboratore poi, di C. Caselli, testimonia i legami di amicizia e di lavoro fra i due. Il D. vinse nel 1890 il concorso per la facciata della prima Esposizione di architettura a Torino e partecipò con un progetto al concorso per il nuovo ponte Maria Teresa sul Po presso il Valentino, sempre a Torino. Ancora nella città subalpina maturò la sua grande occasione: per interessamento e mediazione di E. Balbo Bertone, conte di Sambuy, a lungo sindaco di Torino, e dell'ambasciatore italiano presso la Porta, L. Avogadro di Collobiano Arborio, il D. venne messo in contatto con la corte di Costantinopoli, dove si trasferì nel 1891 come architetto del governo ottomano e personale del sultano Abdül Hamit II, e dove, sino al 1907, svolse la parte più importante della sua attività progettuale, in un paese crocevia di esperienze diverse.
Abitava ad Arnaut Köy sul Bosforo ed aveva studio professionale nel celebre quartiere di Pera. Il sultano gli concesse anche la dignità di bey. Ebbe anche l'incarico di docente di architettura militare presso la locale accademia. I progetti e le realizzazioni a Costantinopoli portano il segno di due marcate divisioni: una relativa all'evoluzione fra i primi e gli ultimi anni e l'altra secondo le scelte di stile.
Soprattutto le opere del primo quinquennio rivelano, e si può essere in certo modo d'accordo nel giudizio, un "sincretismo quasi fremebondo di forme, stilemi, assonanze della più disparata origine" (Nicoletti, 1982, p. 61).
Il primo lavoro in cui il D. si impegnò (1893) fula progettazione dell'Esposizione nazionale ottomana dei prodotti agricoli e industriali. Per l'adempimento dell'incarico, prestigioso ma gravoso, volle con sé, come aiuto, il Rigotti (che ritornò a Torino nel 1896). Approntati i disegni, nulla venne realizzato a causa del disastroso terremoto dell'anno successivo. La progettazione di un'architettura che doveva essere altamente rappresentativa, sebbene effimera, offrì al D. pretesto di manipolazione di stilemi europei e ottomani ecletticamente giustapposti.Il sultano Abdül Hamit II aveva eletto a propria residenza il palazzo e il parco di Yildiz, su una collina dominante il Bosforo. Lo Yildiz Sarayi (palazzo della stella) è composto di molti edifici e padiglioni, tra i quali un teatro, serre, gallerie, una fabbrica di ceramiche terminata nel 1897, un elegante edificio in mattoni e marmo bianco, isolati o collegati da porticati o passerelle, sparsi nel folto del parco, ai quali il D. lavorò tra il 1893 e il 1900 (v. ill. in catal., 1982, pp. 60, 62-67). Contemporaneamente, in qualità di architetto del governo, poneva mano alla progettazione, e in molti casi alla realizzazione, di una nutrita serie di edifici pubblici per la capitale ottomana. Al 1894-1900 risalgono i disegni per un grande orfanotrofio a Maci Badem (catal., 1982, p. 61). Rimangono otto disegni di un nuovo complesso collegio della Scuola imperiale d'arti e mestieri (1895; ibid., p. 68) e due per il Corpo di guardia sulla riva di Galata (1897; ibid., p. 78), progetti rimasti sulla carta; non realizzati furono anche quelli per l'edificio della Lista civile sempre sulla riva di Galata, (1897; ibid., p. 80). Comunque, fra gli edifici pubblici costantinopolitani del D., la realizzazione massima fu l'ampia Scuola imperiale di medicina sulla collina di Haydarpasa, sulla riva asiatica, presso Scutari, nel 1895-1900 (ibid., p. 69).
Il complesso fu progettato con la collaborazione di A. Vallaury, architetto francese al servizio della Sublime Porta e professore presso la locale scuola di belle arti, e fu risolto usando elementi della tradizione ottomana piegati a uno schema funzionale moderno. Molto riuscito all'intemo l'ardito scalone.
Fra gli altri progetti per edifici pubblici curati dal D. in questi anni, si ricordano quelli per una moschea a Yenimahalle sulla riva europea del Bosforo (1899; ibid., pp. 87 s.); per una fontana monumentale a Damasco in Siria (1899; ibid., p. 86); per una colonna in ferro e granito, a celebrazione dell'inaugurazione della linea telegrafica Hegiaz-Mecca (1900; ibid., p. 92); per l'Istituto batteriologico e per il mattatoio di Harem Iskelessi entrambi per Costantinopoli (1900; ibid., pp. 93 ss.): tutte idee rimaste sulla carta.
A Costantinopoli realizzò la nuova fontana di Tophane (1896; ibid., p. 74), garbata ripresa del canonico modello di fontana turca, il restauro della fontana Mehmet presso S. Sofia (1896; ibid., p. 75) e il ministero dell'Agricoltura e museo dei Giannizzeri nel quartiere di Stanbul (1898; ibid., p. 84), anche quest'ultimo in stile ottomano, modificato in seguito, restaurato nel 1940 e oggi in via di ripristino dopo un incendio del 1977. Fece interventi di restauro in molti famosi monumenti danneggiati dal terremoto del 1894.
Nel frattempo non mancavano contatti con l'Italia e l'Europa: già nel 1896 numerosi suoi progetti furono esposti alla Triennale (Brayda, 1896); nel 1900, recatosi a Parigi per visitare l'Esposizione universale, il D. vi conobbe l'austriaco J. Olbrich; nel marzo di quell'anno, a Vienna, dove si era recato "per procurarsi materiali di produzione industriale, come prova la tavola con dettagli costruttivi della Scuola di medicina" (Freni-Varnier, 1983, p. 39), ebbe modo di vedere architetture moderne e di prendere contatti con gli ambienti più avanzati della capitale austriaca. Partecipò, da Costantinopoli, a vari concorsi banditi in patria: ottenne indiscutibile notorietà prendendo parte con due progetti a quello per la prima Esposizione di arte decorativa moderna a Torino (1902; catalogo, 1982, pp. 98-109).
Il concorso, bandito il 18 febbr. 1901, lasciava ai partecipanti tempi molto ristretti, scadendo il 6 aprile dello stesso anno. Fra le condizioni si esigeva la copertura di circa diecimila mq al parco del Valentino. Il D. stese la propria idea, contrassegnata col motto "Rita 2", a Costantinopoli, in soli diciotto giorni di appassionata concentrazione. I concorrenti furono undici: al D. toccò il primo premio, il secondo ad A. Rigotti. La giuria chiamò giustamente ambedue gli architetti alla compilazione del progetto esecutivo.
Sia nel programma di massima, sia nell'esecutivo, il D. diede il meglio di sé, facendo così entrare la cultura del modernismo in una manifestazione ufficiale altamente rappresentativa. Curò infatti personalmente l'elaborazione dell'esecutivo (giunse a Torino il 23 apr. 1901), volendo anche dirigere i collaboratori a lui affiancati, il Rigotti e il pittore G. Vacchetta. In venti giorni l'esecutivo era pronto: al D. fu anche assegnata la direzione dei lavori, che egli volle, stanti i suoi impegni a Costantinopoli, fosse passata al Rigotti. Nella prosecuzione dell'impresa, la sua pretesa di controllare ogni cosa e di sindacare l'operato dei colleghi e collaboratori generò malintesi e aspri contrasti.
Comunque, pur in notevoli difficoltà, la vicenda si concluse con un riconosciuto successo: anche se in una occasione effimera come una esposizione temporanea, il nuovissimo stile moderno, Liberty o floreale come fu detto in Italia, ebbe la sua presentazione al più vasto pubblico e il D., in certo modo, venne considerato capofila del nuovo gusto. Nell'esposizione torinese, se i riferimenti primari del gusto erano più viennesi che altro, e se memorie dell'opera del francese H. Guimard erano più o meno clandestinamente presenti, italiano e inedito fu lo smalto dei colori fiammanti e della decorazione. I padiglioni della musica e della fotografia ne erano, al di sopra di tutto il resto, fiera e sicura testimonianza.
Negli stessi mesi in cui il D. a Torino seguiva l'allestimento dell'esposizione, il Consiglio comunale di Udine decideva di programmare una esposizione regionale. Il D. accettò di buon grado, anzi con entusiasmo, l'invito, e dette inizio alla progettazione a Costantinopoli nel luglio 1902.
Nei disegni forniti (cfr. catal., 1982, pp. 112-20), il D., che fra l'altro non volle personali compensi, raggiunse esiti molto interessanti, ma, superando di gran lunga il preventivo iniziale, pregiudicò la realizzazione dell'impresa, date le ristrettezze economiche in cui si dibatteva il comitato promotore: dei molti padiglioni previsti venne costruito solo il palazzo delle belle arti, di cui fu travisato però alquanto il progetto. Tutto il resto finì per essere fatto alla bene e meglio da artisti friulani. Il D. ne rimase fortemente contrariato, tanto da scrivere in tono risentito: "quella lì non è opera mia, non arte ma un'indecenza" (12 sett. 1903; Freni-Varnier, 1983, p. 149). A Udine, oltre ai ricordi viennesi, qui di nuovo presenti, fanno la loro comparsa, in alcuni episodi della decorazione dei padiglioni, esotismi mutuati dall'Estremo Oriente, con motivi assimilabili a temi giapponesi.
In altri concorsi il D. andò spesso incontro a insuccessi, ogni volta risentendone grande amarezza. Il suo progetto per il cimitero di Mantova, redatto per il concorso dell'estate del 1903, non fu nemmeno classificato (catal., 1982, pp. 121 s.). Sempre nello stesso anno prese parte al concorso per la palazzina dell'Associazione mineraria sarda ad Iglesias: dai disegni (catal., 1982, pp. 123 ss.) si evince un notevole sforzo per la articolazione degli spazi; il tutto è connotato da precise istanze di novità, un progetto antiprospettico e antisimmetrico, in un assetto funzionalistico. Ancor maggiori virtuosismi compositivi sono nel progetto dello châlet Fhirbuty a Davero (oggi Devero) in Val d'Ossola (catal., 1982, pp. 126-28). E nel luglio del 1903, da Costantinopoli, il D. iniziò la progettazione della casa per la sua famiglia a Torino, la realizzazione della quale si protrasse fin oltre il 1906 (ibid., pp. 129 s.).
Costruì una bella casa a due appartamenti, tra le vie Marengo e Petrarca e corso Sclopis presso il Valentino. In essa, nonostante insorgenti difficoltà finanziarie, diede una delle sue prove migliori, sia per l'accuratezza dell'impostazione distributiva e planivolumetrica, sia per raffinate soluzioni di gusto in interni ed esterni. In questa, che avrebbe dovuto essere la sua vera dimora, il D. abitò pochissimo; a Torino il più delle volte fu ospite in casa Rigotti, anche dopo il suo rientro in Italia.
Nel 1904 stese uno dei progetti più spregiudicati: quello per la cappella funeraria della famiglia Camavitto, nel cimitero di Udine (catal., 1982, p. 141) con una impostazione più moderna rispetto ad altre sue analoghe prove, quali la tomba Javelli D'Aronco (1897; ibid., p. 77) nel cimitero di San Rocco Castagnaretta (Cuneo) e quella per la famiglia D'Aronco a Udine (1898, ibid., p. 82). E per Udine e sempre dalla Turchia, inviò nel 1907 il progetto della sede della Banca cooperativa cattolica prevista in piazza Petrarca (ibid., p. 178): un altro lavoro senza esito; l'edificio fu costruito tre anni dopo su disegni di L. Taddio. Allo stesso anno risale un progetto per un padiglione, forse palazzo per esposizioni, a Genova, redatto in uno stanco neobarocco.
Se le sue comparse progettuali per l'Italia dimostrano esitazioni, ripensamenti e, si può dire, stanchezza e sfiducia, estremamente brillanti appaiono la produzione progettuale e le realizzazioni del D. in Turchia nei primi otto anni del sec. XX, seconda ed ultima parte del suo lungo soggiorno costantinopolitano. Dal 1900 diventò l'architetto preferito della committenza privata di alto rango, lavorando per esponenti sia della società ottomana sia di quella levantina.
All'inizio del nostro secolo certo signor Botter di origine olandese, sarto del sultano Abdül Hamit II, si fece da lui costruire una casa con negozio di mode e sartoria, con annessi laboratorio e magazzino, e abitazione ai piani superiori (catal., 1982, p. 96).
Casa Botter fu progettata fra il dicembre 1900 e l'aprile 1901, e presto realizzata sulla grand rue de Péra, l'attuale Istiklâl Caddesi, che era allora la principale arteria della città levantina e moderna. Essa è ancora attualmente in buono stato ed è una delle architetture più complete del periodo più felice del D'Aronco. Per lo stesso Botter, questi realizzerà nel 1906 anche un villino per villeggiatura a Fenerbahçe sulla costa asiatica del Mar di Marmara, incautamente demolito qualche tempo fa (cfr. catal., 1982, pp. 166 s.).
E ancora il D. realizzò una serie di residenze a Costantinopoli, lungo le rive del Bosforo e del Mare di Marmara per personaggi in vista (cfr. catal., 1982). Ad Arnaut Köy, dove lo stesso D. viveva e dove si era sistemato una residenza, progettò nel 1903 e poi costruì, per l'allora ministro degli Interni del governo turco, Memduh Paşa, un curioso edificio a uso di biblioteca e sala per collezioni, oggi in stato di abbandono, un'opera molto curata e ben riuscita, ricercata nel gusto dei particolari e ardita nella soluzione compositiva (catal., 1982, pp. 154 s.).
Per un altro personaggio di spicco, il ministro della Guerra Riza Paşa, progettò nel 1906 uno svelto ed elegante padiglione da erigersi sulla collina di Çamlica dominante la riva anatolica e sopra Scutari (ibid., p. 174): un'altra incursione in linguaggi di moda a Vienna, più affini alla scuola di O. Wagner che non ai motivi della Secessione a lui più consueti, e che rimase senza esito.
Anche nella capitale turca però il D. continuò in quegli anni la sua infaticabile, sotto certi aspetti prodigiosa, attività, giungendo a fornire (1907) nel progetto di ricostruzione della casa per la famiglia Santoro uno dei suoi esiti più indiscutibili, rimasto malauguratamente sulla carta (catal., 1982, pp. 184 ss.).
Destinata a una delle famiglie più prestigiose della comunità italiana a Costantinopoli, fu progettata per un lotto molto allungato e con fronte stradale esiguo, sempre sulla via di Pera. La facciata, alta e stretta, disegnata molto elegantemente, è tutta imperniata su un bow window a più piani, e il D. ne proponeva una veste decorativa con materiali raffinati e costosi: paramento in lastre di marmo chiaro di Marmara con imbullonatura a vista, pannelli sbalzati in rame, maioliche, marmi colorati e ferri battuti. Se realizzata, la casa Santoro avrebbe costituito la vetta della sua ricerca modernista. Non inferiore magistero compositivo il D. dimostrò nei disegni per un'altra casa ad appartamenti prevista al n. 8 della via Anatol (catal., 1982, p. 181).
Negli oltre sedici anni di professione in Turchia, il D. continuò a ricevere incarichi ufficiali, che divennero prevalenti nel periodo 1893-1900.
Ancora per la corte ottomana, fra il 1902 e il 1905, progettò e costruì lo "yali" per la principessa Nazime, figlia del sultano Abdül Aziz, residenza imponente a Bebek sulla riva europea del Bosforo, direttamente affacciata sull'acqua e scomparsa intorno al 1923. Un progetto per il Museo imperiale d'armi (1904) a Costantinopoli non ebbe seguito (catal., pp. 149-53) così come altri per la Loggia per convalescenti e torre dell'orologio dell'ospedale Hamidie nel sobborgo di Şilşi (ibid., p. 176) e per una moschea a Yenimahalle sul Bosforo in Tracia (1906-1908). E da ultimo ricordiamo altri due progetti non realizzati, senza dubbio per il precipitare degli eventi politici nell'Impero ottomano: un nuovo corpo di guardia a Nişan Taşe (1908) e una nuova caserma degli Hamals e alloggio dei macchinisti (1908; catal., pp. 187 ss.).
Tra le migliori prove del D. modernista, appaiono essere la moschea Merzifonlu (1903; catal., 1982, pp. 134 s.), il piccolo complesso costituito da fontana, tomba e biblioteca per il capo religioso Seyh Zafir (1903-1904; ibid., pp. 146 ss.), e la residenza estiva dell'ambasciatore di Italia a Tarabya (1905-1906; ibid., pp. 156-161).
Il complesso edificio, in cui si articolavano, sovrapposte, funzioni di rappresentanza e di residenza diplomatica privata, appare ancor oggi una intelligente contaminazione fra motivi ed elementi desunti dal lessico rinascimentale italiano - dei quali il più dichiarato è il portale bugnato - e la tradizione locale delle ville turche. A quest'ultima riportano infatti la struttura in legno dell'edificio e la sua volumetria coperta dai grandi sporti del tetto (cfr. la relaz. inedita del D.: Descrizione dei lavori di ricostruzione..., in Freni-Varnier, 1983, p. 201).
La moschea Merzifonlu, che sorgeva sulla piazza di Karaköy, da dove si diparte il ponte di Galata (ponte Karaköy-Eminönü), era impostata in modo originalissimo sul secondo piano di uno stabile commerciale preesistente. Con consumata perizia il D. creò una larga base aggettante, quasi un suolo artificiale, da cui fece elevare la piccola moschea a pianta ottagonale con svelto minareto; realizzata in struttura lignea, secondo i metodi tradizionali locali, dei quali il D. si era impossessato, presentava un paramento esterno in sottili lastre di marmo bloccate con bulloni e rifinite con coprigiunti in bronzo dorato, analogamente alla casa Santoro. Questa piccola moschea sorgeva nel punto più famoso e più nevralgico del paesaggio urbano di Istanbul; nell'aprile del 1959 venne smontata e non più ricostruita; il progetto era stato premiato all'Esposizione di Milano del 1906.
Sorte migliore invece è toccata al piccolo articolato complesso con fontana, tomba e biblioteca sulla salita del parco di Yildiz, capolavoro per la maestria dimostrata dal D. nel trattare temi ispirati alla tradizione ottomana - reinterpretandoli con un linguaggio modernista - ancora oggi in stato discreto.
Con altre due opere minori, esistenti, l'orfanotrofio ed asilo per la comunità italiana, voluto e finanziato dalla famiglia Santoro nel 1906 (catal., 1982, pp. 172 s.), e la serra giardino d'inverno per il parco di Yildiz (1907; ibid., p. 182), si chiude l'attività del D. in Turchia.
Al ritorno in Italia (1909) si stabilì di nuovo a Torino, dove il suo riambientamento nella sfera privata e il suo reinserimento nell'ambito professionale si risolsero in un fallimento. Difficoltà con la famiglia, incomprensioni con i committenti e con i colleghi riscoprirono quelle asprezze di carattere che erano state così forti in età giovanile.
Già nel 1906 si era andata profilando una grande occasione per il D.: la progettazione del nuovo palazzo comunale di Udine, per il quale avrebbe elaborato ben 956 disegni e alla fine realizzato l'opera, ma la vicenda fu alquanto complessa.
Fin dal 1888 egli aveva redatto un progetto, che accompagnò con una circostanziata relazione (Nuovo palazzo degli Uffici municipali, Udine 1888) e che fu esposto a Torino nel 1890 e nel '92, dove ottenne la seconda medaglia d'oro. Nel 1906, ancora una volta, fu richiesto un parere al D. e finalmente nell'ottobre del 1908 il sindaco di Udine, D. Pecile, fece pervenire all'architetto, a Costantinopoli, una proposta di incarico che questi accettò entusiasticamente. Nel 1909 a Udine pubblicò il Progetto...,che nel 1911 fu seguito dal Progetto di esecuzione del nuovo palazzo comunale di Udine. Fu approvato dal Comune nell'agosto del 1912, ma la prima pietra era stata posata nell'aprile dell'anno precedente. Lo scoppio della grande guerra fece interrompere i lavori. Solo dopo il conflitto si continuò l'opera; nel 1925 la costruzione poteva dirsi ultimata in linea di massima e nel 1930 vennero compiute le rifiniture dell'interno.
Se dal punto di vista dei problemi di impostazione generale e della cura professionale, l'impresa udinese del D. può ritenersi magistrale oltre che esemplare, quando la si riguarda sotto altri aspetti, si rimane perplessi per l'adozione di un linguaggio da cui sembrano bandite tutte le novità da lui esperite fino a pochissimi anni prima. L'adesione al Liberty scompare per far posto a uno stile storicistico situabile fra '500 e '600: ripiegamento dovuto a disorientamento o forse alle delicate condizioni ambientali. L'autore fu insoddisfatto della sua opera, tanto da definirla nel 1932 "falsa, bolsa, balorda" (Lettere…, 1982, p. 296).
Intanto aveva costruito per il fratello Quinto due case, una a Tarcento (1910 c.), una a Udine in viale Duodo (1911; catal., 1982, pp. 213 s.: questa è una delle più riuscite realizzazioni dell'ultimo D., ed è oggi abitata dalla fam. D'Aronco), e per la figlia Rita D'Aronco Venturini una casa in Roma presso la scalinata della Trinità dei Monti (1917), sapiente nella distribuzione dell'alloggio, connotato da raffinate articolazioni geometriche, dove il D. rivelò capacità di ambientamento nel delicatissimo sito (ibid., pp. 221 s.).
Durante il primo conflitto mondiale riprese, ormai sessantenne, la carriera di docente: il 12 genn. 1917 fu nominato professore di architettura all'istituto di belle arti di Napoli, presso il quale rimase in servizio fino al 1929. Il ritorno in patria sembra coincidere con un ormai irreversibile stato di crisi creativa, crisi anche personale, con indebolimento di una salute già minata negli ultimi anni in Turchia. Il D. appare isolato sia sul piano privato sia su quello culturale. L'unica persona a cui sembra disperatamente attaccato è il Rigotti: la corrispondenza fra i due durerà fino alla morte del D'Aronco.
Le prove prodotte per le partecipazioni ai concorsi nel dopoguerra furono il più delle volte scadenti sul piano dell'ideazione e del gusto, anche se perseguite con passione e accanimento. La maggior parte ebbe esito negativo, anche quando riportavano vittorie: il D. ne fu sempre amareggiato e la corrispondenza col Rigotti rivela momenti di disappunto e valutazioni duramente negative sui contemporanei.
Si ricordano il concorso per il monumento al fante sul Monte San Michele presso Gorizia, nel 1920: spettrale e onirica mole che nei disegni fascinosi appare ara-mausoleo con faro (catal., 1982, p. 220). Ancor meno convincente, nella sua sostanziale sterilità, il progetto per monumento da erigersi "a ricordo dei 300 caduti in guerra degli otto comuni della Slavia italiana" (1918) a San Pietro al Natisone presso Cividale (ibid., p. 223), poi quello per il santuario di S. Antonio a Gemona (1924), dove il D. tentò di recuperare il lessico classicista di un gran tempio cupolato (ibid., pp. 228 s.).
Fra il 1924 e il '29, ancora a Udine, egli eseguì quella che si può considerare la sua ultima e valida architettura: il villino Tamburlini (demolito; ibid., pp. 230 s.). In esso ormai la temperie modernista e Liberty appare remota, si affaccia invece una calibrata adesione a istanze vagamente Art déco, contaminate con elementi neomanieristici.
Solo nella piccola chiesa a Ribis, Udine (1923; ibid., p. 226),annessa al manicomio, il D. sembra ritrovare freschezza di ispirazione, pur nella adozione corretta e spregiudicata a un tempo di motivi desunti dal lessico cinquecentesco montati in una impaginazione inedita. Essenzialità e rigore connotano questa costruzione molto curata nella scelta dei materiali e nella appassionata definizione progettuale dell'interno e degli arredi.
Nel 1904 il D. era stato eletto deputato al Parlamento nazionale nel collegio elettorale di Gemona per la XXII legislatura: alla Camera sedette sui banchi della Destra, fra i costituzionali moderati. Ma l'attività di deputato fu quasi inesistente ed anche il suo programma elettorale era stato di una genericità sconfortante, dichiarandosi egli "fedele alla monarchia" e sostenitore di "quella politica che consente la esplicazione di tutte le più sane energie e per quegli ideali che sono insieme la nostra forza e la nostra fede..." (Il Giornale di Udine, 2 nov. 1904). Non si ripresentò per la successiva legislatura, avendo rinunciato a partecipare alla campagna elettorale del 1909, proprio l'anno del suo ritorno dalla Turchia per lo scoppio della rivoluzione dei Giovani Turchi e la deposizione del sultano Abdül Hamit, suo principale protettore.
Nell'immediato dopoguerra aveva espresso voti in favore dell'irredentismo giuliano-dalmata, firmando a Napoli nel 1918 una dichiarazione favorevole alle aspirazioni annessionistiche di quelle regioni; dopo il 1922,dichiarò la propria adesione al fascismo, prendendone più tardi, nel 1929,almeno occasionalmente, le distanze. Fu comunque uomo di destra, ma più che altro figura dall'immagine stanca, disorientata, avvilita, invelenita contro i colleghi, quasi tutti dispregiati. Di contro, fino agli ultimi anni di vita, sta la grande passione per il disegno e per la progettazione: "si disegnava e si costruiva senza sosta, spesso giorno e notte, in lunghe ore silenziose, misteriose, armoniose, incantate, appena frammezzate - secondo un orario fisso ed a brevi intervalli - dal rito solenne del caffè". (A. Sartoris, Ricordo e figura di R. D., in Atti..., 1982, pp. 20 s.).
Gli ultimi anni trascorsero in un declino costante, dal quale non riuscì a sollevarlo nemmeno la sua attività di docente a Napoli, perseguita peraltro in modo sempre scrupoloso. I suoi ultimi disegni, quelli per la facciata dell'imboccatura della galleria della Vittoria sotto Pizzofalcone a Napoli (1927; catal., 1982, p. 235),non danno nemmeno più la possibilità di distinguere in essi la mano del D'Aronco.
I temi connessi all'insegnamento dell'architettura e il dibattito sulla fondazione delle facoltà interessarono il D. fin dal 1903; nel 1905 futra i fondatori della Federazione architetti italiani, la quale aveva, fra l'altro, il compito di stimolare l'istituzione di scuole di architettura.
Il D. lasciò l'insegnamento nel 1929.Gli ultimi due anni di vita li trascorse fra sofferenze fisiche e spirituali a San Remo, dove si era ritirato e dove morì di enfisema polmonare il 3 maggio 1932.
Per gli scritti del D., oltre a quanto citato all'interno della voce o nel catal., 1982, p. 239,si veda: Ostensorio del duomo di Gemona, in L'Italia, II (1884), pp. 77 ss.; Mole Antonelliana, ibid., IV (1886), pp. 98 s.
Fonti e Bibl.: Per una bibl. completa cfr. Freni-Varnier 1983; ma anche Lettere di un architetto, Bologna 1982. Vedi inoltre: necr., in Il Popolo del Friuli, 4 maggio 1932; Vellino-Velli, R. D.,in L'Italia, III (1885), p. 11; A. Centelli, R. D., in L'Esposiz. naz. artistica illustrata, Venezia, 3 apr. 1887, p. 18; R. Brayda, R. D. architetto, in La Triennale, 1896, n. 8, pp. 59 s.; G. Del Puppo, Di R. D. architetto, in La Patria del Friuli, 24 dic. 1898; Id., Di R. D. architetto, Udine 1899; Id., La chiesa di S. Marco del Friuli, Udine 1902 (anche per Girolamo); C. Someda de Marco, La chiesa di S. Remo, in La Panarie, IV (1927), pp. 291-300; M. Piacentini, R. D.,in Il Popolo del Friuli, 6 luglio 1932; Id., R. D., in Sentinelle d'Italia, 1-2 luglio 1932; D. Torres, Commemorazione dell'architetto R. D., in Atti dell'Accademia di Udine, Udine 1936 (estr.); B. Zevi, Eredità ottocentesca. R. D., in Metron, VI (1950), 39, pp. 50 s.; M. Nicoletti, R. D., Milano 1955; E. Mattioni, Liberty segreto di R. D.,in L'Architettura, I (1956), 7, pp. 42-45; D. Gebhard, R. D. e l'Art nouveau in Turchia, ibid., XII (1966), 8, pp. 550-54; XII (1967), 9: pp. 620 ss.; 10, pp. 690-94; 11, pp. 760-64; F. Tentori, Archit. e architetti in Friuli nel primo cinquantennio del '900, Udine 1970, pp. 56-61, 83 ss.; B. Zevi, Parabola di R. D.; dimenticato il maestro Liberty (7 giugno 1955), in Cronache di architettura, Bari 1971, pp. 388-93; V. Freni, R. D., tesi di laurea, univ. di Roma, facoltà di lettere, a. a. 1972-73; C. Varnier, Catal. ragionato dei progetti di R. D., tesi di laurea, univ. di Padova, a. a. 1976-77; D. architetto (catal.), Milano 1982; R. D. e il suo tempo, in Atti del Congresso internaz. di studi... Udine, Udine 1982 (anche per Girolamo); M. Nicoletti, D. e l'archit. Liberty, Bari 1982;V. Freni-C. Varnier, R. D. L'opera completa, Padova 1983 (con dettagliata bibliografia; pp. 11s. per Girolamo).