Dahrendorf, Ralf. - Nasce nel maggio del 1929 ad Amburgo. Cresciuto sotto il nazismo, ma educato da un padre convinto socialdemocratico, ha tempo di svolgere la sua parte nella resistenza. Consegue la maturità nella Pasqua del 1947, presso la scuola Heinrich Hertz e nel semestre estivo dello stesso anno si iscrive alla Facoltà di filosofia e germanistica dell’Università di Amburgo.
1. Laurea ad Amburgo e post-graduate alla London School
Segue le lezioni del filologo Ernst Zinn e anche di Bruno Snell, ma si laurea nel 1952 con Josef König, professore di filosofia, con una tesi su Marx. Subito dopo realizza il suo sogno di un viaggio in Italia. Nel settembre del 1952 parte per Londra e inizia come post-graduate di sociologia il suo periodo di studi alla London school of economics and politics science. Da Oltre le frontiere. Frammenti di una vita (2002): «Il fatto che io entrai alla LSE doveva rivelarsi, se non proprio fatale, certamente decisivo per il resto della mia vita [...]. Non si può dire che io abbia imparato la sociologia in un qualsivoglia senso sistematico; ma la LSE mi aiutò a penetrare a fondo il mondo concettuale di questa disciplina [...]. Se mai c’è stata un’istituzione che unisce l’alta qualità degli obiettivi alla preoccupazione per i figli degli operai e per altri svantaggiati, questa è la LSE [...]. Sposare l’impegno politico delle persone alla neutralità dell’istituzione era il segreto della LSE nel suo periodo d’oro». Fondamentale, nello sviluppo del pensiero di D. resta il suo incontro con Karl Popper. Confermò più tardi: «Andai in Inghilterra da socialista e ne tornai da liberale».
2. Al Center for advanced study in the behavioral sciences di Palo Alto
Al fine di perfezionare il Ph.D. londinese D., al termine dei due anni alla LSE, sarebbe dovuto tornare un anno dopo. Segue nei mesi di luglio ed agosto del 1954 la sua brevissima ed infelice esperienza come assistente di Max Horkheimer presso l’Istituto di studi sociali di Francoforte. Dal 1954 al 1957 D. è a Saarbrücken, dove all’Università della Saar si prepara all’abilitazione per la libera docenza che ottiene presentando il lavoro dal titolo Soziale Klassen und Klassenkonflikt in der industriellen Gesellschaft (di cui si parlerà nel seguito di queste pagine) e tenendo davanti alla Facoltà una prolusione su Scienza sociale e giudizio di valore. Ottenuta la libera docenza, D. accetta l’invito a trascorrere un anno al Center for advanced study in the behavioral sciences di Palo Alto, in California: «Il Center for advanced study si rivelò un vero paradiso in terra […]. Eravamo tutti felici di avere tempo per leggere, riflettere, conversare e scrivere. Un quartetto di insigni economisti - in seguito tutti premi Nobel - aprirono a me, giovane filosofo e sociologo, prospettive completamente nuove: Milton Friedman, George Stigler, Kenneth Arrow, Robert Solow […]. C’era poi Talcott Parsons, il professore di Harvard che molti già consideravano il massimo teorico vivente della sociologia […]. E ora mi trovavo a essere, come fellow, collega del grand’uomo». Esattamente al Centro di Palo Alto D. elabora le idee destinate a diventare due suoi noti scritti: Pfade aus Utopia (Vie d’uscita dall’utopia) e Homo Sociologicus. Agli inizi del 1958 gli giunge la chiamata alla cattedra di sociologia presso l’Akademie für Gemeinwirtschaft di Amburgo, dove prende servizio in qualità di “signor professore” il 1° maggio del 1958. Successivamente, nel 1960, appena trentunenne, viene chiamato alla cattedra di sociologia di nuova istituzione presso l’Università di Tubinga. E qui nel 1961 organizza il famoso Congresso della Società tedesca di sociologia. A Tubinga resta sino al 1965, quando si trasferisce sempre sulla cattedra di sociologia all’Università di Costanza.
3. Membro del Parlamento tedesco e Commissario europeo
Dalla teoria della politica alla politica attiva, nel biennio 1969-1970 D. è membro del Parlamento tedesco nelle file dei liberali del FDP. «Quando nel 1969 [Willy Brandt] formò il governo federale e rilasciò la prima dichiarazione programmatica (“Vogliamo osare più democrazia”), io caddi ai suoi piedi. Ero sottosegretario parlamentare al Ministero degli esteri guidato da Walter Scheel. “Ci ha pensato bene?”, mi chiese Brandt, quando un anno dopo io andai a Bruxelles. No, non ci avevo pensato, ma Brandt comprese la mia decisione». Un giudizio su Brandt: «Brandt rimase sempre alquanto inafferrabile e indefinibile, proprio come il suo famoso ritratto opera di Meistermann. Ma eravamo legati da lontani ricordi, compresi quelli del movimento operaio, e da non poche affinità di temperamento. Non molto prima della sua morte ci trovammo a volare in un aereo privato da Dresda ad Amburgo, e parlammo come un padre con un figlio adulto delle cose quasi supreme. Non era un liberale, ma un socialdemocratico, per il quale, come per mio padre, la libertà era il presupposto di ogni altra cosa».
Nel 1970, dunque, D. lascia il Parlamento tedesco ed entra, a Bruxelles, nella Commissione europea: «Come commissario europeo per il commercio estero e per le relazioni internazionali ho viaggiato in tutto il mondo, anche se soprattutto per spiegare al governo neozelandese le conseguenze dell’adesione dell’Inghilterra all’Europa o per trattare un accordo di cooperazione con i rappresentanti dei gruppi andini a Lima».
4. Direttore della LSE
Quando Walter Adams lasciò la direzione della LSE D. accettò di subentrargli; dal 1974 al 1984 è stato quindi direttore della LSE - sulla quale ha scritto il libro che egli reputa il suo preferito nell’elenco delle proprie pubblicazioni, la History of the London school of economics 1895-1995. Warden del St. Antony’s College di Oxford dal 1983; cittadino inglese dal 1988; nominato Sir nel 1993; Ralf D. si è spento a Colonia il 18 giugno del 2009.
Un’ultima annotazione. Una passione che ha accompagnato D. lungo tutta la sua vita è stata quella del giornalismo. «Quando a 21 anni mi chiedevano cosa volevo fare da grande, rispondevo: il giornalista. La cosa era ovvia già per via dell’eredità paterna […]. Dunque diventai giornalista e tale rimasi per tutta la vita». E come giornalista l’hanno conosciuto anche i lettori italiani de “La Repubblica”: «La Roma intellettuale l’ho trovata nella “Repubblica” di Eugenio Scalfari […], ma anche del mio editore, Giuseppe Laterza [...]. Eugenio Scalfari a Roma aveva fondato, con “La Repubblica”, un leggibile quotidiano liberale di sinistra concorrente con i quotidiani del Nord Italia. Scalfari congiunge una cultura francese a un sicuro senso delle istituzioni, soprattutto nelle questioni costituzionali, e a una posizione politica social-liberale. Io ho scritto volentieri articoli per il suo giornale».
5. Allievo di Karl R. Popper
Alla London school decisivo per D. fu l’incontro con Karl Popper, il quale «improntò più di chiunque altro» il suo cammino intellettuale. All’inizio non andò tutto liscio: «Lui insegnava nel sotterraneo del vecchio palazzo della LSE. Davanti ad un uditorio piuttosto modesto, questo ometto dal volto marcato spesso saltava eccitato qua e là, soprattutto quando entrava in polemica». Questo ricorda D. in Oltre le frontiere. Frammenti di una vita (2002). E prosegue affermando che, insomma, non era facile sopportare il tono della polemica, tanto che «gli studenti abbandonarono uno dopo l’altro quel corso. Io stavo per seguirli, quando i miei amici mi diedero una spinta, dicendo giustamente: “Non dimenticare che Popper è pur sempre lo studioso più importante della scuola”. Le sue teorie, poi, mi ricordavano in modo sorprendente le mie esperienze di critico testuale: noi ci troviamo davanti a una realtà del tutto difettosa, e tentiamo di sanarla mediante congetture, cioè ipotesi». Si tratta, qui, della teoria unificata del metodo: la ricerca scientifica, ovunque venga praticata - in fisica come in storiografia, o nella critica testuale - si risolve sempre in tentativi di soluzione dei problemi, e quindi in ipotesi da sottoporre ai controlli più severi sulla base delle loro conseguenze. Ma le nostre ipotesi o teorie restano sempre congetturali, sotto assedio. Questa, scrive D. in La società aperta di Karl Popper (in D. Antiseri - R. D., Il filo della ragione, 1994) è la prima grande idea di Popper: «La conoscenza progredisce attraverso la falsificazione di teorie e con la loro sostituzione ad opera di teorie migliori […]. Esperimento ed errore costituiscono il percorso della verità […]. Egli [Popper] ha descritto la scienza come veramente è, vale a dire come un’avventura densa di conflitti. Anche per questo il suo metodo appare oggi pressoché indiscusso all’interno delle scienze naturali e delle scienze sociali esatte». E va da sé - precisa D. - che «chiunque definisca positivistico questo approccio o non lo ha compreso, oppure intende sminuirlo come una questione equivoca».
L’altra grande idea di Popper - fa presente D. - concerne la teoria politica o, se si preferisce, la filosofia sociale. «In un certo senso essa rappresenta il risvolto pratico dell’epistemologia. Anche in politica nessuno conosce la verità. Più ancora, chi afferma di conoscerla ci conduce su pericolosi falsi sentieri. I filosofi-re di Platone, lontani dal costituire modelli auspicabili, sarebbero dei veri tiranni, capaci di erigere il potere sulle proprie, private verità. Ciò di cui abbiamo bisogno non è una società chiusa, in cui qualcuno dia ad intendere di possedere ogni risposta, bensì una società aperta che vive di contrasti e che nasce dalla libertà proprio perché in essa nessuno può permettersi di dogmatizzare le proprie soluzioni». E ancora: «Tra tutti gli autori dell’epoca del totalitarismo Karl Popper è quello che più insistentemente ha dato voce alla contrapposizione rappresentata dal liberalismo illuminista. L’eredità che egli lascia è costituita dalla definizione della società aperta e dalla formulazione del suo significato, ispirata più ad una politica civica che non di partito. È quindi chiaro perché molti politici si richiamino a lui».
6. Fuga dalla Scuola di Francoforte
Il 1° luglio del 1954 D. viene assunto come assistente del professor Max Horkheimer presso l’Istituto di scienze sociali di Francoforte. Al momento della presa di servizio, «il nuovo principale» del giovane assistente, e cioè Horkheimer, era in America; e fu così, allora, che D. venne ricevuto da Theodor W. Adorno, il quale gli affidò subito due compiti: una relazione su una serie di inchieste tra gli studenti tedeschi sul loro atteggiamento nei confronti dell’università e della società, e una analisi su inchieste di “gruppi” relative al tema “i tedeschi e il fascismo”. Ebbene, il primo lavoro «si rivelò non troppo difficile»; per quanto riguarda il secondo, «l’esperimento di gruppo […], tutto sommato non diede particolari risultati, né dal punto di vista del metodo né da quello dei contenuti». Ed ecco uno sferzante giudizio di D. sulla Scuola di Francoforte: «Il leggendario Istituto di Francoforte svolgeva una normale attività di ricerca mediante sondaggi. Quel che di nuovo si tentava risultava inservibile, e quel che era servibile non era gran che nuovo». E questo, commenta D., era soltanto l’aspetto superficiale della più profonda tendenza ad adeguarsi allo spirito dei tempi. Quelli erano gli anni di Adenauer, e «Adorno, e soprattutto Horkheimer, cercavano riconoscimento da parte di un ambiente segnato dall’economia di mercato e dalla scelta di campo occidentale. Ciò significa che essi si andavano distaccando, a passi più o meno impercettibili, dall’atteggiamento di sinistra, addirittura marxista, che veniva loro attribuito».
Dogmatismo, slealtà e maneggi: tre deleteri aspetti, ad avviso di D., della Scuola di Francoforte. Questa era una specie di famiglia che «ti inghiottiva e sgretolava»: «uno solo è riuscito a liberarsi del tutto da quella dipendenza settaria senza diventare un rinnegato: Jürgen Habermas. Per il resto, ancora oggi esistono degli adepti che amerebbero proibire qualsiasi critica della teoria critica». Più in particolare, a proposito di “teoria critica della società”, i Francofortesi - afferma D. - hanno trasformato il chiaro concetto kantiano di critica in una vaga posizione dogmatica, dove non c’è traccia del sondaggio critico dell’esperienza e men che mai un pallido segnale di autocritica; si è trattato «dell’usurpazione del concetto di critica a vantaggio di una società singolarmente chiusa».
Adorno e Horkheimer - si chiede D. - erano soci, anzi amici, oppure no? E ricorda: «Quando chiesi ad Adorno, a proposito della Dialettica dell’Illuminismo, come si faceva a scrivere un libro in due, non esitò a rispondere: “In due? Horkheimer non pubblicava più nulla da parecchio, e allora ho trovato giusto mettere anche il suo nome nel frontespizio. Ma il libro l’ho scritto io”».
Divertenti esempi di slealtà. Meno divertenti erano, però, i maneggi dei direttori dell’Istituto nei riguardi dei più deboli e nel rispetto verso “le presunte esigenze dei tempi”. Così, Heinz Maus, fuggito dalla DDR, venne assunto, «ma a stipendio ridotto e senza visibilità»; Jürgen Habermas «fu minacciato, a quanto pare, da una sorte analoga, con la motivazione che il suo impedimento nel parlare lo rendeva inabile all’insegnamento, e quindi utilizzabile soltanto come ricercatore». E, dal canto suo, D. era stato assunto nell’Istituto perché sostituisse «quel tipo di stupido analista di mercato» al quale era stata affidata l’analisi degli “esperimenti di gruppo”. Ebbene, «andai allora dallo “stupido analista di mercato” - scrive D. - e lo informai che là non aveva futuro, e che molto probabilmente io sarei andato via prima di lui». E così fu: alla fine di agosto, D. lascia «quel luogo ospitale». E già prima della sua partenza, il 17 agosto del 1954, Adorno aveva scritto ad Horkheimer che D. era «la migliore dimostrazione della nostra tesi che, a rigore, dopo di noi ci sarà il deserto».
7. Tubinga 1961: lo scontro tra Theodor W. Adorno e Karl R. Popper
Nel 1961 ebbe luogo a Tubinga il Congresso della Società tedesca di sociologia, che venne aperto dalle relazioni di Adorno (Sulla logica delle scienze sociali) e di Popper (La logica delle scienze sociali). Nella “disputa sul positivismo” tra Adorno e Popper, «io, come padrone di casa, - ricorda D. - mi tenni naturalmente in disparte. Ma la pace regnava tra Popper e me - o piuttosto, dato che la pace sa ancora di sacra famiglia, Popper ed io restammo soprattutto assertori della società aperta».
Adorno esordì, nella sua relazione, mettendo l’accento sui numerosi punti di accordo sostanziale tra lui e Popper. Senonché sia l’esame delle sue relazioni sia la discussione che ne seguì hanno portato a tutta una serie di esempi che mostrano come dietro alle formulazioni comuni di relatori si celino profonde differenze nella sostanza. Questo fa presente D. in Note sulla discussione di K.R. Popper e Th.W. Adorno (in Dialettica e positivismo in sociologia, trad. it., Einaudi, Torino, 1972).
Diverso, infatti, è il concetto di filosofia, perché differente è il concetto di ragione: alle spalle di Adorno c’è Hegel, dietro quelle di Popper c’è invece Kant; “critica” per Adorno è il dispiegamento delle contraddizioni della realtà sociale, per Popper è il controllo più severo delle teorie, incluse quelle descrittive ed esplicative della realtà sociale; Adorno sostiene che natura e storia reclamano metodi diversi di ricerca (“l’oggetto non è indifferente al metodo”), per Popper la situazione è ben diversa: il metodo scientifico è unico e si riduce a tre parole: problemi, congetture e tentativi di confutazione; se Adorno si sente quasi costretto a ritornare al punto di vista degli hegeliani di sinistra (nel senso che “chi si comportasse, oggi, come se si potesse trasformare il mondo domani, sarebbe un bugiardo”), Popper si dichiara «un vecchio illuminista e liberale - un prehegeliano» - «Hegel ha distrutto il liberalismo in Germania»; per Adorno la vera conoscenza è quella della totalità, di conseguenza «la rinuncia della sociologia ad una teoria della società ha carattere di rassegnazione: non si osa più pensare il tutto perché si deve disperare di trasformarlo». Popper, da parte sua, sostiene che le scienze sociali procedono al pari delle scienze naturali, offrendo soluzioni (e mettendole alla prova) dei problemi sociali, economici e politici; per Adorno «i contributi della sociologia empirica sono come gocce d’acqua su un ferro rovente», Popper punta invece alla soluzione dei problemi specifici, nella persuasione che l’eliminazione dei mali e delle sofferenze concrete è il compito urgente di una politica pubblica razionale.
8. Studi sociologici e politologici
Molto vasta è la produzione scientifica di D. (gran parte della quale è apparsa in italiano per merito dell’Editore Laterza). Classi e conflitto di classi nella società industriale esce in prima edizione tedesca nel 1957 e nel 1959 in edizione inglese - edizione riveduta e considerata dall’Autore come «un libro interamente nuovo». La prima parte del lavoro consiste nella confutazione empirica e nel superamento teorico della dottrina di Marx; nella seconda parte viene offerto un tentativo di analisi del conflitto sia in base a considerazioni teoriche (capitoli V e VI) che in relazione alla società post-capitalista (capitoli VII e VIII).
Come è stata possibile la marcia trionfale del nazionalsocialismo nel Paese di Kant e di Goethe? A questa ineludibile e ricorrente domanda D. risponde affermando che «Kant in fondo non è sopravvissuto ad Hegel» e che «la questione tedesca è la questione degli ostacoli che si sono frapposti alla democrazia liberale in Germania», dai tempi dell’Impero ai giorni del dopoguerra. Questa è la tesi di fondo proposta in Sociologia della Germania contemporanea (1965), mentre in Per un nuovo liberalismo (1987), alla luce dell’idea di civil society, intesa in senso istituzionale, vengono affrontati i problemi connessi al futuro dello stato sociale e al futuro del lavoro. Problemi che, almeno in parte, rientrano nel volume La democrazia in Europa (1992), nel quale - pressati dalle domande di Lucio Caracciolo - D., F. Furet e B. Gemerek danno luogo a un confronto sulle prospettive del nostro Continente dopo il crollo del comunismo. Ancora sul destino dell’Europa - e della più ampia comunità internazionale - vertono i saggi raccolti in La società riaperta. Dal crollo del muro alla guerra in Iraq (2004), il cui capitolo VII è costituito dal saggio La quadratura del cerchio (apparso per la prima volta nel 1995). «I Paesi dell’OCSE - fa qui presente D. - hanno raggiunto un livello di sviluppo in cui le opportunità economiche dei loro cittadini mettono capo a scelte drammatiche […]. Il compito che incombe sul Primo Mondo nel decennio prossimo venturo è quello di far quadrare il cerchio fra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica. La quadratura del cerchio è impossibile, ma ci si può forse avvicinare, e un progetto realistico di promozione del benessere sociale probabilmente non può avere obiettivi più ambiziosi».
9. “Erasmiani” in quanto non profeti ma spiriti laici
Del 2006 è il volume Versuchungen der Unfreiheit. Die Intellektuellen in Zeiten der Prüfung (tradotto in italiano con il titolo: Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo). «La figura di Erasmo da Rotterdam - scrive D. in Oltre le frontiere - accende da un mezzo millennio la fantasia di molti, anche se (o forse perché?) egli fu così bravo da essere amico di Tommaso Moro, l’istituzionalista cattolico, contemporaneamente ammirato da Ulrich von Hutten, il fanatico protestante. Alla fine li abbandonò entrambi; i profeti sono commensali difficili. Ma la più grande difficoltà è quella degli uomini erasmiani, come io li chiamo, che mantengono la chiara rotta della ragione anche in mezzo alle tempeste scatenate nella loro epoca dai profeti». Ebbene, con Erasmiani D. si è prefisso esattamente di tessere l’elogio di quegli intellettuali che si rivelarono immuni alle tentazioni alle quali tanti altri non resistettero. Grandezza e miseria dell’intellighenzia europea: questo potrebbe un altro titolo del libro di D., da cui emerge che la miseria - cioè servilismo, dogmatismo e opportunismo - degli intellettuali sopravanza di gran lunga la grandezza di pochi.
Nel ventesimo secolo “profeti a destra” e “profeti a sinistra” hanno alimentato le seduzioni del totalitarismo di destra e di quello di sinistra. «Furono pochi - fa presente D. - a resistere ad entrambe malgrado tutte le tentazioni. Karl Popper è stato uno di questi, un altro Isaiah Berlin, Raymond Aron un terzo». Costoro, e non solo loro, D. li chiama “uomini erasmiani”, intendendo con questo termine «coloro che, pur comprendendo i grandi conflitti politico-culturali della loro epoca, anzi partecipandovi attivamente, non soggiacciono mai alla tentazione di scegliere un campo. Perché non sono profeti, ma spiriti laici».
Raymond Aron: «Sempre autocritico, Aron constata lui stesso di aver sentito una specie di “obbligo all’impegno” […]. Aron percorse il suo itinerario come uno degli intellettuali faro della Francia, e uno dei pochissimi che non furono tentati dall’ “oppio degli intellettuali”, il comunismo e il totalitarismo in genere. Dopo aver prestato per un breve periodo servizio militare nel reparto meteorologico dell’esercito francese, emigrò a Londra. Lì operò nel giro - ma non nel gruppo - del generale de Gaulle, e curò la pubblicazione di “La France Libre”. Al ritorno in patria, fu per un po’ membro del gabinetto personale del ministro della Cultura di de Gaulle, André Malraux. Poi, come professore e più tardi membro del College de France, lavorò soprattutto come commentatore ed editorialista del “Figaro” e in seguito dell’ “Express”».
Karl Popper: «Rientrò dall’emigrazione nel 1946 […]. Lì [alla LSE] lavorò fino alla pensione e oltre come professore di logica e di metodo scientifico. Rimase un docente spesso arrabbiato, sempre polemico. A mano a mano che i suoi libri allargarono la loro influenza, in particolare fra i leader politici, questi cominciarono a recarsi da lui - o a invitarlo - per riceverne consigli. Era orgoglioso del fatto che a ricercarlo fossero leader politici di ogni orientamento democratico, e per questa via portò molte delle sue opinioni, spesso intransigenti, fra la gente».
Isaiah Berlin: «Rimase ad Oxford, e qui divenne una leggenda. Vi teneva le sue amate, anche se non sempre comprensibili, lezioni. Noel Annan non è il solo a raccontare della sua fenomenale velocità di parola. Quando parlava, la sua lingua doveva correre, per stare dietro ai suoi pensieri. Durante la guerra, al pari di molti intellettuali britannici, fu reclutato per compiti di intelligence, dapprima all’ambasciata di Washington, poi a Mosca. In questo periodo l’uomo tanto volentieri disimpegnato divenne definitivamente un intellettuale pubblico, che operava comunque non tanto con le sue pubblicazioni quanto attraverso il contatto diretto con i governanti».
Un’ultima considerazione sul fatto che sia Popper che Aron e Berlin non sono facilmente collocabili in relazione ai partiti politici. In realtà - scrive D. sempre in Erasmiani - «amavano giocare con l’ambivalenza delle loro posizioni». In ogni caso, «con Popper, tutti e tre avrebbero detto - e hanno detto - che la libertà è più importante dell’uguaglianza. Ma tutti e tre hanno anche sempre attribuito un posto di preminenza al sociale. Alla fine del primo volume della Società aperta Popper sottolinea in maniera abbastanza sorprendente il suo programma per both security and freedom, sia per la sicurezza sia per la libertà. Per Aron la preoccupazione nei confronti delle persone svantaggiate, per i disgraziati, per i lavoratori, rimase un tema centrale di tutta la vita. L’esaltazione del pluralismo da parte di Berlin è giustificata soprattutto con la sua preferenza simultanea per la libertà e la giustizia. Si possono dire, alla fine, “liberalsocialisti” nel senso di Bobbio? Certamente no, ma sicuramente furono liberali di un tipo particolare».
Non è facile rimanere liberi, cioè nuotare contro corrente soprattutto quando questa si fa impetuosa. Ma gli “erasmiani” ci mostrano che, tuttavia, non è impossibile restare con la schiena diritta - ovviamente, a caro prezzo. Ragione, dignità e libertà hanno i loro costi, sempre non indifferenti e spesso altissimi. Quello meno alto da pagare è la solitudine.
Dario Antiseri