PACCIARDI, Randolfo
PACCIARDI, Randolfo. – Nacque a Giuncarico, frazione di Gavorrano (Grosseto), il 1° gennaio 1899 da Giovanni, un ferroviere originario di Castagneto (Castagneto Carducci, Livorno), e da Elvira Guidoni.
Dopo aver preso la licenza tecnica a Montepulciano, nel 1915 aderì giovanissimo al Partito repubblicano italiano (PRI). Infiammato dagli ideali dell’interventismo democratico, si arruolò volontario al momento dell’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale. Iscrittosi al corso allievi ufficiali, conseguì successivamente il grado di sottotenente dei bersaglieri. Ottenne alcuni importanti riconoscimenti al valore militare, tra cui due medaglie d’argento e la military cross dell’esercito britannico.
Tornato a Grosseto, si spese come animatore della Federazione repubblicana, alternando il lavoro politico a lunghi soggiorni romani, trascorsi tra la facoltà di giurisprudenza e lo studio legale di Giovanni Conti. Si sposò con Luigia Civinini, ex compagna di scuola e insegnante di pianoforte.
L’irruzione del movimento fascista sulla scena pubblica sollecitò in Pacciardi un’istintiva reazione contro i soprusi dello squadrismo. Intraprese una lotta risoluta, animando le prime iniziative di dissenso successive alla marcia su Roma (28 ottobre 1922). Il 23 giugno 1923, durante un raduno di ex combattenti a piazza Venezia, gridò assieme ad altri repubblicani e decorati di guerra: «Viva l’Italia libera, viva la libertà!». Mussolini fu costretto a interrompere il suo discorso e il giorno successivo Il popolo d’Italia dedicò a Pacciardi un trafiletto nel quale era precisato che «non si trattava di un gruppo di decorati ma di un insulso avvocatino di Grosseto».
L’episodio di piazza Venezia fu una delle prime uscite dell’associazione L’Italia libera, che Pacciardi aveva fondato nel corso dello stesso mese con l’obiettivo di respingere il processo di monopolizzazione del combattentismo da parte del fascismo. Accanto alla diffusione capillare del giornale Italia libera, che raggiunse una tiratura di 20.000 copie, Pacciardi garantì il sostegno dell’organizzazione alla strategia aventiniana del gruppo dirigente del PRI. Infine, organizzò coraggiose manifestazioni pubbliche. Il 4 novembre 1924 guidò per le strade di Roma un corteo composto di 2000 ex combattenti assieme a Giuseppe (Peppino) e Sante Garibaldi, che fu attaccato duramente dai fascisti a piazza del Popolo.
Il 3 gennaio 1925 fu aggredito e ferito a Grosseto nel suo studio di via della Stelletta. Ai primi di dicembre dello stesso anno evitò l’arresto fuggendo per le terrazze della sua casa romana in via Gregoriana e rifugiandosi in un appartamento di amici fino a quando, ormai rassegnato a consegnarsi alla polizia per scontare i cinque anni di confino a cui era stato condannato, ricevette una lettera da Ernesta Battisti, la vedova di Cesare, che lo invitava a Trento da dove avrebbe potuto espatriare.
Il 1° gennaio 1927 insieme a Egidio Reale raggiunse la Svizzera, dove alcuni mesi più tardi anche la moglie riuscì a espatriare clandestinamente. Lugano divenne, fino al febbraio 1933, la base della sua attività di antifascista in esilio. Mise la sua rete a disposizione della Concentrazione antifascista, di Giustizia e Libertà e della Giovine Italia, stabilendo legami anche con gli anarchici. Gli autori di alcune iniziative eclatanti dell’antifascismo, come il volo di Giovanni Bassanesi su Milano (11 luglio 1930) e i preparativi per un attentato a Mussolini, poterono usufruire del sostegno logistico dell’organizzazione allestita da Pacciardi. Nel frattempo la sua azione politica all’interno del Partito si orientò a contrastare la sinistra capeggiata da Ferdinando Schiavetti. L’obiettivo fu raggiunto con il quinto congresso in esilio (Parigi, 22-23 aprile 1933): Pacciardi fu eletto segretario politico e l’orizzonte della repubblica socialista fu abbandonato. La nuova dirigenza provvide a un riavvicinamento verso la Concentrazione e a una rottura con i comitati antifascisti egemonizzati dai comunisti.
L’attività del centro di Lugano entrò presto nel mirino delle polizie del regime fascista, che dal 1930 misero a segno importanti risultati. Pacciardi fu individuato come uno dei principali responsabili della persistente attività antifascista in Italia. Il Consiglio federale svizzero ricevette interi volumi sulla sua attività cospirativa nel Canton Ticino e alla fine fu predisposta l’espulsione, nonostante le proteste del governo del Canton Ticino che prese apertamente le sue difese. Il 15 febbraio 1933, assieme alla moglie, abbandonò Lugano su un treno in direzione Basilea. La sua destinazione segreta era Mulhouse, in Alsazia.
Con l’avvento di Hitler al potere (gennaio 1933), lo scontro tra fascismo e antifascismo divenne una questione europea. Nel grande teatro politico-militare e ideologico di questo antagonismo, la guerra spagnola, Pacciardi ebbe un ruolo di primo piano tra l’autunno del 1936 e l’agosto del 1937 come comandante della Legione italiana, formata da repubblicani storici, socialisti e comunisti, che operò in difesa del governo repubblicano di Madrid. Nella prima fase fu al suo fianco la moglie, che in seguito decise di tornare a Mulhouse.
Divenuta ‘battaglione Garibaldi’, la Legione si distinse per il suo valore militare, portando nel marzo 1937 alla vittoria dell’antifascismo italiano a Guadalajara. Il successivo inquadramento del battaglione nelle Brigate internazionali, e dunque la sua trasformazione in Brigata Garibaldi, andò di pari passo con gli eventi drammatici della primavera e dell’estate del 1937. Nel maggio si svolse per le strade di Barcellona una guerra interna all’antifascismo, che culminò nella feroce repressione staliniana degli anarchici e del POUM (Partido obrero de unificación marxista). Nell’agosto i comunisti cercarono di estromettere Pacciardi dal contatto con i volontari perché, come egli stesso ricordò molti anni dopo, si era rifiutato di condurli a Barcellona per reprimere anarchici e trotzkisti.
Queste esperienze rafforzarono in lui un forte sentimento antisovietico. Fondò a Parigi il 4 dicembre 1937 La Giovine Italia, un settimanale che fece dell’antifascismo anticomunista una bandiera. Furono pubblicati contributi di Gaetano Salvemini, Guglielmo Ferrero, Carlo Sforza, Emile Wandervelde e Victor Basch. Pacciardi stava allora scoprendo la democrazia americana, grazie al suo viaggio negli USA tra marzo e maggio 1938 alla ricerca di fondi per la Spagna repubblicana. Tenne decine di conferenze a New York, Chicago, Detroit, Filadelfia e Los Angeles.
La capitolazione imposta dalla Germania di Hitler alla Francia (25 giugno 1940) travolse la vita di Pacciardi. Lasciò Parigi con la moglie nei giorni della disfatta dell’esercito francese, dirigendosi verso Bordeaux per raggiungere infine Marsiglia. Dopo due mesi di tentativi, riuscì finalmente a salire su un’imbarcazione per Algeri. Nell’ottobre 1941, dotato di documenti falsi, trovò posto insieme alla moglie su un piroscafo portoghese in partenza da Casablanca e diretto in Messico. Riuscì a entrare negli Stati Uniti, a New York, il 26 dicembre 1941.
Nel clima di mobilitazione generale, proprio dei giorni successivi a Pearl Harbour, la Mazzini society organizzò liste per volontari disposti a combattere in una legione italiana. Pacciardi si sentì il comandante in pectore di questa legione immaginaria, impegnandosi in innumerevoli conferenze, raccogliendo fondi e soprattutto cercando di entrare in contatto con membri del Dipartimento di Stato americano. La sua concezione dell’organizzazione militare e politica lo spinse a tenere le porte aperte ai comunisti in analogia con la Resistenza guidata da Charles De Gaulle, il cui deciso anticomunismo non era stato di impedimento a una collaborazione con i comunisti in vista della liberazione nazionale. Attraverso Pierre Mendès France, Pacciardi cercò inutilmente di contattare De Gaulle per associare la causa italiana a quella della Resistenza francese. Nel frattempo, la speranza di dare vita a una legione italiana si ridusse rapidamente già a partire dal gennaio 1943, allorquando l’imperativo dell’unconditional surrender stabilì che gli Alleati non prendessero impegni morali con alcuno.
Lasciò New York il 7 giugno 1944 con un volo in Nord Africa. A Casablanca fu prelevato da agenti dell’OSS (Office of strategic services, l’intelligence americana) che lo scortarono ad Algeri. Da lì arrivò il 29 dello stesso mese a Napoli, la prima città italiana che rivedeva dopo 18 anni di esilio. Il 3 luglio era già membro della direzione provvisoria del PRI. Condivise la strategia di tenere il partito lontano dai compromessi che le forze del Comitato di liberazione nazionale (CLN) avevano realizzato con la monarchia. Diversamente da Conti, era però convinto che il problema non fosse il mantenimento della tradizione repubblicana, ma dare forza alla coesione dell’antifascismo intorno a una costituente dotata di forti poteri e decisa a mettere in atto una discontinuità marcata sul terreno delle istituzioni.
Al momento della caduta del governo presieduto da Ferruccio Parri, nel novembre 1945 dopo le dimissioni dei ministri liberali e democristiani, chiese inutilmente a ‘Maurizio’ (questo il nome di Parri come capo partigiano) di andare avanti senza i liberali, spingendo le forze realmente repubblicane a denunciare la tregua istituzionale con la monarchia. La sua posizione verso Alcide De Gasperi, succeduto a Parri, restò molto critica anche dopo la nascita della Repubblica. Per tutta la prima metà del 1947, fu infatti uno degli animatori della cosiddetta Piccola intesa tra repubblicani e socialisti democratici, potenzialmente estesa a sardisti, azionisti e demolaburisti.
La radicalizzazione della Guerra fredda in Italia spinse verso la divisione dei socialisti (la ‘scissione di palazzo Barberini’, nel gennaio 1947) e alla formazione, da parte di Giuseppe Saragat, del Partito socialista dei lavoratori italiani, che abbandonava la posizione di equidistanza tra i due blocchi per uno schieramento politico anticomunista e occidentale.
Pacciardi ebbe un ruolo di primo piano nella prima coalizione centrista presieduta da De Gasperi a partire dal dicembre 1947, assumendo insieme a Saragat la funzione di vicepresidente del Consiglio. Divenuto uno dei più intransigenti cold war warriors italiani degli anni successivi, rigorosamente antifascista e anticomunista, occidentalista senza esitazioni, fu insieme a Carlo Sforza uno dei pilastri laici della strategia di De Gasperi, che non trovava invece sostegno in larghi settori del partito cattolico.
Nell’ambito del quinto governo presieduto da De Gasperi, varato il 23 maggio 1948, assunse la guida del ministero della Difesa. Suscitò inizialmente qualche timore nelle file dell’esercito, a causa dei suoi trascorsi di combattente antifascista, ma si guadagnò successivamente solide credenziali grazie al suo duro piglio anticomunista.
Nel PRI e nel Consiglio dei ministri fu tra i primi a pronunciarsi con convinzione a favore dell’Alleanza atlantica. Il 1° giugno 1950 emanò nuove disposizioni per l’impiego diretto dell’esercito nella difesa dell’ordine pubblico (circolare n. 400). La guerra di Corea, scoppiata alla fine dello stesso mese, pose con ancora più forza il problema del potenziamento dell’esercito. A più riprese, in quegli anni, Pacciardi chiese a De Gasperi stanziamenti straordinari a favore delle forze armate.
Si impegnò a consolidare l’orientamento atlantico del PRI, condividendo questa prospettiva con il gruppo di Ugo La Malfa e con il nuovo segretario del Partito, Oronzo Reale. Le opposizioni non mancarono sia all’interno del PRI (Conti e Oliviero Zuccarini, la sinistra di Giulio Andrea Belloni, lo stesso Parri) sia dentro la Democrazia Cristiana, dalla quale provennero sovente attacchi contro di lui e contro Sforza.
L’anticomunismo di Pacciardi restò rigorosamente centrista, dunque non disponibile ad aperture verso le destre nei momenti di crisi del consenso. Lo dimostrò la posizione di rifiuto che assunse nel corso della ‘operazione Sturzo’, nel 1952 (il tentativo di creare un blocco elettorale anticomunista con le destre e con i monarchici per le elezioni amministrative a Roma). Insieme agli altri capi dei partiti laici, si adoperò per rinsaldare la compagine di governo, non soltanto con la sua ferma resistenza verso ipotesi in odore di clerico-fascismo, ma spendendosi attivamente per la stabilizzazione della coalizione centrista attraverso la riforma della legge elettorale.
Il fallimento della proposta di riforma elettorale costituì un elemento di forte discontinuità nella vicenda politica e umana di Pacciardi. Guardò con diffidenza al disegno lamalfiano di una sinistra democratica che dialogasse con cattolici e socialisti in vista di una coalizione di centro-sinistra. Aderì al ristretto gruppo di interlocutori dell’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce, facendo mostra di un anticomunismo molto aggressivo. Quando il PRI abbandonò definitivamente la formula centrista, nel febbraio 1957, fu duramente critico e diede inizio a un aspro scontro contro Reale e La Malfa. La pessima prova elettorale offerta dall’alleanza tra repubblicani e radicali alle elezioni del 1958 fu l’occasione per avanzare una strategia alternativa.
Al XXVI congresso del PRI (Firenze, 20-23 novembre 1958), fece un discorso allarmato sulla crisi istituzionale apertasi dopo il fallimento della proposta elettorale del 1953. Denunciò le ‘oligarchie’ di partito che avevano occupato lo Stato, esautorato il Parlamento e distrutto l’autonomia del governo. Non caldeggiò esplicitamente il presidenzialismo, ma fece più di un cenno al passaggio proprio allora in corso in Francia dalla Quarta alla Quinta Repubblica, mostrando tutto il suo apprezzamento per l’opera di De Gaulle.
La crisi senza ritorno del centrismo, consumatasi nel luglio 1960, lo spinse a radicalizzare la sua posizione di ostilità all’apertura a sinistra. Guardò sempre meno in direzione di un improbabile ritorno alla formula degasperiana, che pure non si stancava di celebrare, immaginando invece, con sempre maggior intensità, una riforma istituzionale di tipo presidenziale. Era forse destinato a perdere la battaglia per la guida del PRI, ma i mezzi impiegati per contenere la sua offensiva non furono sempre ortodossi. Si disse che durante il congresso della Federazione ravennate, nel dicembre 1961, si fossero avviati tentativi di corruzione di delegati a lui vicini. Nel corso del 1962, il SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) seguì molto da vicino le sue mosse per conto di Amintore Fanfani, preoccupato per la stabilità del suo quarto governo. Dalle indagini emerse un quadro a tinte fosche: sostenuto finanziariamente dal petroliere Attilio Monti, Pacciardi sarebbe stato in procinto di avviare la scissione del PRI in vista di un nuovo partito nazionale repubblicano. Al di là della loro veridicità, il fatto che queste informazioni finissero sul tavolo dei dirigenti del Partito non poté non inasprire i toni di una polemica che non accennava a placarsi. Nello stesso periodo la corrente pacciardiana, Difesa repubblicana, decise di non partecipare al XXVIII congresso del PRI per protesta contro l’espulsione di Giuseppe De André. Dopo le elezioni del 28 aprile 1963, in seguito alle quali Pacciardi fu rieletto nella circoscrizione di Pisa, la segreteria usò ancora una volta il pugno duro, sciogliendo la Federazione provinciale grossetana, a lui legata.
L’esito di questa guerra intestina era ormai maturo. Il 26 gennaio 1964 Pacciardi fu espulso in seguito al voto contrario espresso in Parlamento nei riguardi del primo governo Moro.
Nel primo numero di Folla, periodico da lui fondato nel marzo seguente, lanciò il suo grido di battaglia: «Dobbiamo arrivare al cuore della folla per rifare lo Stato e disfare le sette». Il 10 maggio tenne un discorso incendiario al teatro Adriano di Roma, nel corso del quale sottolineò la necessità di un governo di emergenza. Da formarsi su impulso del capo dello Stato, questo governo fuori dai partiti avrebbe dovuto innanzi tutto affrontare nelle piazze la probabile reazione delle sinistre, quindi gestire con ordine la delicata transizione politico-elettorale, indirizzandola verso la fase costituente di una nuova repubblica. L’Unione democratica per la nuova repubblica (UDNR) fu fondata in vista di quest’obiettivo (1° marzo 1964).
Il governo di emergenza evocato da Pacciardi sembrò prendere corpo nel corso dell’estate negli scambi tra il presidente della Repubblica, Antonio Segni, e il presidente del Senato, Cesare Merzagora. Il ‘rumor di sciabole’, provocato dal coinvolgimento segreto del generale Giovanni De Lorenzo, capo del SIFAR, ebbe un effetto deleterio sull’immagine di Pacciardi. Ministro degli Interni in pectore di un governo indirizzato contro il potere delle ‘oligarchie’, finì per scavare in realtà un fossato ancora più profondo tra sé e i partiti, i quali avevano ormai preso a guardarlo come un temibile golpista.
Dalla fine del 1963 Pacciardi strinse rapporti con il più insigne dei critici del potere dei partiti, Giuseppe Maranini, il preside della facoltà di scienze politiche Cesare Alfieri di Firenze, il quale era da tempo convinto della necessità di correggere la Costituzione nel senso di un maggiore bilanciamento dei poteri, che a suo giudizio era possibile realizzare senza stravolgere l’intero ordinamento. Il suo avvicinamento a Pacciardi fu dovuto dunque più alla convinzione che fosse urgente organizzare un fronte per la restaurazione dello Stato di fronte all’invadenza partitica che a una reale condivisione di proposte politico-istituzionali. Maranini dette il suo contributo alla stesura dell’Appello per una nuova repubblica, pubblicato il 27 febbraio 1965 su Folla.
L’insistenza di Pacciardi per il superamento dell’antitesi fascismo-antifascismo, denunciata come copertura partitocratica, favorì l’avvicinamento al movimento da parte di giovani provenienti dalle file del neofascismo, come Giano Accame. Nel contesto della metà degli anni Sessanta, tuttavia, le possibilità di crescita del movimento erano limitate. Probabilmente su pressione di Aldo Moro vennero meno i fondi stanziati da Monti nella prima fase di vita del movimento. Pacciardi dovette pertanto chiudere Folla nel marzo 1966 e sostituirla con il più agile Nuova Repubblica. Le difficoltà furono evidenziate dai magri risultati (63.402 voti complessivi e nessun seggio) ottenuti dall’UDNR alle elezioni del maggio 1968.
A riprova di questa marginalità politica, le iniziative promosse da Pacciardi nei primi anni Settanta furono perlopiù caratterizzate in senso culturale: da un lato, cercò di illuminare gli Italiani sulla necessità di una riforma del sistema politico, pubblicando nel 1972 un opuscolo dal titolo La Repubblica presidenziale spiegata al popolo; dall’altro, mise mano ai suoi ricordi di combattente antifascista e per la democrazia. Cercò tuttavia, quando se ne presentò l’occasione, di dare un contribuito sul terreno della politica: nel 1974 scrisse al presidente della Repubblica Giovanni Leone per invitarlo a rinviare alle Camere la legge sul finanziamento pubblico dei partiti politici.
Nell’autunno dello stesso anno fu raggiunto da una comunicazione giudiziaria, inviata dal giudice istruttore di Torino Luciano Violante. Era accusato insieme a Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, a diversi funzionari dello Stato e a neofascisti di Ordine Nuovo e del Fronte Nazionale di Valerio Borghese di aver cospirato per un colpo di Stato. La vicenda del ‘golpe bianco’ si trascinò per alcuni anni chiudendosi infine nel settembre 1978 con il proscioglimento degli imputati.
Negli anni successivi, Pacciardi si riavvicinò al PRI, rientrandovi ufficialmente nell’autunno del 1980, in seguito a una riconciliazione politica e umana con il gruppo dirigente. Accettò di sciogliere l’UDNR e di chiudere Nuova Repubblica, ma non di rinunciare alla sua battaglia per la trasformazione delle istituzioni in senso presidenziale.
Nel corso dell’ultimo decennio della Repubblica dei partiti, le sue persistenti critiche contro le ‘sette organizzate’ si combinarono con un deciso apprezzamento per la figura di Bettino Craxi.
Morì a Roma il 14 aprile 1991.
I funerali di Stato si tennero in piazza Montecitorio, voluti fortemente dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Opere: Protagonisti grandi e piccoli. Studi, incontri, ricordi, Roma 1972; Da Madrid a Madrid. Riflessioni, discorsi, scritti dal 1936 al 1974, Roma 1975.
Fonti e Bibl.: L. Zani, Italia libera. Il primo movimento antifascista clandestino (1923-25), Roma-Bari 1975; A. Baldini - P. Palma, Gli antifascisti italiani in America, 1942-1944. La Legione nel carteggio di P. con Borghese, Salvemini. Sforza e Sturzo, Firenze 1990; G. Loteta, Cuore da battaglia: P. racconta a Loteta, Roma 1990; A. Spinelli, I repubblicani nel secondo dopoguerra (1943-1953), Ravenna 1998; P. Palma, Una bomba per il duce. La centrale antifascista di P. a Lugano (1927-1933), Soveria Mannelli 2003; Id., R. P.: profilo politico dell’ultimo mazziniano, Soveria Mannelli 2012.