DELLA GHERARDESCA, Ranieri
Del ramo dei conti di Donoratico, era il figlio, probabilmente secondogenito, di quel conte Gherardo che era stato decapitato a Napoli con Corradino di Svevia il 29 ott. 1268. A lungo le sue vicende furono strettamente legate a quelle del fratello maggiore Bonifazio. Del resto, per circa un trentennio il D. e suo fratello mantennero indivise le proprietà di famiglia ed abitarono nel medesimo edificio, un palazzo con torre a Pisa in Chinzica - il quartiere a sud dell'Arno -, nella cappella di S. Sebastiano, nella carraia del Grasso presso il ponte Vecchio, l'attuale ponte di Mezzo.
La prima notizia a noi nota relativa al D. risale al 1272, allorché suo fratello Bonifazio, che agiva anche per lui, concesse un prestito ad alcuni privati. Poiché in questo documento relativo a tale prestito non si parlava di tutori, il D. doveva essere allora già maggiorenne, ciò che pone la sua nascita a prima del 1252.
Negli anni seguenti le fonti note testimoniano che il D. svolgeva attività di prestito insieme col fratello e ci forniscono notizie sul suo patrimonio maremmano; a partire dal 1281, pur nella loro scarsità e frammentarietà, serbano il ricordo di una attività politica del D. e del fratello, attività nella quale il ruolo principale fu tenuto, fino al 1284, da Bonifazio. La loro posizione, negli anni immediatamente precedenti la sconfitta della Meloria, si andò sempre più differenziando da quella del loro parente Ugolino di Guelfo di Donoratico: infatti mentre quest'ultimo si era avvicinato fin dal 1274 ai suoi antichi avversari, i Visconti, e ai guelfi protetti da Carlo d'Angiò, i due fratelli si mantennero fedeli alla tradizionale linea ghibellina e antiviscontea propria della loro casata. Da un lato presero dunque le distanze da Ugolino, dall'altro si legarono alle famiglie dell'opposizione antiviscontea, in particolare ai Sismondi. Il 24 marzo 1284 il D. fu nominato procuratore generale dal fratello, capitano della Guerra e in procinto di partire per la Sardegna. Durante la lunga prigionia di Bonifazio, durata più di quindici anni, ossia fino alla stipulazione della tregua tra Pisa e Genova (31 luglio 1299), rappresentò gli interessi economici e politici suoi e del fratello a Pisa e in Sardegna.
Dopo la sconfitta della Meloria (6 ag. 1284), in Pisa furono concessi ampi poteri al conte Ugolino di Donoratico, ma, benché a costui al principio del 1285 fosse stato prorogato per dieci anni l'ufficio di podestà con il parere favorevole dei Pisani prigionieri a Genova, non si verificò alcun riavvicinamento tra il D. e il conte Ugolino, anzi il contrasto si approfondì a tal punto, che il D., poco dopo, dovette lasciare Pisa per la Sardegna, dove il D. e il fratello, con il titolo di signori di un sesto del Cagliaritano, detenevano vasti possessi. Probabilmente in quest'occasione venne distrutta la torre che i due fratelli possedevano a Pisa. Forse il D. rimase in Sardegna per tutto il periodo della signoria ugoliniana: infatti è di nuovo testimoniato a Pisa solo nel gennaio del 1289, cioè alcuni mesi dopo la caduta di Ugolino e di Nino Visconti, caduta per la quale molto si era adoperato, dalla sua prigionia genovese, anche Bonifazio. Pochi anni dopo, nel 1294, il D. tornò in Sardegna come capitano della spedizione inviata dai Pisani, alleati del giudice Mariano d'Arborea, nella lotta contro due dei figli superstiti del ponte Ugolino, Guelfo e Lotto, i quali stavano conducendo nell'isola una spietata guerra personale contro i Pisani ed i loro alleati, nel tentativo di vendicare la tragica morte del padre e dei congiunti. Riuscì a sconfiggerli nel 1295, arrivando ad impadronirsi dei loro castelli. È attestato ancora in Sardegna nel giugno del 1297, proprio a Massargia nel Sigerro, già appartenuta al conte Ugolino.
Qualche anno dopo il rientro del fratello dalla prigionia genovese il D. si accordò con lui per sciogliere la lunga comunanza di beni e di abitazione. A noi è giunto il documento con cui, il 16 sett. 1303, essi provvidero alla divisione del patrimonio maremmano: al D. spettarono i possessi di Casale Marittimo, di Donoratico, di Colmezzano e di Rosignano; a Bonifazio quelli di Guardistallo e di Bolgheri. Bonifazio conservò in Pisa la casa della carraia del Grasso, mentre il D. si trasferi nel quartiere di Mezzol a nord dell'Amo, nella cappella di S. Lorenzo alla Rivolta, presso la chiesa di S. Caterina.
In questi anni il D. ampliò e rafforzò il proprio patrimonio fondiario: sappiamo di terre a Bibbona concessegli dall'arcivescovo di Pisa nel 1302, e dell'acquisto di una quota del castello maremmano di Rocca a Palmento nel 1310. Col fratello riuscì ad impadronirsi di una buona parte del patrimonio del conte Ugolino; i due riuscirono anche ad impedire alla vedova di costui, Capuana, di godere dei propri diritti patrimoniali.
I pochi registri comunali del tempo che siano giunti sino a noi, insieme con i documenti catalani, ci permettono solo di conoscere qualche episodio, che illustra a sufficienza il rilievo che il D. e suo fratello ebbero nella vita cittadina di quel periodo. Nel settembre del 1304 il D. fece parte di un Collegio di savi chiamati a decidere l'invio di truppe in aiuto ai bianchi di Pistoia; nel novembre del 1309 capitanò una spedizione militare inviata in aiuto ai bianchi di Arezzo. Negli anni 1308-1309 svolse un ruolo di primo piano quando la Sardegna assunse nuovamente un ruolo importantissimo nella politica pisana in seguito ai tentativi avviati dal re Giacomo II d'Aragona per rendere effettiva la sua signoria sulla Sardegna, di cui era stato investito dal papa Bonifacio VIII nel 1297. Nel luglio del 1308 gli ambasciatori catalani si recarono anche presso il D.; questi, nel novembre dello stesso anno, scrisse al re preannunciandogli l'invio di un'ambasceria del Comune di Pisa. Nel tentativo di vanificare la politica sarda di Giacomo II i Pisani, per i quali l'isola era di vitale importanza, decisero addirittura la sottomissione della loro città al re. Le trattative, che si conclusero però con un nulla di fatto, si svolsero nei primi sei mesi del 1309. In esse il D. ebbe un ruolo importante, motivato dall'interesse che egli aveva di conservare il suo patrimonio sardo. Abbiamo notizia di una corrispondenza intercorsa fra Giacomo II e il D., la cui moglie Nidda era imparentata col sovrano.
Coerentemente con la politica ghibellina e filoimperiale tradizionalmente perseguita dal ramo della famiglia, il D. e suo fratello si mostrarono favorevoli ad Enrico VII di Lussemburgo, quando venne in Italia per cingervi la corona imperiale: Bonifazio guidò l'ambasceria pisana, che nel dicembre 1311 si recò incontro al re a Genova; mentre il D. ospitò il sovrano dall'aprile al luglio 1313, durante il suo secondo soggiorno a Pisa.
Il D. mantenne un atteggiamento favorevole a Uguccione Della Faggiuola per tutto il tempo della signoria di quest'ultimo su Pisa (1314-1316). Ai suoi ordini si batté valorosamente contro i guelfi toscani nella battaglia di Montecatini, il 29 ag. 1315: e al termine della vittoriosa giornata volle farsi armare cavaliere sul cadavere del principe Carlo d'Angiò, primogenito di Filippo principe di Taranto e di Acaia, lo sconfitto capo guelfo, e nipote del re Roberto. In tal modo il D. vendicava la morte del padre, decapitato con Corradino nel 1268. Tuttavia quando, il 10 apr. 1316, approfittando dell'assenza di Ugliccione, recatosi a Lucca, ove suo figlio Francesco aveva fatto arrestare Castruccio Castracani, la città insorse contro il proprio signore, il D. si accordò con i capi della rivolta, li appoggiò e fu nominato podestà, ufficio in cui compare il 29 maggio, per essere poi sostituito, secondo la norma, da un forestiero.
Nel mese di luglio il D. fu eletto capitano del Popolo, succedendo al nipote Gherardo, detto Gaddo, figlio del defunto Bonifazio, che lo era stato dal 12 aprile. Tenne la carica sino al mese di agosto, quando fu sostituito da un forestiero. Durante il periodo della larvata signoria del nipote Gherardo, che aveva mantenuto la carica di capitano della masnada a cavallo del Comune, e sarà poi nominato difensore generale del Popolo, il D. svolse un importante ruolo politico, come è dimostrato dal fatto che egli compare frequentemente citato, nei pochi registri comunali dell'epoca a noi pervenuti, nelle commissioni di savi nominate per risolvere i diversi problemi. All'improvvisa scomparsa del nipote Gherardo (10 maggio 1320) il D., per quanto la voce pubblica lo accusasse di essersi sbarazzato di lui per impossessarsi del potere, fu scelto come tutore del pronipote Bonifazio, il figlio ancora minorenne del defunto. Venne inoltre eletto, alle due cariche che erano state tenute dal nipote, quella di capitano della masnada a cavallo del Comune e quella di difensore generale del Popolo, assumendo così la signoria della città.
Il D. non continuò la politica del nipote, ma, secondo l'unanime testimonianza dei cronisti coevi, vi operò profondi cambiamenti, appoggiandosi a quelle stesse forze, aristocratiche e popolari, cui si era appoggiato Uguccione Della Faggiuola, e sviluppando il suo regime in un senso più marcatamente signorile di quanto avesse fatto il nipote. Di tale diversità si rese immediatamente conto Coscetto del Colle, un popolare che aveva avuto un ruolo importantissimo durante la signoria di Gherardo, il quale lasciò Pisa subito dopo la di lui morte.
Nell'aprile del 1321 il D. aveva come collega nell'ufficio di capitano della masnada a cavallo Tinuccio Della Rocca, personaggio particolarmente legato al giovane Bonifazio di Gherardo. Non sappiamo per quanto tempo lo abbia avuto accanto a sé: certo nel 1322 egli appare di nuovo unico capitano. Particolare rilievo nella vita pubblica assunse invece in quel periodo il nobile Lippo da Caprona, il cui consiglio il D. teneva in gran conto. Il nuovo signore allontanò da sé numerosi antichi collaboratori del nipote Gherardo, i quali ordirono una congiura per uccidere Lippo e, anche, per eliminare lo stesso D.: il 16 maggio 1322 Corbino Lanfranchi uccise, invece di Lippo, il figlio di costui, Guido, già ammiraglio della flotta. Il fatto suscitò gravi disordini in città: Corbino fu preso e decapitato; dei Lanfranchi, parecchi furono arrestati, altri fuggirono. I tumulti continuarono e - secondo il racconto di Giovanni Villani - il D. con i nobili, nel frattempo rappacificatisi con lui, ne approfittò per consolidare la propria posizione nei confronti della parte più influente del popolo. Tre "possenti popolani" furono uccisi e si tentò di mettere fuori gioco i seguaci di Coscetto del Colle, accusandoli dell'omicidio di Guido da Caprona. Di fronte alla reazione,"popolare", tuttavia, il D. dovette inviare in esilio quindici esponenti delle famiglie nobili più in vista.
Ad ogni modo la decisione e la spregiudicatezza, con cui seppe affrontare il difficile momento, unite alla forza di persuasione rappresentata dalla masnada a cavallo che egli comandava, gli permisero di ristabilire l'ordine pubblico, rendendo più sicura la sua signoria. Del resto, anche il timore che Castruccio, il signore di Lucca, potesse approfittare della critica situazione interna di Pisa per impadronirsi di quest'ultima, spinse i Pisani a tornare alla calma. Anche Coscetto del Colle cercò allora di approfittare del malcontento che serpeggiava nella città: rientrato in Pisa, ordì un complotto per rovesciare il D., ma la congiura fu scoperta e lo stesso Coscetto, catturato a tradimento, fu ucciso. Superate queste crisi e assicuratosi il potere, il 13 giugno il D. si fece riconoscere signore e difensore del Popolo di Pisa.
Da questo momento si fece sempre più chiaro il carattere signorile del governo del D.: continua appare la sua ingerenza negli affari pubblici; nelle provvisioni il suo nome compare sempre più spesso a fianco di quelli degli Anziani; è lui a dirigere la politica estera del Comune.
Nella seconda parte della sua signoria, cioè negli anni 1322-1325, il D. dovette affrontare una notevole serie di problemi e di crisi, tali da mettere in forse il suo stesso potere. Nella primavera-estate del 1322, quando già si profilava il pericolo aragonese in Sardegna, vi fu un peggioramento nelle relazioni sia con Lucca, per questioni relative al condominio su Sarzana ed alla costruzione della fortezza di Sarzanello voluta da Castruccio, sia con Firenze, per l'aumento dei dazi su alcuni tipi di merci in transito nel porto di Pisa, deciso nell'aprile al fine di reperire il denaro necessario per l'imminente guerra in Sardegna. Tuttavia il D., probabilmente preoccupato dagli sviluppi del problema sardo, preferì seguire la via delle trattative, e riuscì ad evitare con accordi diplomatici che tali tensioni sfociassero in conflitto armato.
Il D. non riuscì però a risolvere il conflitto giurisdizionale tra il Comune di Pisa e l'arcivescovo Oddone della Sala, che si trascinava da quando il presule, lanciato l'interdetto su Pisa, aveva lasciato la città nel 1319 per trasferirsi a Firenze. Nessuna riconciliazione fu possibile: nel giugno 1323 Oddone fu spinto a rinunciare alla cattedra pisana.
Il problema di gran lunga maggiore, il pericolo più grave per Pisa proveniva però dal re Giacomo II d'Aragona, il quale si accingeva alla conquista della Sardegna, e questa volta con buone probabilità di successo. Per Pisa la Sardegna era di vitale importanza, e il Comune si impegnò perciò con tutti i mezzi, dalla primavera del 1322, per migliorare le difese dell'isola, compiendo uno sforzo gigantesco, che però non valse a conservare la Sardegna. Le ostilità cominciarono nell'aprile 1323: gli Aragonesi, con truppe numericamente superiori, riuscirono ben presto ad impadronirsi di buona parte dell'isola, eccettuate alcune fortezze, la più importante delle quali era Castello di Castro di Cagliari. Al principio del 1324 il D. mandò in soccorso degli assediati il suo stesso figlio Manfredi, che per imperizia fu sconfitto: Castello di Castro si arrese il 19 giugno. Manfredi, che era stato ferito in battaglia, si affrettò ad accettare i patti imposti dal sovrano, assai svantaggiosi per Pisa, forse in vista dei propri interessi familiari, dal momento che il 1° luglio ottenne da Giacomo II, per il D. e per il cugino Bonifazio, l'infeudazione del castello di Gioiosa Guardia e di tutti i beni già posseduti in Sardegna. Al Comune di Pisa rimase solo Castello di Castro con le saline.
Mentre si combatteva la guerra in Sardegna, in Toscana si profilavano per la città di Pisa e per la signoria del D. altri due pericoli, rappresentati dal re Roberto d'Angiò e da Castruccio Castracani. Ciò nonostante il D. riuscì a fronteggiare ancora una volta tutte le difficoltà. La medesima fermezza, che gli aveva consentito di superare la crisi del 1322, egli dimostrò infatti nel reprimere, nel luglio del 1323, un tentativo di colpo di Stato organizzato dai suoi avversari interni contando sull'appoggio angioino (invano il principe Filippo di Taranto si presentò dinnanzi a Porto Pisano con una flotta di 22 galee), e nello sventare, nell'autunno successivo, un complotto per rovesciare i Donoratico e consegnare Pisa al signore di Lucca ordito da Benedetto Malepa dei Lanfranchi d'accordo con Castruccio Castracani e con la connivenza di quattro conestabili tedeschi della masnada a cavallo. La congiura fu scoperta il 24 Ottobre: i responsabili furono perseguiti, e sulla testa di Castruccio il D. pose una taglia di 10.000 fiorini. Dopo tali avvenimenti, l'autorità del D. era così sicura e la situazione così tranquilla, che la città non si mosse quando, nel febbraio del 1324, lo stesso re di Sicilia approdò a Livorno, con la speranza di farsi signore di Pisa. Allo stesso modo abortì una nuova congiura organizzata nel marzo del 1325 da Castruccio Castracani. Rotte le relazioni con Lucca, il D. iniziò un cauto riavvicinamento nei confronti di Firenze.
Il dissenso, che fermentava negli ambienti politici cittadini e che si esprimeva nelle congiure, era rinfocolato dalle condanne e dai bandi, mentre le ingenti spese della guerra sarda, con la conseguente crisi finanziaria del Comune, e la difficile situazione economica provocavano grandi scontenti. Il malcontento si faceva sentire anche nel contado: particolarmente difficile da governare erano le zone periferiche, la Maremma a Sud, Sarzana a Nord. I registri comunali dell'epoca giunti sino a noi mostrano l'attenzione continua del D. per la sicurezza non solo della città ma anche del contado; proprio al fatto di aver avocato a sé il compito del mantenimento dell'Ordine pubblico, del comando delle forze armate e al fatto di aver allontanato dalla città ogni individuo sospetto, il D. dovette l'essere riuscito a conservare il proprio potere in mezzo a crisi tanto difficili.
Sul finire del 1325 il D., ormai in età avanzata, si ammalò gravemente. Morì, a Pisa, il 13 dicembre, quando già da alcuni mesi era ripresa la guerra in Sardegna.
Il D. aveva sposato in prime nozze una nobildonna, Nidda, imparentata con il re Giacomo II d'Aragona, citata nel 1309. Dopo la morte di questa, aveva sposato Ginevra, figlia di Bernabò Doria. attestata dal 1317: da lei aveva avuto tre figli, Tommaso, Gherardo e Bernabò. Di costoro, ancora minorenni, il D. prima di morire affidò la tutela ai fratelli di Ginevra. Dalla prima moglie aveva avuto quel Manfredi che era stato capitano della guerra in Sardegna nel 1324. Manfredi morì in seguito alle ferite riportate combattendo contro gli Aragonesi sotto Castello di Castro. Nessuno dei figli del D. ottenne poteri signorili a Pisa.
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