RANIERI DI VITERBO
Nacque verosimilmente nel penultimo decennio del sec. XII, da una famiglia dotata di estesi possedimenti a Viterbo e nel suo contado.
Il ruolo ricoperto da R. nell'ascesa del proprio lignaggio fu talmente rilevante da portare i suoi discendenti immediati a scegliere il cognome eponimo de Cardinale. Dopo alcune generazioni, la famiglia (da non confondere con l'omonima casa romana) stabilizzò il proprio cognome in 'Capocci', cosicché il personaggio è anche noto come Ranieri Capocci.
Monaco cistercense (ma non sappiamo se, come tramandano alcune fonti, egli fosse stato abate delle Tre Fontane), studiò ars dictandi, divenendo abile scrittore e maestro; entrò nella cancelleria pontificia come notaio e fu creato cardinale diacono di S. Maria in Cosmedin da Innocenzo III negli ultimi mesi di pontificato (marzo-aprile 1216). Come cardinale, egli sottoscrive le epistole pontificie dal 13 aprile 1216 al 26 aprile 1244.
Appena promosso al cardinalato, R. fu inviato come legato in Lombardia per obbligare alla pace le città di Milano e Piacenza, ancora schierate con Ottone IV. Tuttavia la sua azione politica ebbe come oggetto prevalente il territorio del Patrimonio di S. Pietro, da poco 'recuperato' alla Chiesa romana, ma di fatto conteso tra il papa, l'imperatore, il comune di Roma e il comune di Viterbo. I pontefici apprezzarono l'azione di un cardinale originario del Patrimonio e appartenente all'Ordine cistercense, dotato di grandi capacità militari e di rigore morale, in grado di fronteggiare tanto le pretese di sovranità imperiale, quanto il diffondersi dell'eresia catara, che proprio a Viterbo aveva messo solide radici. Non stupisce, dunque, che il cardinale avesse potuto esercitare, in più occasioni, un potere quasi incontrastato.
Nel 1220 assunse il titolo ‒ appena creato ‒ di rettore del ducato di Spoleto ed estese l'autorità della Chiesa su tutta l'Umbria. Nel 1222 sfuggì a un attentato a Foligno; poco dopo ebbe occasione di contestare l'operato del comandante imperiale Gunzelino di Wolfenbüttel, che nell'aiutare Viterbo contro Roma in occasione del conflitto per Cencelle, esercitava sul territorio indebiti atti di sovranità. Pochi mesi dopo, avendo lo stesso personaggio cacciato alcuni magistrati e imposto il giuramento a una serie di comuni umbri, egli lo scomunicò, obbligando Federico II a prendere le distanze dall'operato del suo vassallo. Risalgono a quello stesso periodo i buoni rapporti instaurati tra il cardinale e Ugolino d'Ostia, il futuro Gregorio IX.
Nel periodo 1226-1233, essendo vacante la sede vescovile di Viterbo-Tuscania, R. fu amministratore apostolico della diocesi, e tornò ad esercitare tale carica nel 1243. Il suo interessamento per le fondazioni ecclesiastiche fu costante. Il cardinale si rivolse soprattutto a proteggere l'Ordine dei Predicatori (R. incontrò Domenico nel 1219 e fece edificare la chiesa viterbese di S. Maria in Gradi nel 1227) e i Cistercensi, che nel 1238 e nel 1239 inserirono il suo nome nella preghiera anniversaria dell'intero Ordine. La frequentazione culturale di certi ambienti monastici avrebbe influenzato profondamente il suo pensiero, inducendolo ad abbracciare le suggestioni gioachimite e a pensare i fatti contemporanei in termini escatologici e apocalittici. Insieme e accanto a ciò, è noto come R. coltivasse anche un vivace interesse per le discipline matematiche e intrattenesse rapporti con Leonardo Fibonacci (v.).
Il suo giudizio nei confronti di Federico fu, nei primi anni, molto positivo: come Gregorio IX, anche R. giunse a definire la maestà soprannaturale dell'imperatore e il suo carattere angelico, che lo elevava al rango di un secondo cherubino in segno della somiglianza con il Figlio unigenito. Era il carattere angelico che lo stesso Federico avrebbe rivendicato dopo il trionfo a Gerusalemme. Nel periodo della prima rottura tra il papa e l'imperatore (1227-1230), R. non assunse posizioni nette, rimanendo ad agire prevalentemente in Curia. Quando compare nuovamente sulla scena politica con incarichi rilevanti, egli è a fianco dell'imperatore. Nell'agosto 1234, infatti, R. si trovava, come rettore del Patrimonio di S. Pietro, al comando delle truppe pontificie e viterbesi contro Roma. Trattando a Rieti con l'imperatore, lo convinse a unirsi a lui per porre l'assedio alla rocca di Rispampani. L'imperatore abbandonò il campo in settembre, lasciando tuttavia al cardinale un contingente di armati. L'8 ottobre fu combattuta una furiosa battaglia tra l'esercito pontificio, composto di imperiali e viterbesi al comando del cardinale, e l'esercito romano, che si era portato fin sotto le mura di Viterbo. I romani, duramente battuti, furono inseguiti fino a poche miglia da Roma, mentre R. si guadagnò la fama di valente uomo di guerra. Seguì la pace, conclusa nel marzo 1235 a tutto vantaggio di Viterbo e del cardinale.
Con il passare degli anni, l'interpretazione politica dell'operato dell'imperatore si fece sempre più simile a quella di Gregorio IX. Anzi, essendo egli divenuto uno strettissimo collaboratore del pontefice, appare a volte difficile stabilire se la posizione assunta da Gregorio IX in certe occasioni non sia stata suggerita proprio dal cardinale. Così è del testo della bolla di scomunica del 1239 e del manifesto pubblicato subito dopo contro l'imperatore, in cui fu fissata la linea della polemica futura, fondata sull'idea dominante di fine dei tempi.
Nel 1241, dopo la morte di Gregorio IX, R. sopportò il duro conclave imposto ai cardinali da Matteo Rosso Orsini (v.), fino all'elezione di Celestino IV (25 ottobre 1241). Morto il nuovo papa dopo pochi giorni, si aprì un lungo periodo di sede vacante, durante il quale R. rimase a capo dei cardinali intransigenti e nemici dell'imperatore. Dopo l'elezione di Innocenzo IV (25 giugno 1243), R. non volle in alcun modo seguire la linea di compromesso e pacificazione adottata dal papa nei primi tempi del suo pontificato. Anzi, essendo egli molto potente sia sul versante politico sia su quello militare, fu in grado di perseguire una propria politica. Il casus fu offerto, naturalmente, da Viterbo, che nel novembre 1243 insorse contro gli imperiali che la governavano. I viterbesi obbligarono la guarnigione e il vicario imperiale, Simeone conte di Chieti, a rinchiudersi nella rocca di S. Lorenzo, e fecero entrare in città il cardinale R., che aveva coordinato e deciso l'operazione. Gli insorti rinnovarono la fedeltà a papa Innocenzo IV e, cosa nuova, pur di andare contro l'imperatore si allearono anche con il loro nemico di sempre, cioè il comune di Roma. La notizia dei fatti di Viterbo raggiunse Federico II a Melfi. L'imperatore radunò l'esercito e, "come un turbine di vento che corre da nord, avvolto nel fuoco dell'ira" (come scrisse R. nel libello Iuxta vaticinium Ysaie, in Acta Imperii inedita, p. 711), si precipitò sulla città. Ma i viterbesi si erano attestati saldamente, cosicché l'assalto, al quale prese parte l'imperatore in persona, non riuscì. Allora la città fu posta sotto assedio, ma accadde che le pesanti torri mobili si incendiassero. Il papa, considerando che la questione di Viterbo gli sfuggiva di mano e avrebbe potuto far deflagrare la guerra, inviò come legato il cardinale Ottone di S. Nicola in Carcere, il quale convinse i viterbesi a sottoscrivere la pace. Ma subito dopo avere liberato la guarnigione imperiale, che aveva caparbiamente tenuto la rocca, i viterbesi, si disse incitati da R., piombarono sui soldati e li massacrarono. Questa vicenda scosse profondamente l'animo dell'imperatore, che ne scrisse in toni rammaricati al cardinale Ottone, discolpandolo insieme al papa, per poi infuriarsi e invocare che, anche dopo morto, il suo corpo potesse levarsi per distruggere Viterbo. Il papa, invece, non prese rilevanti misure contro la città, che subì solamente una pena pecuniaria. Il controllo di Viterbo fu lasciato interamente al cardinale R., che fu nominato legato.
Quando Innocenzo IV, insieme a molti cardinali, prese la via di Genova per fuggire in Francia (giugno 1244), R. rimase in Italia come vicario nel Patrimonio di S. Pietro, nel ducato di Spoleto e nelle Marche, e come legato in Toscana, con l'incarico di difendere i domini della Chiesa. Nel corso dell'anno, provvisto di pochi mezzi, egli riuscì a tenere saldamente Roma, Viterbo e Perugia.
La pace con l'imperatore era possibile: nell'aprile 1245 si andavano radunando a Lione i prelati che vi avrebbero tenuto il concilio, mentre Federico II aveva lasciato la Puglia per indirizzarsi alla volta di Verona e convocarvi una dieta. Risalendo l'Italia, Federico non poté esimersi dal passare nel territorio di Viterbo e dal devastarne il contado. Il patriarca di Antiochia, che si adoperava per la pace, chiese che le ostilità fossero sospese, per non compromettere le trattative in corso e per poter sciogliere l'imperatore dalla scomunica. Allora Federico si fermò. Ma R., considerandosi sempre più "l'erede politico di Gregorio IX" (Kamp, 1975, p. 613), promosse, attraverso la diffusione di due libelli intitolati Aspidis ova e Iuxta vaticinium Ysaie, un'accanita propaganda contro l'imperatore, per far fallire ogni possibilità di compromesso. I suoi testi, incentrati sul profetismo escatologico, sfruttavano la diffusa paura dell'imminente fine del mondo (che alcuni interpreti di Gioacchino da Fiore avevano collocato nel 1260), ed erano di una durezza inaudita: "Se il papa [Gregorio IX] era stato il primo a inserire Federico II in una cornice apocalittica, gli scritti di Ranieri da Viterbo, zeppi di ogni orrore profetico-apocalittico, dimostrano che lo Staufen era davvero il precursore dell'Anticristo" (Kantorowicz, 1976, p. 591). L'imperatore, un tempo definito dallo stesso cardinale "un secondo cherubino", era ormai divenuto l'angelo caduto: ogni sua azione veniva reinterpre-tata come diabolica. Lo scopo era quello di eccitare gli animi dei prelati che si sarebbero riuniti al I concilio di Lione (v.), e in effetti i suoi scritti ebbero un effetto possente, mutando gli animi un tempo favorevoli, tanto che il decreto di deposizione dell'imperatore, emanato il 17 luglio 1245, è da considerarsi molto influenzato da essi.
È altresì probabile che un libello del cardinale, in cui Federico è descritto come l'assassino delle sue tre mogli precedenti, fosse stato consegnato a Gertrude, la giovane figlia ed erede del duca d'Austria, che doveva sposarlo e che, spaventata, all'ultimo momento si rifiutò di incontrare l'imperatore a Verona (estate del 1245).
Nella primavera del 1246, alcuni nobili e funzionari del Regno ordirono una congiura contro l'imperatore (v. Capaccio [1246], congiura di). Il papa e R. ne erano entrambi al corrente. In marzo il cardinale si mosse verso Foligno, in aiuto di un congiurato, ma fu sconfitto a Spello da Marino da Eboli, vicario imperiale di Spoleto, subendo gravi perdite. Il papa, per permettergli di intervenire ufficialmente al fianco dei rivoltosi, lo nominò, ma troppo tardi, legato nel Regno di Sicilia. Nel maggio 1247, mentre il cardinale si trovava a Roma, Viterbo tornò sotto il controllo imperiale e il palazzo di R. fu distrutto. Da quel periodo e fino al 1249, questi si mosse per recuperare l'Umbria e le Marche, riuscendo, con negoziati e con azioni militari, a riconquistare Spoleto (novembre 1247) e la maggior parte delle città marchigiane. Quando l'imperatore fece impiccare il vescovo Marcellino di Arezzo, che era stato rettore della Marca di Ancona ed era stato catturato durante la battaglia di Osimo (dicembre 1247), il cardinale diffuse un altro libello dai toni durissimi, riuscendo a scatenare forti reazioni antimperiali. Anche Iesi, la città natale di Federico, passò allora dalla parte pontificia.
Nell'estate 1249, R. fu richiamato a Lione, dove risiedeva la Curia, per essere sostituito nelle operazioni dal più giovane cardinale romano Pietro Capocci. Morì tra il marzo e il giugno 1250, molto probabilmente il 27 maggio. Il suo corpo fu sepolto a Cîteaux, mentre un monumento fu eretto nella chiesa di S. Maria in Gradi di Viterbo.
Fonti e Bibl.: Historia diplomatica Friderici secundi, VI, p. 406; Regesta Imperii, V, 1-3, Die Regesten des Kaiserreiches […], a cura di J.F. Böhmer-J. Ficker-E. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901, nrr. 3565, 13570a; Acta Imperii inedita, II, nr. 1037, p. 709; A. Paravicini Bagliani, I testamenti dei cardinali del Duecento, Roma 1980, pp. 10 e 121 s. F. Fehling, Papst Gregor IX. und die römischen Kardinalen in den Jahren 1227-1239, Berlin 1901, passim; E. von Westenholz, Kardinal Rainer von Viterbo, Heidelberg 1912; P. Brezzi, Roma e l'Impero medioevale (774-1252), Bologna 1947, pp. 407, 419 s., 443, 453, 455; A. Paravicini Bagliani, Cardinali di curia e 'familiae' cardinalizie dal 1227 al 1254, II, Padova 1972, p. 419; N. Kamp, Capocci, Raniero (Raynerius de Viterbio, etc.), in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 608-616 (con ampia recensione di fonti e bibliografia); E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976, pp. 158, 199, 337, 518, 584 s., 590 ss., 617, 619, 639, 641, 655, 693, 735; J.-C. Maire Vigueur, Impero e Papato nelle Marche, in Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, p. 387; G. Giontella, Cronotassi dei vescovi di Tuscania, "Rivista Storica del Lazio", 6, 1997, p. 23; S. Carocci, Il nepotismo nel medioevo. Papi, cardinali e famiglie nobili, Roma 1999, pp. 48, 66, 69, 73, 75; W. Maleczek, Zwischen lokaler Verankerung und universalem Horizont. Das Kardinalskollegium unter Innocenz III., in Innocenzo III. Urbs et Orbis. Atti del congresso internazionale, Roma, 9-15 settembre 1998, a cura di A. Sommerlechner, I, ivi 2003, pp. 160 s.; S. Menzinger, Viterbo 'città papale': motivazioni e conseguenze della presenza pontificia a Viterbo, in Papato itinerante. La mobilità della Curia pontificia nel Lazio (secoli XII-XIII), a cura di S. Carocci, ivi 2003, pp. 319 s., 325 s. C. Eubel, Hierarchia catholica Medii Aevi, I, Monasterii 1898, p. 4; Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastiques, XI, Paris 1949, coll. 877 s.