CALZABIGI (Calsabigi, Casalbigi), Ranieri Simone Francesco Maria de'
Nato a Livorno il 23 dicembre del 1714 da Giovan Domenico e da Maria Eleonora Vannuccini, compì i primi studi nella città natale e, probabilmente, li completò a Pisa. Le sue buone qualità di letterato gli consentirono di entrare in Arcadia col nome di Liburno Drepanio e nel 1740 di divenire membro dell'Accademia Etrusca di Cortona con il tema in versi I pregi dell'anima sono più stimabili della bellezza, e in segno di gratitudine per il riconoscimento conferitogli dedicò una cantata al "nobile" istituto. Nel 1741 Viveva a Napoli, dove cercava faticosamente di trarre guadagno dall'attività letteraria. Le difficoltà non erano poche. In una sua lettera datata 23 aprile (B. Croce, Iteatri di Napoli, Bari 1891, p. 355) chiedeva infatti all'amministrazione dei teatri napoletani la restituzione di tre drammi, dei quali non ci sono pervenute altre notizie, che erano stati rifiutati dal San Carlo e che egli voleva offrire all'Alibert di Roma per 150 zecchini. Nel 1741, impiegatosi in un ufficio ministeriale, continuava tuttavia l'attività letteraria scrivendo odi, canzonette e più tardi, in occasione delle nozze del delfino di Francia con Maria Teresa, figlia di Filippo V di Spagna, ebbe l'incarico di scrivere il libretto dell'opera L'impero del (sic) Universo diviso con Giove (Napoli 1745), musicata da G. Manna. Quindi scrisse un altro lavoro teatrale, La gara tra l'amore e la virtù, della cui esecuzione non abbiamo notizia. Nel 1747 il re gli commissionò il libretto di una serenata, Il Sogno di Olimpia (Napoli 1747), musicata da C. de Majo, che venne eseguita per festeggiare la nascita del principe ereditario.
Questi lavori, ancora immaturi e lontani dall'espressione di una particolare originalità, furono giudicati favorevolmente dal Metastasio, il quale fece però qualche riserva circa la semplicità dei versi, a suo parere eccessiva, e rilevò la mancanza delle similitudini usate frequentemente dai poeti dell'epoca e disapprovate dai critici in quanto rendevano difficile la fusione fra le parole e la musica, privando le arie della scorrevolezza e della linearità necessarie.
Verso il 1750, trovandosi coinvolto in un processo per avvelenamento, dovette lasciare l'Italia e trasferirsi a Parigi con il fratello Anton Maria, che era a sua volta dotato di talento letterario, ma non volle contrastare il successo di Ranieri. Stabilitosi nella capitale francese come segretario del marchese de L'Hospital che, in precedenza, era stato ambasciatore a Napoli, il C. (che aveva modificato il suo cognome in Calsabigi, più consono alla pronuncia francese) strinse amicizia con molte persone influenti. Nel 1752 pubblicò a Parigi una Cantata a Mademoiselle Leduc, la ballerina amante del conte di Clermont, musicata da F. Bambini, e nel 1754 iniziò la stesura del poema eroicomico La Lulliade o I Buffi italiani scacciati da Parigi che avrebbe terminato soltanto nel 1789 (ms. alla Bibl. naz. di Firenze). Nel 1755, accordatosi con Gerbault, "interprete del re per le lingue francese e spagnuola" e con la editrice "veuve" Quillau, iniziò a pubblicare le Opere del Metastasio corredate da un suo commento critico. Il primo volume, in cui e inserita la Dissertazione su le poesie drammatiche del signor abate P. Metastasio, dedicato alla marchesa di Pompadour, uscì a Parigi nel 1755. La dissertazione esprime a grandi linee le idee del C. circa la riforma del melodramma, idee che egli avrebbe avuto modo di sviluppare e realizzare alcuni anni più tardi tramite la collaborazione con Gluck. Nel 1757 impiantò con il fratello una lotteria impostata con i criteri di quelle italiane. Tale iniziativa, promossa dal finanziere J. Paris-Duverney, aveva lo scopo di raccogliere i fondi necessari alla costruzione di una scuola militare, in quanto le finanze reali erano in pessimo stato: essa ebbe successo e restò in vita fino al 30 giugno 1776 quando un editto di Luigi XVI ne ordinò la chiusura. Tramite il Paris-Duverney il C. conobbe il Casanova che nei suoi Mémoires fece di lui una gustosa descrizione, presentandolo come "un homme peu ragoûtant, car il était couvert d'une espèce de lèpre; mais cela ne l'empêchait ni de bien manger, ni d'écrire, ni de faire parfaitement toutes les fonctions physiques et intellectuelles...". Buon conversatore, allegro e brillante, era costretto, ci informa ancora il Casanova, a condurre vita ritirata non potendo, a causa della malattia che lo affliggeva, presentarsi in società. Tuttavia ciò non gli impediva di coltivare le amicizie e di avere successo con le donne (G. Casanova, Mémoires, II, Paris 1959, pp. 29 s.). Nel 1760, forse a causa dei suoi atteggiamenti francofobi, il C. si dimise dagli incarichi che ricopriva e lasciò la Francia per trasferirsi in Belgio; quindi si recò a Vienna dove, grazie a una raccomandazione del conte di Cobenzl, con il quale aveva stretto amicizia durante il soggiorno belga, poté facilmente introdursi nell'alta società. Il Cobenzi aveva dato, infatti, ottime referenze circa le sue qualità di organizzatore e la sua competenza in fatto di imprese finanziarie, così che il cancelliere Kaunitz non esitò ad assumerlo come segretario. In tale qualità il C. volle confermare la sua reputazione pubblicando il 15 febbr. 1761 una Memoria sulla sistemazione della Camera dei conti che gli fruttò il titolo di consigliere aulico alla Camera dei conti dei Paesi Bassi austriaci, con una pensione di 2.000 fiorini.
Intanto, tramite il "Hoftheaterintendent" conte Giacomo Durazzo, già ambasciatore di Genova alla corte imperiale, stringeva amicizia con il musicista C. W. Gluck che aveva al suo attivo 22 opere teatrali, gran parte delle quali composte su libretti di Metastasio e improntate dagli elementi caratteristici dell'opera italiana, ossia la prevalenza dei recitativi secchi alternati alle arie. L'incontro fra il Gluck e il C. diede origine a una collaborazione che doveva segnare una svolta nella storia del melodramma. Il primo lavoro che portarono a termine insieme fu Don Juan ou le Festin de pierre (1761), al cui libretto scritto da Gasparo Angiolini il C. unì una prefazione, in cui puntualizzava alcune innovazioni grazie alle quali il Don Juan è probabilmente il primo balletto d'azione della storia: eliminare gli stucchevoli artifici della danza saltatoria per infondere alla danza stessa un interesse drammatico, preparare uno scenario nel quale personaggi sconvolti dalle passioni compissero azioni tragiche, sottolineare il valore espressivo della mimica che doveva essere pari a quello della poesia e fondere la rappresentazione visiva all'idea musicale. Il balletto fu rappresentato al Burgtheater di Vienna il 17 ott. 1761. Ad esso seguì l'opera Orfeoed Euridice (Vienna 1762) che venne rappresentata al Burgtheater il 26 dicembre del 1762 e che attuava le idee riformatrici. Due anni più tardi egli scriveva per il Gluck il libretto di un balletto pantomimico, Semiramide (inedito, ora perduto), ispirato alla tragedia di Voltaire e del quale l'Angiolini curò la coreografia. Quindi scrisse il libretto per una seconda opera, Alceste (Vienna 1768), che era stata rappresentata il 26 dicembre del 1767 e in seguito Paride ed Elena (Vienna 1770). La collaborazione con Gluck, aprendogli nuovi orizzonti, aveva dato un orientamento assolutamente nuovo al suo criterio critico, facendogli apparire accademiche e superate forme poetiche che precedentemente aveva ammirato nel Metastasio, il quale, dal canto suo, lo ricambiava col disprezzo. Ormai si erano addirittura create due fazioni: da un lato i sostenitori del C. e di Gluck, dall'altro quelli di Hasse e Metastasio.
Il C. concluse la collaborazione con Gluck col libretto di Paride ed Elena, unanimemente considerato dai critici inferiore a quelli dell'Orfeo e dell'Alceste. Scrisse quindi L'Opera seria che musicata da F. Gassman andò in scena a Vienna nel 1769 e modificata, con un nuovo titolo, La critica teatrale, musicata da G. Astaritta fa rappresentata a Venezia nel 1775. Ebbe altri successi con Comala (un testo in gran parte dipendente da un testo ossianesco e che, al pari della più tarda Elfrida - derivata dall'omonima tragedia di W. Moson -, testimonia la buona conoscenza che il C. aveva della lingua e della letteratura inglese) che venne musicata da P. Morandi e rappresentata a Senigallia nel 1780, Ipermestra o le Danaidi, scritta in origine per Gluck e poi musicata da G. Millico con esecuzione parziale a Venezia nel 1784, quindi modificata da F. L. Du Roullet e Tschudi, musicata da A. Salieri e rappresentata come Les Danaïdes a Parigi il 19 apr. 1784.
Scrisse, infine, Elvira ed Elfrida, musicate da Paisiello e rappresentate a Napoli nel 1792 e nel 1794. Questi libretti furono scritti in Italia, probabilmente a Pisa, dove il C. era tornato essendo stato licenziato e privato della pensione dalla corte austriaca in seguito. allo scandalo scoppiato per una sua avventura con una attrice. Stabilitosi nel 1780 a Napoli, dove cercò invano di riassestare la sua situazione economica, ritrovò poi una certa tranquillità in seguito alla decisione della corte austriaca che gli concesse nuovamente la pensione. In quest'ultimo periodo si dedicò soprattutto alla critica letteraria. Dopo una lunga lettera, datata 21 ag. 1784, al Mercure de France, nella quale protestava rinproverando a Gluck di aver passato a Salieri il libretto delle Danaidi senza avvertirlo, nel 1790 scrisse un libello per rispondere alle critiche mossegli dallo spagnolo Arteaga (Risposta... alla critica ragionatissima delle Poesie drammatiche del C. de' Calsabigi fatta dal bacelliere D. Stefano Arteaga.... Venezia 1790).
Merita comunque un'attenzione particolare la Lettera di R. de C. al sig. conte Vittorio Alfieri sulle quattro sue prime tragedie, dedicata al principe di Liechtenstein, s.d. (che risale al 1784 e che fu ristampata in numerose edizioni dei drammi di Alfieri), nella quale, dopo aver sottolineato le cause della mancanza di lavori teatrali di genere tragico in Italia, fece una precisa analisi critica dei personaggi creati dall'Alfieri, dei quali sottolineava l'originalità pur facendo qualche riserva circa lo stile delle tragedie. L'Alfieri accettò serenamente le critiche, definendo l'analisi del C. "giudiziosa, ragionata e cortese". Quest'ultimo riferì le sue considerazioni nella Risposta a S. E. il sig. conte Alessandro Pepoli (Parma 1791).
Il C. morì a Napoli nel luglio 1795.
Tra le sue opere è da ricordare altresì la raccolta di Poesie, pubblicata a Pisa in due volumi nel 1774.
Dotato di un'intelligenza versatile, logica e intuitiva al tempo stesso, e di una profonda conoscenza delle letterature italiana, francese, spagnola e inglese, il C. ebbe una parte di primo piano nel teorizzare e attuare la riforma del melodramma. È noto come gli schemi fissi a cui dovevano adeguarsi le opere teatrali nuocessero all'unitarietà e alla fusione fra le parole e la musica; il noioso ripetersi di recitativi secchi alternati alle arie, il ruolo fisso dei personaggi (ai nobili le parti serie, mentre una contadina, qualunque fosse la sua situazione psicologica, doveva essere sempre un personaggio buffo) determinavano un progressivo inaridirsi del melodramma. Il C. giunse però soltanto gradualmente a una nuova concezione di questo genere teatrale. Infatti nella Dissertazione sul Metastasio, pubblicata a Parigi nel 1755, dimostrava di essere sempre ancorato ai criteri tradizionali, negando alla musica la possibilità di esprimere i sentimenti dei personaggi senza l'aiuto della poesia e giungendo addirittura a lodare i recitativi secchi, così abbondanti nelle opere italiane, "perché - affermava - questa scarsezza di note [da parte dei compositori] non è già loro mancanza di sapere o d'immaginazione, come certi inetti uomini se la suppongono, ma, come si disse, forza di dialogo e di poesia" e ritenendo per questo l'opera italiana superiore a quella francese. Solo dopo alcuni anni di soggiorno a Parigi, durante i quali aveva potuto approfondire la sua conoscenza della cultura letteraria francese, e dopo il trasferimento a Menna le sue opinioni subirono un mutamento. Verso il 1760 cominciò infatti a considerare diversamente gli elementi fondamentali del melodramma: la declamazione dei versi doveva, nella sua nuova concezione, trovare una precisa rispondenza nella musica in modo da valorizzare l'espressione dei sentimenti e degli stati d'animo. Inoltre le numerose "comparazioni", care al Metastasio e ad altri poeti, dovevano essere quasi totalmente eliminate a vantaggio della sobrietà dello stile. Ciò che doveva principalmente attrarre l'attenzione del librettista e del compositore era la complessità drammatica della vicenda, lo svolgimento dell'azione e lo stato d'animo dei personaggi. Quindi bisognava escludere ogni orpello e qualsiasi inutile effetto.
Tali propositi vennero in gran parte attuati dal C. nel libretto dell'opera Orfeo ed Euridice. Illavoro, infatti, a parte alcune banalità, come il lieto fine, che ha tutta l'aria di una soluzione posticcia e slegata dallo svolgimento del dramma, e alcune espressioni poetiche piuttosto logore e scontate, presenta pagine di alta dignità letteraria e un uso intelligente dei mezzi tecnici. Nel primo atto il lamento di Orfeo (la nota arietta "Che farò senza Euridice..."), che supplica gli dei infernali di restituirgli Euridice, è espresso dal C. con tre coppie di terzine fra i versi sciolti, cosicché la commozione e lo struggimento del personaggio, pur esprimendosi nella loro intensità, assumono la composta dignità di un canto senza cadere in un sentimentalismo zuccheroso. Il secondo atto, oltre a precise didascalie, presenta una rapidità e una concisione notevoli, mentre il terzo atto è decisamente inferiore, sia per l'inconsistenza del personaggio di Euridice sia per il lieto fine cui già abbiamo accennato. Per quanto riguarda il libretto dell'Alceste, Gluck lodò il C. per aver sottolineato le passioni e l'atmosfera drammatica eliminando figure posticce e retoriche (proprie dell'opera italiana). Il lavoro, notevole per l'incisività e la forza di alcuni dialoghi, e per il potere di sintesi evidente in alcune scene, presenta però, oltre a uno schema tipico dell'epoca (ascensione, culmine, discesa, lieto fine), un andamento discontinuo e numerose banalità. Non solo il rinvio del sacrificio di Alceste non commuove lo spettatore, ma crea una staticità di azione piuttosto monotona; inoltre il personaggio di Admeto risulta amorfo e privo di quella vibrante partecipazione alla tragedia che da lui ci si dovrebbe attendere. In ogni caso sia Orfeo sia Alceste sono opere che hanno resistito all'usura del tempo perché la musica di Gluck, oltre a valorizzarne le pagine più felici, spesso risolve con la bellezza delle sue armonie quelle meno valide. Paride ed Elena, con la quale si concluse la collaborazione fra il C. e Gluck, è decisamente inferiore alle opere precedenti, sia per la prolissità di alcuni dialoghi sia per la tendenza involutiva che in essa si riscontra. Come, tuttavia, rileva il Fehr, l'influenza determinata dalla collaborazione con Gluck ("L'influenza della riforma di Gluck, fu tanto grande sulla critica italiana quanto fu debole sull'opera italiana") si fece sentire anche nel C. più nelle affermazioni teoriche che nella pratica, tanto è vero che nei lavori teatrali del C. seguiti alle tre opere gluckiane gli elementi innovatori sono meno evidenti. Il contributo del librettista livornese alla riforma del melodramma non è per questo meno importante. Egli, pur sostenendo ripetutamente che il pubblico italiano non era ancora maturo per la tragedia, continuò, nell'epistolario e nel libello contro l'Arteaga, a sottolineare quei principî di classicità, di semplicità e di intensità espressiva nei quali credeva.
Fonti e Bibl.: Novelle letterarie di Firenze, n.s., XV (1784), coll. 273-76; E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri…, III, Venezia 1836, pp. 149 s.; F. Pera, Ricordi e biogr. livornesi, Livorno 1867, pp. 216 ss.; G. Lazzeri, La vita e l'opera letter. di R. C. Saggio critico con app. di docc. ined. orari, Città di Castello 1907; M. Fehr, A. Zeno, Zürich 1912, pp. 29 ss.; J. G. Prod'homme, Deuxcollaborateurs ital. de Gluck…, in Riv. mus. ital., XXIII (1916), pp. 32-65; O. Respighi-S. Luciani, Orpheus, Firenze 1925, pp. 268-71; A. Della Corte, Gluck e i suoi tempi, Firenze 1948, pp. 80-141 passim;R. Giazotto, Poesia melodrammatica e pensiero critico nel Settecento, Milano 1952, ad Indicem;M. Fubini, R. de' C. Nota biografico-critica, in P. Metastasio, Opere, Milano-Napoli 1968, pp. 837-844; A. R. Parra, Le esperienze inglesi di R. de' C., in Riv. di lett. moderne e comparate, XXII(1970), pp. 21-56; Enc. Ital., VIII, p. 484; Enc. d. Spett., II, coll. 1534-1538 (con bibl.); La Musica, Diz., I, p. 329.