ZEN, Ranieri
– Nacque a Venezia il 12 novembre 1575 da Francesco Maria di Marco e dalla sua seconda moglie, Contarina Giustinian di Francesco.
Modesta la carriera politica del padre che però, ritrovandosi unico figlio maschio, poté disporre delle risorse per far intraprendere al figlio un cursus honorum del livello più elevato. Zen infatti rimase ben presto l’unico dei figli di Francesco Maria in grado di esercitare un ruolo nella politica veneziana; dei suoi due fratelli, infatti, Marco si fece frate e Andrea morì ventinovenne, nel 1603, per esser caduto da un balcone.
Due anni prima Zen era stato eletto savio agli Ordini per il semestre marzo-settembre 1601 e la stessa carica ricoprì nel secondo semestre 1602 assieme a Francesco Querini, con il quale fu inviato a Lesina, in Dalmazia, per un’ispezione: una missione di questo tipo rientrava infatti nei compiti dei savi agli Ordini, che esercitavano talune competenze nello Stato da Mar.
Nel 1606 sposò Maria Barbarigo di Andrea, da cui ebbe un figlio, Francesco Maria; quindi intraprese la carriera politica e, conclusa la crisi dell’Interdetto, il 26 giugno 1608 fu eletto podestà a Crema, da dove sarebbe ripartito il 4 luglio 1610. Va detto a questo proposito che il suo nome non è registrato dal Segretario alle voci tra i rettori di Crema, forse per un fraintendimento con il nome del suo successore, Francesco Zen di Marco, di altro ramo. E tuttavia la sua permanenza nella città lombarda non fu defilata, perché ebbe modo di esibire quelli che sarebbero divenuti gli aspetti fondamentali della sua indole: fierezza e intransigenza. Donde lo scontro con Nicolò Dolfin, che aveva ottenuto in enfiteusi i beni della ricca abbazia del Cerreto; costui, accampando pretesti, si rifiutava di condurre in città il frumento dei suoi campi, ma dovette cedere di fronte al risoluto contegno del rettore.
Neppure in ambito privato Zen trascorse mesi tranquilli, perché perse la moglie, che fu sepolta nella chiesa delle monache di S. Maria della Stella. Da lei Zen aveva avuto un figlio maschio, ma, trascorso il periodo di lutto, decise di risposarsi nella speranza di avere altri figli, dal momento che era rimasto l’unico della famiglia in grado di assicurarle una discendenza legittima. Pertanto il 23 novembre 1611 sposò Cornelia Contarini di Bertuccio, da cui ebbe un secondo maschio, Antonio Maria, e una figlia, Contarina, sposata in prime nozze a Michele Priuli e in seconde a Francesco Grimani.
Riprese così l’attività politica e dall’ottobre 1613 al marzo 1614 fu savio di Terraferma; quindi (29 luglio 1614) fu eletto savio alla Mercanzia, ma poco dopo (27 settembre) nuovamente savio di Terraferma. Non portò a termine neppure questo incarico, dal momento che l’11 ottobre venne eletto ambasciatore a Carlo Emanuele, duca di Savoia, per indurlo a deporre le armi contro gli spagnoli. Era in corso la prima guerra del Monferrato, che vedeva il Savoia contrapporsi ai Gonzaga. Venezia non intervenne direttamente nel conflitto, limitandosi a soccorrere finanziariamente il duca di Mantova Ferdinando Gonzaga contro l’aggressivo dinamismo sabaudo. Forse Zen contribuì a suggerire questa linea di condotta, dal momento che i suoi dispacci al Senato non nascondono ostilità nei confronti di Carlo Emanuele. Nel mezzo di una situazione politica fluida e incerta, spedì il suo ultimo dispaccio il 2 dicembre 1615.
A Venezia egli fu nuovamente savio di Terraferma nel primo semestre 1616 e il primo marzo 1617 risultò eletto ambasciatore all’imperatore Mattia. Tuttavia non lasciò la sua città, rinviando la partenza fino a che non fu eletto ad altri incarichi, per cui a rappresentare la Repubblica presso la corte imperiale fu il segretario Valerio Antelmi. Zen infatti venne eletto al capitanato di Bergamo (25 settembre 1617, dispensato il 26 novembre) e neppure due mesi dopo (19 dicembre dello stesso 1617) a un’ambasceria straordinaria, ancora in Savoia.
A conferma dell’urgenza dettata dalla minaccia spagnola, le commissioni gli furono consegnate appena tre giorni dopo, il 22 dicembre 1617 (erra pertanto Luigi Firpo dove afferma che non gli furono consegnate, cfr. Relazioni [...] Savoia, 1983, p. XV); partì subito e inviò il primo dispaccio da Mantova il 30 dicembre, l’ultimo l’avrebbe spedito da Torino il 19 maggio 1619. Nella capitale sabauda fu presentato al duca, il 10 dicembre, dal predecessore Antonio Donà, eletto ambasciatore in Inghilterra. E proprio Donà avrebbe dato modo di offrire a Zen l’opportunità di fornire una chiara dimostrazione della propria dirittura morale, rivelando alla Signoria le malversazioni compiute dal predecessore nel gestire gli aiuti inviati dalla Repubblica al duca di Savoia. Pertanto Donà dovette interrompere la legazione inglese per venire a Venezia a discolparsi; cosa che gli riuscì senza troppi affanni, per cui potè ritornare a riprendere il suo posto presso la corte inglese. Ma quasi contemporaneamente Zen, grazie ai contatti stabiliti con i mercanti torinesi, produsse nuove inequivocabili prove della sua colpevolezza, per cui il 20 giugno 1619 Donà venne condannato a venire privato del rango nobiliare ed esser bandito dai domini della Serenissima.
Tornato a Venezia, Zen fu savio del Consiglio per il secondo semestre 1619; mentre esercitava la carica, il 15 giugno fu eletto ambasciatore a Roma. Tuttavia le commissioni gli vennero consegnate solo il 3 aprile 1621, nello stesso giorno in cui veniva chiamato a far parte dell’ambasceria straordinaria per l’elezione di Gregorio XV.
Giunse a Roma il 22 maggio e vi si fermò fino al 30 ottobre 1623; da giugno a settembre 1623 fu raggiunto da Girolamo Soranzo, nominato ambasciatore straordinario per cercare di appianare il contrasto sorto fra le due corti a motivo della immissione del Reno nel Po. Nella relazione, letta in Senato nel novembre 1623, Zen riferisce sulla morte di papa Gregorio e la recente successione di Urbano VIII, da lui conosciuto quando era cardinale, precisando tuttavia di non essere in grado di formarne un giudizio «perché i Cardinali tutti, et quelli che particolarmente aspirano alla suprema dignità, pongono studio così esatto nel cuoprir le proprie inclinationi, che vuol essere ben scaltro et sagace chi arriva ad odorarle» (Le relazioni degli Stati europei [...] Roma, 1877, p. 141). E tuttavia, al di là di qualche piccolo screzio come l’ira manifestata dal papa alla notizia che il Senato intendeva apporre un’epigrafe in onore del Sarpi, Zen riteneva che papa Barberini provasse sincera stima per la Repubblica e intendesse perseguire con essa una politica di buon vicinato e solidarietà.
A Venezia fu savio del Consiglio per il primo semestre 1624; poi, il 21 settembre, risultò eletto ambasciatore straordinario a Roma per l’elevazione al soglio pontificio dello stesso Urbano VIII, eletto oltre un anno prima. La missione, di cui facevano parte anche Girolamo Corner, Francesco Erizzo e Girolamo Soranzo, ebbe luogo fra il dicembre 1624 e il gennaio 1625, ma il soggiorno romano dei legati non fu amichevole; il pontefice, infatti, era adirato con la Serenissima perché le truppe franco-svizzere, da essa appoggiate, avevano concluso l’occupazione della Valtellina, cacciandone i presidi cattolici degli spagnoli.
Il 1° febbraio 1625 venne eletto Aggiunto ai Riformatori dello Studio di Padova, dopo di che la sua esistenza conobbe una svolta radicale, che l’avrebbe portato al centro del dibattito politico veneziano per circa tre anni. Sin dal ritorno dalla prima ambasceria romana, nello scorcio del 1623, aveva manifestato, o meglio rafforzato, la sua opposizione all’eccessivo potere del Consiglio dei dieci e del ceto dei segretari, che avevano acquisito una notevole ingerenza nell’apparato amministrativo della Repubblica, approfittando dell’incessante rotazione delle cariche affidate al patriziato.
L’incidente decisivo si verificò nel marzo 1625, quando, nel corso di una riunione del Collegio, il savio del Consiglio Giovanni Da Mula aveva proposto misure severe nei confronti dei patrizi morosi verso il fisco; a quel punto Zen, che il 24 novembre 1624 era stato eletto consigliere per il sestiere di Cannaregio, aveva preso le difese dei poveri, sostenendo che non avevano soddisfatto ai loro obblighi perché costretti dalla miseria. Dal contrasto delle opinioni si passò all’alterco, subentrarono incomprensioni e il doge si ritenne offeso dalla condotta di Zen, che pertanto venne bandito per dieci anni dai domini della Repubblica, offrendogli come alternativa la relegazione per un anno nella fortezza di Palmanova. Senonché Zen non scelse nessuna delle due opzioni e rimase nella sua casa per più di un anno, fino a quando, nel giugno 1626, il Consiglio dei dieci ordinò l’annullamento della pena, anche per calmare gli animi dei tanti concittadini che vedevano in lui un difensore delle libertà repubblicane.
Poco più di un anno dopo, il 1° agosto 1627, venne addirittura eletto nel Consiglio dei dieci, dove però riprese a polemizzare con il doge Giovanni Corner, accusandolo di aver trasgredito alle leggi per favorire i propri figli, tra i quali il cardinale Federico e il primicerio di S. Marco, Marcantonio. Il fermento esplose a fine ottobre, quando Zen lesse davanti alla Signoria una severa ammonizione per le infrazioni commesse dal doge; quindi, alla fine di dicembre 1627, un figlio di costui, Giorgio Corner, ferì con un’accetta Zen all’uscita di palazzo ducale, lasciandolo sanguinante a terra. Subito scoperto, Corner riparò nello Stato pontificio, a Ferrara.
Quasi in riparazione dell’offesa subita, il 3 luglio 1628 Zen riuscì nuovamente eletto nel Consiglio dei dieci, ma l’uomo pareva ormai preso da una sorta di smania esibizionistica; il difensore della libertà repubblicana si era ormai trasformato in un tribuno inquieto e ambizioso. Di qui il rinnovarsi degli attacchi contro il doge e la sua famiglia, per cui, il 23 luglio 1628, dopo un serrato battibecco fra Zen e il suo collega Pietro Contarini, il Consiglio dei dieci ordinò l’arresto del primo per aver calunniato il Tribunale supremo. La durezza della sentenza parve eccessiva anche a molti patrizi di area moderata, per cui a fine agosto si verificò in Maggior Consiglio la mancata elezione di tre Consiglieri ducali, indice di un malessere che solitamente sfociava in una ‘correzione’ costituzionale.
Nella fattispecie, questa fu sentita da molti come il completamento di quella del 1582-83, che aveva ridimensionato le competenze del Consiglio dei dieci. Quale primo provvedimento, i Correttori proposero l’annullamento della sentenza che colpiva Zen, che pertanto il 19 settembre poté far ritorno nella sua abitazione a S. Marcuola. La correzione era iniziata da una settimana senza formulare proposte decisamente innovative; per di più, quando si trattava di chiudere, il 21 settembre Zen riprese la questione dalle fondamenta, dilungandosi sulle personali vicende e le ingiustizie patite. Finiva così, nello sfilacciamento di molteplici proposte e nell’inconcludente prolissità oratoria del suo principale attore, la correzione, senza riuscire nel suo fine specifico, ossia privare il Consiglio dei dieci delle sue prerogative in materia criminale. Gli unici risultati conseguiti furono pertanto di riservare al Senato la nomina dei segretari e di abolire la Zonta, ossia la facoltà di cooptare tra i Dieci specifiche commissioni nominate di volta in volta. Aveva termine così, dopo la crisi dell’Interdetto e la guerra di Gradisca, uno degli ultimi tentativi di riproporre la Repubblica sulla scena europea.
Suona pertanto come atto consolatorio la nomina di Zen a procuratore di S. Marco de Citra, conferitagli il 22 maggio 1629, mentre Venezia era coinvolta nella guerra di Mantova; ricevette voti anche nell’elezione del nuovo doge, che il 18 gennaio 1630 portò alla scelta di un suo amico, Nicolò Contarini; non per questo Zen pose fine alla battaglia contro gli ecclesiastici Corner, in particolare il cardinale Federico, che dovette rinunciare alla ricca diocesi padovana. In seguito Zen fu eletto provveditore all’Arsenale (3 luglio 1632), aggiunto ai riformatori dello Studio di Padova (28 giugno 1636), ambasciatore straordinario all’imperatore Ferdinando III, per congratularsi dell’ascesa al trono (29 marzo 1637).
La missione, di cui faceva parte anche Angelo Contarini, si svolse dal 14 settembre alla fine di ottobre, e i due lessero la relazione in Senato il 18 febbraio 1638. Relazione – scrivono – in apparenza «breve, et di solo complimento», ma risultata invece lunga e dettagliata «per i negoti importantissimi, che ci sono passati per le mani... et per le congiunture correnti gravissime» (Relazioni [...] Germania, III, 1968, p. 849). Non si trattava solo dell’annosa controversia sulla giurisdizione dell’Adriatico o delle usuali questioni confinarie e daziarie, quanto delle fasi conclusive della guerra dei Trent’anni nelle sue propaggini valtellinese e mantovana, che più direttamente toccavano la Repubblica.
Al ritorno in patria Zen venne eletto inquisitore sopra le Beccarie (27 marzo 1638), savio del Consiglio per il primo semestre 1639, conservatore delle Leggi (29 novembre 1642), aggiunto ai riformatori dello Studio di Padova (23 maggio 1643), savio del Consiglio da ottobre a marzo 1644, esecutore delle deliberazioni del Senato (21 dicembre 1643), provveditore all’Armar (21 luglio 1645), ancora aggiunto ai riformatori dello Studio di Padova (5 dicembre 1645).
Morì a Venezia il 3 novembre 1647.
Fu un personaggio discusso, sul quale neppure oggi è facile formulare un giudizio, se non quello di un uomo risoluto, coraggioso, eloquente, animato da alte intenzioni, ma incapace di realizzarle perché troppo spesso incoerente, sospinto dalla vanità a intemperanze tribunizie, e infine inconcludente.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. ven., 23: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii...,VII, p. 364; Segretario alle voci. Elez. Maggior Consiglio, regg. 12, c. 169; 15, c. 114; Segretario alle voci. Elez. Pregadi, regg. 7, c. 20; 9, cc. 4, 12, 13, 44, 56, 68, 71; 10, cc. 1, 67, 68, 185; 11, cc. 1, 60, 67; 13, cc. 4, 28, 29, 49, 60, 68; 14, cc. 1, 26, 49; 15, cc. 1, 26, 30, 49, 60, 116; Capi del Consiglio dei Dieci. Lettere di rettori. Crema, b. 68, nn. 59-63; Senato dispacci Savoia, filze 37-39, 40 nn. 1-32, 35-38; 45-49, passim; Senato dispacci Roma, filze 84-89, 91 (quest’ultima, inconsultabile, riguarda l’ambasceria straordinaria del 1624-25); Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. It., VII.833 (= 8912): Consegli, c. 97r; E.A. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, p. 506, VI, 1853, pp. 61, 836; Dispacci di Savoia di Renieri Zeno ambasciatore straordinario a Carlo Emanuele I, in Le relazioni degli Stati europei lette in Senato dagli ambasciatori veneziani nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. 3, I, Torino, Venezia 1862, pp. 211-228, 276-296; ibid., s. 3, Roma, I, Venezia 1877, pp. 139-193; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, ad ind.; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, II, Germania (1506-1554), Torino 1970, p. XLVII; III, Germania (1557-1654), 1968, pp. 849-886; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, Venezia 1974 , pp. 143-158, 161-163; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, XI, Savoia (1496-1797), Torino 1983, pp. XIV s.; A. Viggiano, Giustizia, disciplina e ordine pubblico, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di G. Cozzi - R. Prodi, Roma 1994, pp. 855-857; M. Casini, Cerimoniali, ibid., VII, La Venezia barocca, a cura di G. Benzoni - G. Cozzi, Roma 1997, p. 122.