RAPINA - Storia del diritto
Nell'antico diritto romano la rapina (vi bona rapta), prima che un delitto a sé, è una specie di furto: da questa circostanza deriva la sua inclusione nei delicta o maleficia, atti illeciti che sono fonti di obligatio. Ma nell'anno 66 a. C. il pretore M. Terenzio Lucullo emanò un edictum col quale creava un'actio in quadruplum contro chi saccheggiasse beni altrui hominibus armatis coactisve, cioè con bande armate o anche con folla disarmata. L'editto mirava, secondo ogni verosimiglianza, alla repressione di sopraffazioni rivoluzionarie; ma tuttavia rappresentò, si può dire, il primo passo verso la costruzione del delitto di rapina, distinto dal delitto di furto in cui per l'innanzi, secondo lo ius civile, rientrava. Se sia stata l'opera solerte della giurisprudenza romana a estendere anche alla violenza esercitata da uno solo la disposizione edittale sugli homines armati coactive o se invece, come si può ritenere più probabile, un altro editto riguardante i bona vi rapta sia stato emanato dopo quello del pretore Lucullo, è incerto e disputato. Certo è che, anche quando la violenza è esercitata da uno solo, è data contro costui un'actio in quadruplum, penale, per ciò annale come tutte le azioni penali di origine pretoria, sostituita dopo l'anno da un'actio in factum diretta solamente al simplum. Nel diritto romano classico il quadruplum conseguibile con l'azione penale rappresenta la misura della pena per il delitto commesso, e soltanto la pena: per la restituzione dei bona rapta, o per il risarcimento nella misura del loro valore, provvedono altre azioni che, contrapponendosi all'azione penale e allo scopo di questa, si dicono reipersecutoriae. Nella legislazione giustinianea la pretoria actio in quadruplum si scolora come azione penale e diventa reipersecutoria e poenalis insieme: cioè actio mixta. Nel quadruplum è poena soltanto ciò che eccede il valore della cosa rapita: chi esperisce, pertanto, l'actio vi bonorum raptorum nel diritto giustinianeo consegue come poena solamente il triplum.
Poiché la rapina è compresa nel concetto ampio del furium, ne consegue naturalmente che l'actio vi bonorum raptorum concorre con l'acto furti.
Secondo ciò che risulta da testi fondamentali (Dig., XLVII, 2, de furtis, 89 [88], e XLVII, 8, vi bon. rapt.,1), chi ha esperita l'azione di rapina non può in seguito esperire l'azione di furto; ma, se questa è intentata per prima, non sembra escluso l'esperimento dell'altra. Molto controverso è tuttavia ciò che consegue chi intenta l'actio vi bonorum raptorum dopo avere esperita l'actio furti. C. Ferrini ritiene che l'azione fosse anche in questo caso data nella consueta misura del quadraplum, e la dottrina del Ferrini sembra più rispondere allo spirito del diritto romano classico; altri pensa, con minor fondamento, che l'actio facesse conseguire solamente quel simplum per cui è reipersecutoria; altri, infine, propende a credere che spettasse soltanto per il residuo e così (esperita l'actio furti nec manifesti che era in duplum) facesse conseguire solamente il duplum: questa è certo la soluzione voluta dal legislatore nel diritto giustinianeo.
È, inoltre, da avvertire che la persecuzione privata di questo reato concorre con la persecuzione pubblica già entro l'età classica, giacché il rapinatore incorre nelle sanzioni delle leggi sulla violenza e specialmente della legge Giulia. Nel diritto giustinianeo la persecuzione pubblica prevale, in quanto che il diritto penale privato è in sfacelo.
Nel periodo barbarico, mentre commette furto chi sottrae di notte una cosa, commette rapina (schacum "sacco, saccheggio") chi la sottrae di giorno: elemento del furto è, oltre il dolo, la segretezza. Gli statuti medievali contemplano il grave pericolo per la sicurezza individuale derivante dai ladroni di strada, chiamati in qualche luogo assassini, che erano generalmente i banditi. La pena della confisca, comminata dai primi statuti in chi assaltava altrui sulla strada, fu presto sostituita dalla forca, esacerbata con altri tormenti: i giudizî sul reato di rapina furono sciolti dalle ordinarie forme e solennità. Il codice di Pietro Leopoldo applica a questo reato la pena dei lavori pubblici a vita, estendibile "secondo le circostanze fino a quella dell'ultimo supplizio inclusivamente"; il codice di Giuseppe II commina il carcere durissimo con incatenazione da quindici anni a trenta. Pietro Leopoldo e Giuseppe II, tuttavia, e gli altri legislatori del secolo XVIII, abbandonano il concetto della partecipazione passiva a un tale reato: concetto, che era stato accolto invece da legislazioni anteriori a carico di coloro i quali, avendo udito le grida dell'aggredito, non fossero accorsi in suo aiuto. Alcuni statuti, infatti, li condannavano a risarcire il danno che l'aggredito aveva subito per la loro paura o negligenza; altre leggi obbligavano a denunziare i rei di rapina.
Bibl.: V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di dir. rom., 3ª ed., Napoli 1934; E. Albertario, in Bull. Ist. dir. rom., 1913; G. Salvioli, Storia del diritto it., 9ª ed., Torino 1930, p. 671; A. Pertile, Storia del dir. it., 2ª ed., Torino 1892, V, p. 612 segg.
Diritto penale moderno. - La rapina, l'estorsione e il ricatto hanno comune il mezzo di consumazione del delitto in quanto che si commettono mediante violenza o minaccia alla persona. Tuttavia i codici tennero sempre distinti tali delitti per alcune note differenziali secondarie, e non sempre le varie legislazioni seppero cogliere tali note in forma chiara e inequivocabile.
Forse non a torto v'è chi sostiene che le tre ipotesi potrebbero essere unificate sotto il comune denominatore caratterizzato dalla violenza o minaccia alla persona. Il codice penale italiano del 1930 è stato tra i più felici nel differenziare i tre delitti: la rapina si distingue dall'estorsione per il fatto che, mentre nella rapina l'agente s'impossessa egli stesso della cosa altrui, nell'estorsione la persona che è in possesso della cosa viene obbligata a fare o a non fare alcunché per procurare all'agente un ingiusto profitto. Un altro elemento di differenziazione tra le due ipotesi delittuose il codice italiano ha riscontrato nel conseguimento dell'ingiusto profitto, perché, mentre nella rapina basta il fine di procurarsi un profitto, nell'estorsione si esige come elemento costitutivo l'effettivo conseguimento del profitto. Segnalate queste note differenziali, occorre tener presenti le note comuni ai due delitti, che possono riassumersi nell'uso della violenza o della minaccia alla persona per la consumazione del delitto e nel nesso di causalità tra la violenza o la minaccia e l'impossessamento nella rapina, o il fare od omettere di fare nell'estorsione. La violenza o la minaccia possono essere dirette sia contro la persona che possiede la cosa, sia contro una terza persona, purché il mezzo usato sia la causa dell'effettivo compimento del reato. Neanche è necessario che la violenza o la minaccia siano gravi. Il nuovo codice ha omesso l'indicazione di questo requisito con tutte le altre specificazioni contenute negli articoli 406 e 409 del codice del 1889, perché il nuovo legislatore ha ritenuto che quello che occorre è l'idoneità del mezzo usato, e questo concetto non può essere reso con aprioristiche qualificazioni, ma bisogna che nei singoli casi venga riservato al magistrato il giudizio sulla reale efficienza della violenza o della minaccia per stabilire quel nesso di causalità, che è base fondamentale dell'incriminazione. In entrambi i delitti occorre altresì l'elemento dell'ingiusto profitto, pur con la differente funzione che già abbiamo indicato. Ingiusto profitto significa profitto non dovuto o per lo meno non preteso, perché altrimenti ad altre ipotesi delittuose il fatto potrebbe essere rapportato, come ad esempio la ragion fattasi (v.) e la violenza privata (v. violenza).
Nell'art. 628 il codice penale del 1930 prevede due forme di rapina. La prima consiste nell'impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene mediante violenza alla persona o minaccia per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. La seconda forma consiste nell'adoperare violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l'impunità. Come si vede, il nuovo codice non prevede la terza ipotesi di rapina, che era espressamente preveduta nell'ultima parte dell'art. 406 del codice Zanardelli e conosciuta col nome di strappo (volgarmente scippo), consistente nella sottrazione compiuta mediante violenza diretta alla cosa, anche se la violenza indirettamente avesse riverberi sulla persona. Tale ipotesi è nella nuova legislazione preveduta come furto aggravato dalla violenza (art. 625, n. 4), perché precisamente il furto violento si distingue dalla rapina per la direzione della violenza: se questa è diretta alla persona si ha la rapina, mentre se è diretta alla cosa si è nel campo del furto aggravato dalle circostanze del mezzo col quale la sottrazione viene compiuta. In sostanza nel furto violento permane quella violenza alla cosa che caratterizza il furto, ma essa si realizza in una forma più energica, mentre nella rapina interviene un fatto nuovo che giustifica la diversa denominazione del delitto e la più grave sanzione.
Il codice penale del 1889 prevedeva due forme di estorsione: l'estorsione propria (art. 409) consistente nel costringere alcuno a mandare, depositare o mettere a disposizione del colpevole denaro, cose o altro, e la pseudo-estorsione, rapina di atti (art. 407), consistente nel costringere taluno a consegnare, distruggere o sottoscrivere un atto. Il codice del 1930 ha fuso le due disposizioni e ha stabilito che l'estorsione consiste nel fatto di chi, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o a omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Con questa locuzione l'intervallo di tempo tra l'uso della violenza e l'impossessamento, che per il codice abrogato era un elemento essenziale dell'estorsione per distinguerla dalla rapina, non ha più alcuna importanza. Col nuovo ordinamento, come già abbiamo detto, la nota caratteristica dell'estorsione sta nel contegno del paziente, che è un facere o un non facere, mentre nella rapina è un pati.
La pena perda rapina e per l'estorsione è la reclusione da tre a dieci anni e la multa di L. 5000 a 20.000. Tale pena è aumentata da un terzo alla metà, se la violenza o minaccia è commessa con armi o da persona travisata o da più persone riunite, ovvero se la violenza consiste nel porre taluno in stato d'incapacità di volere o di agire.
Il delitto di ricatto è nel nuovo codice definito con maggiore precisione tecnica: sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, e consiste nel sequestrare una persona per conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto come prezzo della liberazione.
L'elemento materiale del delitto è il sequestro di persona, e il delitto si distingue da quello preveduto dall'art. 605 per lo scopo di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione. La pena è la reclusione da otto a quindici anni e la multa da lire 10.000 a 20.000. Circostanza aggravante è che il colpevole consegua l'intento, e in tal caso la pena è la reclusione da dodici a diciotto anni. Il nuovo codice non riproduce la disposizione dell'art. 411 del codice abrogato, che faceva un trattamento più mite ai portatori di messaggi e dichiarava per implicito l'impunità ai portatori che avessero dato avviso all'autorità prima di compiere la loro azione di intermediarî. Tale disposizione non è riprodotta, perché non sembrò opportuna la speciale mitezza di pena per i portatori di messaggi, che sono veri e proprî concorrenti nel reato, e sembrò inutile la dichiarazione d'impunità per i portatori che avessero dato notizia del fatto all'autorità prima di compiere l'azione, perché, in tal caso, l'agente col suo fatto volontariamente compiuto toglie all'azione successiva ogni idoneità a conseguire l'intento, onde si versa in tema di reato impossibile.
Bibl.: G. B. Impallomeni, Codice penale italiano, III, Firenze 1891, p. 273; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VIII, Torino 1919, p. 311 segg.; Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, parte 2ª, Roma 1929, p. 450; C. Saltelli-E. Romano di Falco, Commento teorico pratico al nuovo codice penale, II, parte 2ª, Roma 1930, p. 1072; G. Maggiore, Principii di diritto penale, II, Bologna 1934, p. 542.