Rapporti tra concordato preventivo e fallimento
Le nuove frontiere del diritto fallimentare, e il sovrapporsi di contratti e procedure per la salvaguardia dell’impresa pone il problema dei rapporti tra soluzioni diverse, e specialmente tra concordato preventivo e fallimento, facendo cadere in crisi il tradizionale criterio della prevenzione (dell’esame della domanda di concordato rispetto alla cognizione sulla domanda di fallimento).
La tutela del credito nelle negoziazioni sulla crisi di impresa costituisce l’essenziale nodo problematico dell’intero diritto negoziale della crisi d’impresa1. La negoziazione del debito in caso di insolvenza dell’imprenditore si è sempre svolta, fin dalle origini medievali dell’istituto fallimentare, tra questi e i suoi creditori. L’interesse preso di mira e tutelato già nelle legislazioni storiche fu ed è l’interesse dei creditori. Le ricorrenti giustificazioni volte a legittimare il fenomeno della negoziazione sulla crisi di impresa, e dunque la sospensione del severo trattamento fallimentare riservato al debitore insolvente, sono immancabilmente fondate sulla realizzazione dell’interesse dei creditori, dalla cui volontà espressa per consenso (nei contratti sulla crisi di impresa) o per deliberazione (nei concordati preventivi), dipende l’esito ultimo del negoziato. Da quest’angolatura emerge chiaramente come la realizzazione dell’interesse creditorio è ragionevolmente affidata ai creditori medesimi che, decidendo sulla proposta del debitore circa la composizione della debitoria, si assicurano il proprio interesse nelle forme dell’autotutela.
Si è discusso e si discute della tutela dei creditori, specie nell’ambito del concordato preventivo, con riferimento ai limiti legali di organizzazione dell’offerta ai creditori (proposta concordataria), oltre che indagando l’estensione dei poteri del tribunale con riguardo al sindacato del piano di ristrutturazione dei debiti ipotizzato dal debitore.
Invece, la riflessione non si è concentrata particolarmente sulla fase preliminare, per così dire, della elaborazione della proposta contrattuale o della mozione concordataria che il debitore sottopone all’apprezzamento dei creditori concorsuali. In quella fase proprio il fitto dialogo con i creditori consente di verificare la possibilità stessa di una soluzione negoziale della crisi d’impresa. Qualora il debitore non riesca a mostrarsi sufficientemente persuasivo, i creditori potrebbero abbandonare il tavolo delle trattative ed esercitare l’autotutela coattiva del credito, avviando azioni esecutive individuali o presentando ricorso per la dichiarazione di fallimento.
In questo si realizza la selezione concorrenziale delle imprese sul mercato. Se non che, in concreto, tutto ciò potrebbe rivelarsi anche sconveniente per gli stessi creditori, che reagendo scompostamente ed in maniera disorganizzata allo spauracchio dell’insolvenza del comune debitore potrebbero cagionare l’effetto deleterio di depauperarne ulteriormente il patrimonio.
Negli ultimi tempi sono state varate discipline di contenimento dei poteri di autotutela del credito in funzione di una maggiore possibilità per il debitore insolvente di organizzare la proposta di soluzione della crisi d’impresa al riparo dagli attacchi, infatti inibiti, dei creditori insoddisfatti e sfiduciati. Assistiamo pertanto alle regole sulle trattative protette negli accordi di ristrutturazione dei debiti e alla disciplina, nuova e già rinnovata, del cd. concordato preventivo con riserva. Ossia a discipline volte a disinnescare i poteri di autotutela del credito normalmente riconosciuti nel diritto civile.
Espongo qualche riflessione su queste novità, concentrandomi sulla figura concordataria in ragione anche dell’importante arresto di Cass., S.U., 15.5.2015, n. 9936, che ribadendo il criterio della prevalenza della decisione sulla domanda di concordato rispetto alla dichiarazione di fallimento, ha però precisato la necessità di reprimere gli usi strumentali dello strumento concordatario.
In generale, la pendenza di una procedura concorsuale determina la sospensione di altre procedure esecutive intraprese e il divieto di intraprenderne di nuove (cfr. artt. 51 e 168 l. fall). In particolare, come la dichiarazione di fallimento determina l’improcedibilità delle azioni esecutive individuali, il deposito della domanda di concordato preventivo determina la sospensione della decisione sulla dichiarazione di fallimento2. Questa ultima evenienza rivela però una valenza altamente problematica. Quando cade in questione il rapporto tra rimedi che prevengono e tendono ad evitare la dichiarazione di fallimento e il fallimento medesimo, la regola della sospensione non esprime più soltanto un’esigenza organizzativa stabilendo un rapporto tra due diverse procedure concorsuali, ma contiene anche un effetto di salvacondotto: sollevando al momento il debitore dalle conseguenze del fallimento.
Per questo effetto la domanda di concordato preventivo può essere strumentalizzata al fine di evitare una dichiarazione di fallimento3. Anche nella giurisprudenza di legittimità prendono corpo molteplici dubbi sulla figura del concordato, specie del concordato con riserva, facilmente strumentalizzabile da parte dei debitori che vogliano allontanare il fallimento. Cosicché è stata posta la domanda sull’attualità, nel nostro ordinamento, del principio della cd. prevalenza del concordato rispetto al fallimento.
Seguendo un’interpretazione teleologica, posto che funzione del concordato preventivo è di prevenire il fallimento attraverso una soluzione alternativa basata sull’accordo del debitore con la maggioranza dei creditori, dovrebbe discenderne che, prima di dichiarare il fallimento, debba necessariamente essere esaminata l’eventuale domanda di concordato presentata dal debitore per farsi luogo poi alla dichiarazione di fallimento solo in caso di mancata apertura della procedura minore ovvero fino alla conclusione di essa in senso negativo (ossia con la mancata approvazione ai sensi dell’art. 179 l. fall., o il rigetto ai sensi dell’art. 180, ult. co., l. fall.) ovvero a seguito della revoca dell’ammissione ai sensi dell’art. 173 l. fall. Questa è la posizione assunta da Cass. n. 9476/2014, la quale ha tuttavia rimarcato come per un diverso orientamento di legittimità – condiviso da Cass., S.U., 23.1.2013, n. 1521 – la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al fallimento non rappresenterebbe un fatto impeditivo alla relativa dichiarazione, ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del debitore. Pertanto, il principio della cd. prevalenza del concordato rispetto al fallimento, tradizionalmente desunto dalla vecchia formulazione dell’art. 160 l. fall. – per cui è in facoltà del debitore di chiedere il concordato finché il suo fallimento non sia stato dichiarato – avrebbe, a seguito dell’abrogazione di detto inciso, ceduto il passo ad una regola di coordinamento fra le due diverse procedure concorsuali, con la conseguenza che il fallimento potrebbe essere dichiarato anche in pendenza della procedura di concordato preventivo.
La sentenza n. 9936/2015 ha espresso il principio di diritto per cui in pendenza di un procedimento di concordato preventivo (anche con riserva) il fallimento può essere dichiarato soltanto quando: la domanda di concordato è dichiarata inammissibile; oppure l’ammissione alla procedura è stata revocata; o ancora la proposta di concordato non è stata approvata; o infine il concordato non è stato omologato (cfr. artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall.). Si puntualizza che, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, il fallimento può essere dichiarato durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo.
Qui non interessano le ragioni tecniche che sorreggono in dettaglio la soluzione positiva circa la sussistenza nel nostro ordinamento del principio di prevenzione4; la decisione le elenca esaurientemente, così come ricorda gli argomenti contrari a tali ragioni; per affermare tuttavia come dalla lettura del diritto positivo non dovrebbe emergere una soluzione sicura, né nel senso positivo né il quello negativo.
Piuttosto le Sezioni Unite prendono atto dell’esistenza nel nostro ordinamento di entrambe le procedure, e dunque della necessità di stabilire un coordinamento tra le stesse. La Corte ha cura di ribadire come la soluzione non possa essere rimessa al tribunale per governare il caso concreto: se si ammettesse un tale potere discrezionale in capo al tribunale, si scardinerebbe la coerenza sistematica dei limiti alla valutazione rimessa al tribunale in termini di fattibilità della domanda di concordato, limiti funzionali alla tutela delle prerogative privatistiche oggi riposte nell’esercizio del concordato preventivo, il quale si presenta come manifestazione di autonomia negoziale del debitore e dei suoi creditori. Allo stesso modo i giudici precisano come nemmeno sarebbe ragionevole accogliere un criterio fondato sulla priorità nella presentazione dei ricorsi e nel sopravvenire delle conseguenti decisioni (di ammissione al concordato preventivo o di fallimento). Dunque, quasi per una conclusione fondata sul criterio dell’esclusione, le S.U. ribadiscono la permanenza nel nostro ordinamento del principio di prevenzione del concordato rispetto al fallimento.
Affermano, in particolare, che al creditore che voglia contrapporsi alla domanda di concordato resta la strada endoprocessuale (di votazione contraria alla proposta e di opposizione alla omologazione del concordato). Tuttavia finché la procedura è pendente, quel creditore non potrà pretendere l’accoglimento della domanda di fallimento, anche se – si aggiunge – il relativo procedimento, non subendo nessun ulteriore tipo di condizionamento rispetto a quello esposto dall’essere pendente un procedimento di concordato, prosegue (e potrebbe anche concludersi anche in pendenza del concordato purché con una pronuncia di rigetto della domanda di fallimento).
La decisione riafferma la ragione fondativa della presenza, nel nostro sistema concorsuale, di una procedura come il concordato preventivo. Una procedura che, fin dalla denominazione, espone la vocazione a prevenire e ad evitare la dichiarazione di fallimento. Evidentemente qualsiasi diversa soluzione avrebbe determinato un forte depotenziamento dello strumento concordatario, ed anche una notevole mortificazione delle espressioni di autonomia negoziale che connotano chiaramente l’istituto riformato. La struttura decisoria del concordato è infatti peculiarizzata dall’effetto della temporanea inibizione dei poteri di autotutela del credito, inibizione finalizzata a consentire, in tesi, il miglior governo dell’insolvenza. L’esercizio scoordinato dei poteri di autotutela del credito da parte dei singoli creditori nei confronti del comune debitore insolvente rappresenta in effetti il principale problema di massimizzazione economica dei risultati delle operazioni (di natura contrattuale o concordataria) in rimedio all’insolvenza. Acconsentire che l’isolata iniziativa del creditore che richiede il fallimento possa prevalere rispetto alla domanda concordataria presentata dal debitore all’esame del tribunale e alla deliberazione dei creditori concorsuali, altro non significherebbe che far prevalere esiti potenzialmente irrazionali rispetto a procedure di coordinamento delle iniziative dei vari soggetti coinvolti nelle procedure di governo dell’insolvenza.
Ecco perché la decisione delle S.U. non stupisce e si fa condividere pienamente, e ciò al netto dell’esame dei singoli argomenti di dettaglio che infatti, come gli stessi giudici rilevano, non assumono mai un connotato di decisività nel senso dell’esistenza o dell’esclusione del principio di prevenzione del nostro sistema concorsuale.
Nella decisione a sezioni unite di cui discorriamo è affermato un altro principio di diritto, secondo cui la domanda di concordato preventivo (anche presentata con riserva), depositata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso uno strumento di autonomia, ma con lo scopo manifesto di impedire e procrastinare la dichiarazione di fallimento, è inammissibile perché si risolve in un abuso del processo. Ciò in quanto la parte – utilizzando strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o diverse rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti – si pone in contraddizione con i canoni della buona fede oggettiva e della lealtà processuale e con il principio del giusto processo.
Questo secondo principio di diritto non contraddice al precedente, ma stabilisce una regola di decisione per il giudice che, in ossequio alla principio della prevenzione del concordato preventivo sul fallimento, si disponga all’analisi della domanda di concordato per vagliarne l’ammissibilità.
L’uso strumentale della domanda di concordato preventivo, promossa dal debitore che, facendo affidamento sul principio della prevenzione, tende esclusivamente a dilazionare nel tempo la decisione sul fallimento, è definito “abusivo”.
La domanda di concordato, per il carattere di abusività che la pregiudica, deve essere sanzionata con una dichiarazione di inammissibilità: fondata appunto sulla condotta abusiva di esercizio della prerogativa processuale (abuso dello strumento processuale, o del processo).
La riaffermazione del principio di prevenzione è svolta nella preoccupazione di arginare in partenza i possibili usi strumentali dello strumento concordatario, che quella stessa riaffermazione potrebbe favorire.
Sembrerebbe allora che, scacciato dalla porta, la temuta discrezionalità giudiziale nella materia concordataria sia fatta rientrare dalla finestra.
Come si è anticipato, la Corte ribadisce il principio di prevenzione giacché giudica inaccettabile il richiamo – pur proposto nel precedente del 2013 – ad un criterio di semplice coordinamento tra le procedure, coordinamento rimesso al giudizio del tribunale al fine del congruo bilanciamento degli interessi di volta in volta in gioco. Tale bilanciamento, argomenta la sentenza oggetto di queste considerazioni, potrebbe essere realizzato solo attraverso l’esercizio di una discrezionalità giudiziaria che pare esclusa dal diritto positivo dei concordati specie in ordine alla fattibilità della proposta oltreché alla sua convenienza rispetto alle alternative concretamente praticabili, e dunque alla dichiarazione di fallimento.
Tuttavia, nella preoccupazione di evitare abusi, afferma che il tribunale deve vagliare la ammissibilità della proposta verificandone l’eventuale esercizio contrario a buona fede e alla lealtà processuale oltre che al principio del giusto processo. Dunque raccomanda al tribunale l’utilizzo nel giudizio di ammissibilità di principi del diritto e di clausole generali, ossia di norme senza fattispecie e ad oggetto indeterminato, le quali costituiscono da sempre il cruccio degli interpreti che si interrogano sul controllo della discrezionalità giudiziaria5.
In questa difficoltà si coglie nettamente il profondo significato del richiamo della Corte alla necessaria evidenza, all’indiscussa vistosità, dell’abuso processuale (che deve essere non soltanto presente ma anche evidente, dovendo essere “manifesto” lo scopo di strumentalizzazione avuto di mira del debitore): il quale abuso deve perciò imporsi all’osservatore con la forza del dato scontato.
Potremmo chiederci se il richiamo all’evidenza dell’abuso serva a giustificare in maniera sufficiente l’esigenza del controllo della discrezionalità giudiziaria.
Credo che la risposta debba essere data su piano di discorso diverso, in quanto nel suo ragionamento la Corte non incappa in nessuna aporia. Un qualsiasi criterio di coordinamento o contemperamento tra le opposte soluzioni del concordato preventivo e del fallimento richiederebbe da parte del tribunale un giudizio di merito sulla proposta concordataria. Tale giudizio deve escludersi, come la Corte esclude, non per l’incontrollata discrezionalità che potrebbe governarlo, ma per la diversa ragione che un tale vaglio di merito non è riconosciuto, nell’attuale diritto positivo, al giudice.
Viceversa il giudice ha il dovere di sindacare la ammissibilità della proposta concordataria. L’abuso processuale costituisce, in generale, una ragione di inammissibilità dell’esercizio della prerogativa processuale, essendo la stessa posta in essere per scopi diversi da quello tipicamente riconosciuto nell’ordinamento, e perciò strumentalizzata al raggiungimento di obiettivi combattuti nell’ordinamento medesimo.
Dunque la Corte non invita il giudice a misurare la propria discrezionalità, bensì lo induce ad esercitarla negli ambiti in cui la stessa deve essere praticata per diritto positivo.
1 Rinvio, in generale, a Di Marzio, F., Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano 2011.
2 L’impostazione della questione si legge in Cass., sez. I, ord. 30.4.2014, n. 9476.
3 Cfr. la ricostruzione di Pacchi, S., L’abuso del diritto nel concordato preventivo, in corso di pubblicazione su Giust. civ.
4 Cfr., comunque il commento di Amatore, R., Il principio di prevenzione alla prova delle sezioni unite, in Giustiziacivile.com, 5.6.2015.
5 Per ulteriori considerazioni e per il richiamo di taluni arresti nella sterminata bibliografia rinvio a Di Marzio, F., Ringiovanire il diritto?Spunti su concetti indeterminati e clausole generali, in Giust. civ., 2014, 336.