Rapporti tra giurisdizione penale e giurisdizione militare
Le questioni che si agitano nella giurisprudenza di legittimità sui rapporti tra giustizia penale e giustizia militare dimostrano che il tema del riparto tra la giurisdizione penale e quella speciale è ancora attuale, intersecandosi con il dibattito sulla perdurante necessità od opportunità di una giustizia penale militare.
Il regime del riparto tra le due giurisdizioni oscilla da sempre tra il principio di prevalenza della giurisdizione militare e quello inverso. Nel codice Rocco, emanato da «una “Nazione in armi”»1, si estendeva la giurisdizione militare anche a soggetti “estranei” e a fattispecie che non tutelavano interessi militari. Con l’entrata in vigore della Costituzione, quella prevalenza divenne inconciliabile con l’art. 103 Cost., e vi pose fine la l. 23.3.1956, n. 167 che riscrisse l’art. 264 c.p.mil.p., che regola la connessione tra reati comuni e militari, riconoscendo alla giurisdizione ordinaria quella vis actractiva fino ad allora attribuita alla giurisdizione militare. Nell’attuale codice di rito, la prevalenza della giurisdizione ordinaria, risulta “temperata” dalla regola (art. 13, co. 2, c.p.p.) per cui la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare; regola che mira ad evitare una riduzione eccessiva della giurisdizione militare2.
L’attuale riparto rivela profili di perdurante incertezza, se ancora oggi non c’è completa concordia su dati fondamentali, come quello del superamento o meno dell’art. 264 c.p.mil.p. Contro le pur ricorrenti prospettive di abolizione della giurisdizione speciale militano la complessità del necessario procedimento di revisione costituzionale, e il rischio di estendere al processo militare criticità e disfunzioni della giustizia ordinaria, in primis la lentezza delle procedure. E tuttavia c’è accordo circa la necessità di una riforma in grado di risolvere i problemi dei rapporti tra le giurisdizioni ed evitare la duplicità di procedimenti penali, comuni e militari, che spesso si registra nella prassi. La chiave viene per lo più ravvisata nella riforma del diritto penale militare, la cui disciplina appare ormai obsoleta.
Una recente pronuncia delle sezioni unite della Cassazione in tema di conflitti di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice militare pone in luce abbastanza chiaramente, da un lato, un coordinamento difficoltoso e, dall’altro, un processo di marginalizzazione della giustizia militare3.
La prima questione sciolta dalle Sezioni Unite riguarda la legittimazione del Procuratore generale militare a svolgere le funzioni requirenti nell’udienza del giudizio di cassazione volto alla soluzione del conflitto di competenza o giurisdizione. La Suprema Corte ha affermato che, nella udienza in camera di consiglio davanti all’organo chiamato a risolvere il conflitto di giurisdizione instaurato tra il giudice ordinario e il giudice militare, legittimato a partecipare è esclusivamente il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione.
Invero, l’individuazione dell’ufficio requirente, per i casi di conflitto di giurisdizione in cui venga in rilievo la natura comune o militare della fattispecie, non aveva mai dato luogo ad incertezze interpretative: nonostante l’assenza di una previsione esplicita a favore del magistrato ordinario, la prassi è sempre stata costante nel ritenere legittimo l’intervento del solo Procuratore generale ordinario4.
Chiamata a pronunciarsi espressamente sulla questione, la Suprema Corte ha notato che manca una esplicita individuazione dell’ufficio requirente per i casi di conflitto di giurisdizione in cui venga in rilievo la natura (comune o militare) della fattispecie penale. Da un lato, infatti, l’art. 32, co. 1, c.p.p. prevede soltanto che «i conflitti sono decisi dalla Corte di cassazione con sentenza in camera di consiglio secondo le forme previste dall’art. 127», e fa solo un generico riferimento al pubblico ministero quando lo indica tra i destinatari dell’avviso di udienza; dall’altro, anche le previsioni generali di cui agli artt. 76, co. 1, e 65 ord. giud. si limitano a specificare le attribuzioni della Corte di cassazione in tema di risoluzione dei conflitti e a sancire l’obbligo di intervento del p.m. presso la Corte «in tutte le udienze civili e penali» e, dunque, anche nelle udienze camerali partecipate. Tuttavia, poiché nel caso di risoluzione dei conflitti la Cassazione è la massima espressione del principio di unità e unicità della giurisdizione, il p.m., ad avviso delle Sezioni Unite, non può che essere il Procuratore generale ordinario. L’esistenza di un «autonomo ufficio» del p.m. militare presso la Corte di cassazione non sottintende – osserva la sentenza – la creazione di un organo replicante le attribuzioni istituzionali proprie dell’ufficio requirente “ordinario”, ma si deve solo ad un’esigenza di simmetria ordinamentale connessa all’estensione del giudizio di legittimità (cfr., l. 7.5.1981, n. 180), a tutte le decisioni dei giudici militari e alla soppressione del Tribunale supremo militare. L’autonomia dell’ufficio requirente militare – pari a quella dell’ufficio requirente ordinario – non significa, quindi, né identità di attribuzioni e prerogative, né equivalenza funzionale.
La pronuncia si pone in linea anche con l’orientamento delle Sezioni Unite civili, secondo le quali se il Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione – titolare dell’azione disciplinare dinanzi al Consiglio della magistratura militare, e quindi, contraddittore necessario nei relativi procedimenti – è legittimato a proporre ricorso per cassazione o a resistervi, egli tuttavia «presenzia alla fase dibattimentale del susseguente procedimento dinanzi alle Sezioni unite di questa Corte suprema non direttamente, ma attraverso l’organo requirente ordinariamente legittimato e competente a partecipare a tale ultimo momento del processo»5. Ancora: la soluzione indicata appare in linea con l’indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato, secondo il quale il Primo Presidente della Cassazione e il Procuratore generale della Cassazione non solo sono il vertice della magistratura ordinaria, ma hanno un ruolo ulteriore di regolazione del confine tra le giurisdizioni, mentre il Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione riveste un ruolo non apicale, e dunque incomparabile con quello del Procuratore generale presso la stessa Corte6.
Insomma, la S.C. ha concluso che le funzioni del Procuratore generale militare sono circoscritte ai giudizi di legittimità aventi ad oggetto esclusivamente reati militari, tra i quali i giudizi per la risoluzione di conflitti insorti tra giudici militari. Sullo sfondo, la ratio della riforma del 1981, che ha ridefinito il sistema delle impugnazioni nei processi militari in tempo di pace ed istituito presso la Corte di cassazione un ufficio del p.m. militare: tale scelta rappresenta al contempo, il fondamento e il limite stesso della legittimazione di tale magistrato requirente a intervenire nei giudizi davanti alla stessa Corte. Riconosciuta la ricorribilità di tutti i provvedimenti dei giudici militari, si assicura un apporto specialistico nell’ordinario giudizio di legittimità «esclusivamente per i reati militari, dato che la giurisdizione militare vive un rapporto di eccezione, in ragione di specifiche esigenze, all’interno del più ampio novero lasciato ai giudici ordinari anche nella materia militare»7.
Le Sezioni Unite, in linea di principio, affermano una “eccezionalità” della giurisdizione militare anche in relazione ai reati militari – così allontanandosi da una concezione del giudice militare dei reati in questione – e, in relazione alla quaestio iuris dedotta operano «un’ulteriore riduzione dell’ambito di intervento della magistratura militare»8.
L’altra questione affrontata dalle Sezioni Unite riguarda se, ed in qual misura, la Corte di cassazione regolatrice del conflitto possa (debba) controllare la correttezza in iure degli addebiti formulati nei due procedimenti, ed eventualmente con quale effetto nel giudizio di merito. Nel caso di specie, era accaduto che in relazione ad una certa condotta il giudice penale ordinario avesse ravvisato gli estremi della minaccia a pubblico ufficiale e della istigazione di militare a disobbedire alle leggi (art. 266 c.p.), mentre il giudice militare aveva mancato di valorizzare quest’ultimo aspetto, contestando soltanto la violazione di cui all’art. 146 c.p.mil.p. (minaccia a un inferiore per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri) e non la fattispecie militare (omologa a quella prevista dal codice penale) di «Istigazione di militare a disobbedire alle leggi», che è contemplata – e punita assai più severamente che nel codice penale – dal codice penale militare di pace9.
La Corte d’appello militare denunciava un conflitto di giurisdizione essendo «medesimo» il fatto nei due giudizi: segnatamente si postulava tra le figure penali venute in rilievo nei due contesti un concorso apparente di norme. Ragionando astrattamente, va rilevato che le fattispecie applicabili nei due ordinamenti sono effettivamente concorrenti: la condotta di cui all’art. 213 c.p.mil.p. è la medesima rispetto a quella descritta nel codice penale, mentre la differenza concerne solo il soggetto attivo (nel primo caso un militare, nel secondo «chiunque»), cosicché nell’ipotesi in cui la condotta in discorso venga posta in essere da un militare dovrebbe trovare applicazione soltanto la norma militare, in base al principio della “specialità prevalente”, legato alla specificità degli interessi protetti dal diritto penale militare10.
Le Sezioni Unite, tuttavia, nello sciogliere la questione di diritto e (poi) decidere il conflitto, sono partite da una impostazione differente rispetto a quella della Corte d’appello militare (e condivisa dalla sezione remittente della Corte di cassazione): hanno ritenuto – opinabilmente, in verità – che non di concorso di norme si trattasse, ma di un concorso formale eterogeneo di reati, da risolversi in base all’art. 13, co. 2, c.p.p. Così, dato che i risvolti penali del comportamento del militare (il “medesimo fatto” all’origine del conflitto) erano stati diversamente individuati nei due giudizi, le Sezioni Unite si sono poste il problema (preliminare) se, nell’identificare i diversi reati concorrenti (tra i quali individuare quello più grave) si dovesse far riferimento ai “fatti” naturalisticamente intesi, al di là delle valutazioni giuridiche effettuate nelle due sedi, oppure se valgano in ogni caso le contestazioni elevate in iure nei procedimenti11.
Sul punto, le Sezioni Unite hanno notato che i due assunti interpretativi ora accennati sono solo apparentemente in contrasto tra loro. Nel risolvere il conflitto di giurisdizione, la Corte, accertata la sussistenza della “medesimezza” del fatto, deve valutare se la qualificazione giuridica attribuita dall’uno o dall’altro giudice sia corretta, procedendo in caso contrario a delineare l’esatta definizione, con conseguente designazione dell’organo giudiziario chiamato a giudicare12. La corretta qualificazione giuridica del fatto (compiuta dalla Corte) diventa insomma l’effettiva causa determinatrice della giurisdizione. La qualificazione effettuata dalla Corte può coincidere con quella dell’uno o dell’altro dei confliggenti, o divergere da entrambe13: l’importante è che essa «provenga dalla valutazione discrezionale della Corte regolatrice sugli atti processuali, svincolata da ogni automatismo decisionale, ma pur sempre rigorosamente circoscritta a quanto è oggetto di contestazione (per l’appunto “in fatto”)». È in gioco, del resto, l’esigenza di prevenire possibili elusioni del principio del ne bis in idem14.
Quello che però la Corte non può fare è sostituirsi al p.m. «modificando l’accusa contestata o alterando l’una o l’altra delle regiudicande sottoposte ai giudici in contrasto sino a vanificare gli esiti di decisioni già assunte da uno o da entrambi i giudici confliggenti»15.
In altri termini, il giudizio risolutivo del conflitto non si estende alla valutazione – anche solo prognostica – della fondatezza delle imputazioni, il cui apprezzamento è sempre riservato al giudice della cognizione di merito16. Il più grave reato di istigazione di militare commesso da militare, mai contestato – sorprendentemente – dal giudice militare, non può essere “contestato” dalla Corte di cassazione, né potrebbe essere contestato in futuro dopo la decisione del conflitto, trovandosi ormai il giudizio nella fase dell’appello17, il che priverebbe comunque il conflitto stesso di uno dei suoi presupposti, che è quello della attualità e concretezza del contrasto tra i giudici. Così, la Corte ha risolto il conflitto a favore del giudice ordinario in ragione della maggiore gravità del reato di cui all’art. 266 c.p., contestato dal giudice ordinario, rispetto ai reati contestati dal Tribunale militare.
1 Cenni storici in Rivello, P.P., Processo penale militare, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. VII, Modelli differenziati di accertamento, a cura di G. Garuti, II, Torino, 2011, 1186 ss.
2 Cfr. Busetto, M., Connessione fra reati militari e reati comuni: i nodi d’un compromesso vengono al pettine, in Giust. pen., 2012, III, 448.
3 Cass. pen, S.U., 23.6.2016, n. 18621, Zimarmani, in Cass. pen., 2017, 3111, con nota di Rivello, P.P., Un intervento delle Sezioni unite in tema di conflitto di giurisdizione. Il principio dell’unicità della giurisdizione – riaffermato da C. cost., 28.1.1983, n. 1, in Cass. pen., 1983, 827 e da Cass. pen., S.U., 21.5.1983, n. 7523, in CED rv. n. 160246, Andreis – nonché la democratizzazione costituzionale della giustizia militare operata dal d.lgs. 15.3.2010, n. 66, confermano la progressiva marginalizzazione di quest’ultima, sempre più omologata alla giustizia ordinaria comune.
4 Ex plurimis, Cass. pen., S.U., 24.11.1999, n. 25, in Foro it., 2000, II, 621.
5 Cass. pen., S.U., 19.1.2001 n. 7, in Foro it., 2002, I, 2161.
6 Cons. Stato, sez. III, 9.12.2008 n. 6462; Cons. Stato, sez. II, 5.6.2012 n. 2729.
7 C. cost., 10.11.1992, n. 429 e C. cost., 12.7.2000, n. 271. La «singolarità dell’istituzione di un ufficio del p.m. speciale presso un organo della giurisdizione ordinaria» trovava ragione «nella particolarità della materia (reati militari) sia nella qualità dei soggetti che sono sottoposti alla giurisdizione militare sia nell’esigenza di assicurare, in una materia che consente l’esperimento del ricorso per cassazione in via ordinaria e generale, la presenza in Cassazione del P.M. specializzato» (Cass. pen., sez. I, 27.11.1986, n. 12, Calzetta, in Rass. giust. milit., 1987, 236.
8 Rivello, P.P., Un intervento delle Sezioni unite, cit.
9 Un maresciallo dei Carabinieri si era recato nel luogo in cui un conoscente, da lui informato telefonicamente, era stato fermato da una pattuglia dell’arma per guida in stato di ebbrezza, e lì aveva sollecitato, con frasi intimidatorie, l’interruzione del controllo. Il rapporto dell’accaduto era stato inviato sia alla Procura presso il Tribunale ordinario sia alla Procura presso il Tribunale militare. Le imputazioni contestate dall’autorità giudiziaria ordinaria erano riferite agli artt. 81, 336 e 266, co. 1, 2 e 4, c.p.; quelle elevate dal p.m. militare riguardavano solo gli artt. 146 e 47, n. 2, c.p.mil.p., e non anche l’art. 213 c.p.mil.p., che prevede una condotta analoga a quella dell’art. 266 c.p. Il Tribunale militare condannava a quattro mesi di reclusione; il giudice ordinario a dieci mesi di reclusione militare. In entrambi i giudizi la difesa sollecitava, invano, un conflitto di giurisdizione, ravvisando una causa di connessione tra procedimenti per reati militari e procedimenti per reati comuni, che determina la giurisdizione del giudice ordinario quando il reato comune contestato sia più grave.
10 Cfr. Cass. pen., S.U., 24.4.1976, n. 10, Cadinu, in Giur. it., 1977, II, p. 498. In dottrina cfr. Venditti, R., Il processo penale militare, Milano, 1997, p. 19.
11 Cass. pen., sez. I, 23. 17. 2015, n. 36336, in CED rv. n. 264539, Novarese.
12 Ciò consente alla Corte di rimediare a mere duplicazioni della qualificazione giuridica del fatto ovvero a palesi errori nell’eventuale riconduzione di una stessa “condotta” a più norme incriminatrici (Cass. pen., sez. I, 26.1999, n. 666, Grenci, in Cass. pen., 2000, p. 3375).
13 La Corte può e deve verificare l’effettiva corrispondenza tra il “fatto” e le contestazioni operata dai giudici: ove nel fatto sia individuabile un concorso di reati, va verificato se vi sia connessione ex art. 13 e, in caso affermativo, a quale dei giudici spetti la cognizione delle res iudicandae (cfr. Cass. pen., sez. I, 17.5 2013, n. 27677, in CED rv. n. 257178, Zummo).
14 Come notano le Sezioni Unite, l’eliminazione dei conflitti assicura non solo la tutela dell’interesse dell’indagato ad un simultaneus processus, ma anche la «rimozione di una litispendenza “patologica” che vulnera il principio del ne bis in idem». Va pure tenuto presente che C. cost., 21.7.2016, n. 200 (in Cass. pen., 2017, p. 60 ss. con note di Pulitanò, D. e Ferrua, P.) ha dichiarato illegittimo l’art. 649 c.p.p. «nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale».
15 Cass. pen., S.U., n. 18621/2016; conforme Cass. pen., sez. I, 11.4.2014, n. 18252, inedita.
16 Romeo, G., Le sezioni unite sui conflitti di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice militare, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 5. Significativamente la S.C. ha di recente escluso la giurisdizione ordinaria con riferimento al delitto di collusione ex art. 3 l. 9.12.1941, n. 1383, sebbene si procedesse anche per il reato di falso, rilevando che, mentre per quest’ultimo non era contestata l’aggravante della falsificazione di un atto fidefacente, relativamente al primo la contestazione aveva ad oggetto anche l’aggravante dell’essere il militare rivestito di un comando previsto dall’art. 47, n. 2, c.p.mil.p. (Cass. pen., sez. I, 28.9. 2012, n. 44514, in CED rv. n. 253825).
17 Cass. pen., sez. V, 11.11.2008, n. 44748, in CED rv. n. 24260, De Blasi).