Rapporto tra le fonti e ruolo della contrattazione
Il contributo esamina il nuovo assetto delle fonti di regolazione del lavoro nelle amministrazioni pubbliche (disciplina, organizzazione e gestione), dopo le modifiche apportate dalla cd. “riforma Madia” (l. 7.8.2015, n. 124; d.lgs. 25.5.2017, n. 75/2017), con particolare attenzione al ruolo della contrattazione collettiva, nazionale e integrativa, e delle forme di partecipazione sindacale, alquanto dimidiate dalla precedente riforma (cd. “riforma Brunetta”) del 2009. Le modifiche legislative dimostrano una positiva razionalizzazione di alcune incongruenze ed “esasperazioni” normative, ma lasciano irrisolti i principali nodi problematici preesistenti.
2.5 Legge, contratto collettivo, contratto individuale 3. I profili problematici
Fulcro centrale del percorso evolutivo dell’assetto regolativo dell’organizzazione, disciplina e gestione del lavoro nelle amministrazioni pubbliche è costituito dai profondi mutamenti nel rapporto tra le fonti, in primo luogo tra fonti normative in senso stretto e fonti negoziali (contratti collettivi). La diversa articolazione di tali rapporti, infatti, si ripercuote di conseguenza sulla connotazione “pubblicistica” o “privatistica” della materia regolata (organizzazione degli uffici e del personale, rapporti di lavoro, ecc.), nonché, evidentemente, sulla maggiore o minore affinità con la regolazione e gestione del lavoro nell’impresa privata, notoriamente presa a modello di riferimento in occasione della riforma degli anni ’90 (d.lgs. 3.2.1993, n. 29 [1]). In questa sede ci si pone l’obiettivo di una prima verifica del nuovo assetto ad esito della riforma ex l. 7.8.2015, n. 124 ed in particolare del d.lgs. 25.5.2017, n. 75. Attenzione particolare, in questa disamina, merita la verifica del nuovo ambito operativo della contrattazione collettiva, e delle relazioni sindacali in generale, e dei conseguenti nuovi equilibri nei confini tra «spazio negoziale» [2] e “spazio legislativo” (o comunque “pubblicistico-autoritativo”) nella disciplina e gestione del lavoro pubblico, nonché, per altro verso, anche dei nuovi equilibri tra area “riservata” al potere unilaterale del “datore di lavoro” (dirigenza) e area della “partecipazione” (relazioni sindacali/contrattazione collettiva). Il tutto, avendo sullo sfondo l’ombra dell’art. 97 Cost., anche al fine di verificare se, all’esito della nuova riforma, e con riferimento alla formula della norma costituzionale, oggi le pubbliche amministrazioni sono un po’ più organizzate “da” disposizioni di legge piuttosto che “secondo” queste ultime, nell’interpretazione più elastica data alla norma [3].
Andando nel merito delle questioni, occorre dunque verificare, a valle della nuova riforma, cosa è cambiato nell’assetto delle fonti regolative del lavoro nelle pubbliche amministrazioni (legge e fonti unilaterali, contrattazione collettiva, contratto individuale), esaminando nello specifico i rispettivi ambiti.
Il d.lgs. n. 75/2017 interviene sulle disposizioni di apertura del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, ed in particolare sull’art. 2, la norma dedicata alla articolazione delle “fonti” di disciplina dell’organizzazione e del lavoro nelle amministrazioni pubbliche. Come noto, tale fondamentale disposizione è stata oggetto di ripetuti interventi di modifica, dal 1993, data della prima “privatizzazione” del pubblico impiego, sino ad oggi [4]. È altrettanto noto che tali interventi hanno seguito un percorso non univoco: nella prima fase, infatti, l’obiettivo è stato quello di rafforzare l’ambito “privatistico” nella regolazione e gestione dei rapporti di lavoro e delle relazioni sindacali, ed il ruolo del “contratto” (collettivo e individuale) rispetto a quello della “legge” (ed in particolare delle norme “speciali” riservate alla disciplina del lavoro nelle amministrazioni pubbliche). Ciò, sia per una ragionevole esigenza di omogeneizzazione al settore privato, sia per impedire il perpetuarsi della ben nota “giungla” normativa e retributiva che contraddistingueva negativamente il pubblico impiego.
La seconda fase, ed in particolare la cd. “riforma Brunetta” del 2009, quarta tappa nel tormentato percorso di riforma [5], è stata invece contraddistinta da un brusco revirement, con il quale il legislatore decideva di assumere la veste di vero “datore di lavoro” , riassegnando pertanto a se stesso parte dei “poteri” unilateral-pubblicistici che aveva dismesso, sia in favore delle fonti contrattuali (privatistiche), sia in favore dei poteri della nuova dirigenza (teoricamente) manageriale. Il tutto nella convinzione, non del tutto infondata, che la “contrattualizzazione” non aveva dato in quegli anni buona prova di sé (ma, evidentemente, che non fosse in grado di darla neanche in futuro) non riuscendo a debellare il (presunto o effettivo) “fannullonismo” presente negli uffici pubblici ed a conseguire sufficienti livelli di efficienza-efficacia nella gestione del lavoro e delle amministrazioni. Era dunque coerente, data l’impostazione della riforma del 2009, che il legislatore, pur non potendo “sopprimere” il ruolo delle fonti negoziali, ne circondasse però i confini con “paletti” legislativi ben piantati, sia con riguardo diretto alla contrattazione collettiva (nazionale e decentrata, come più avanti si dirà) sia con riguardo a rapporti tra contrattazione e legge. Si spiega dunque così la logica della modifica dell’art. 2 da parte del d.lgs. 27.10.2009, n. 150: le disposizioni «fatte salve nel presente decreto…» che confermano i tratti di specialità del lavoro pubblico rispetto al lavoro privato, assumono esplicitamente carattere “imperativo”. E ne viene sancita anche la espressa “superiorità” gerarchica e, soprattutto, la forza di resistenza rispetto alla contrattazione collettiva, comprimendo fortemente il potere derogatorio che le aveva attribuito con la precedente versione della norma. La contrattazione collettiva, pertanto, avrebbe potuto derogare alle disposizioni “speciali” per il lavoro pubblico (di legge, regolamento o statuto) solo se esse stesse ne avessero previsto la derogabilità.
Orbene, il d.lgs. n. 75/2017 opera una nuova correzione di rotta, riportando i rapporti tra legge e contrattazione collettiva ad un assetto più simile a quello precedente al 2009. Il potere delegificatorio del contratto collettivo ritorna “autonomo” e non più subordinato ad una specifica espressa attribuzione nella norma “speciale”. Con la puntualizzazione, però, che tale potere resta confinato, dovrebbe dirsi ovviamente, all’area tematica di competenza della stessa contrattazione collettiva, e comunque solo di quella «… nazionale …», escludendo dal potere derogatorio la contrattazione decentrata integrativa, e fermo restando il «…rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto».È dunque evidente, in virtù della nuova formulazione, che diventa vieppiù essenziale la delimitazione dello “spazio negoziale” di competenza della contrattazione collettiva che, bisogna intendersi, è «affidato alla contrattazione collettiva», ma non è “riservato” a quest’ultima, almeno se si deve continuare a ritenere che su questo aspetto la riforma non abbia intaccato il principio per cui, nel settore pubblico come in quello privato, nello “spazio negoziale” può esserci obbligo “a negoziare”, ma non “a contrarre” [6]. Quest’ultima precisazione ci offre il destro per verificare i rapporti tra fonti legislative (e sub legislative) e contratti collettivi nello specifico e delicato ambito delle retribuzioni, notoriamente la “materia” storicamente regina di competenza della contrattazione. Sul punto resta fermo l’assetto previgente (v. co. 3 dell’art. 2) che, piuttosto che attribuire un potere derogatorio alla fonte negoziale, le conferisce una “efficacia demolitiva automatica”, con effetto “delegificatore” effettivo ed immediato (dalla vigenza del nuovo contratto collettivo). Salvo, come noto, dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2009, «… i casi previsti dal comma 3-ter e 3-quater dell’articolo 40 e le ipotesi di tutela delle retribuzioni di cui all’articolo 47-bis» di riappropriazione del potere decisionale unilaterale dell’amministrazione, di cui si dirà più avanti.
A questo punto, onde verificare il grado di effettiva incidenza della riforma sull’assetto delle fonti ed i rapporti tra le stesse, occorre esaminare le previsioni della riforma circa l’ambito ed i limiti della contrattazione collettiva, nazionale e integrativa. Quanto alla prima, va ricordato che il sistema delineato dalla riforma del 2009 non ha sostanzialmente avuto possibilità di attuazione, in ragione del “blocco” dei contratti collettivi operato, per esigenze finanziarie, dal d.l. 31.5.2010, n. 78 e, con numerose proroghe, durato sostanzialmente sino al 2015; blocco che con ogni probabilità sarebbe stato ulteriormente perpetuato, se non fosse (finalmente) intervenuta la Corte costituzionale [7].
La pronuncia del Giudice delle leggi merita un breve approfondimento, contribuendo a chiarire ruolo e spazi dell’autonomia collettiva in un sistema, come quello del lavoro pubblico, che pur con le sue “specialità”, resta comunque imperniato come il settore privato sulle fonti contrattuali, individuali e collettive. Non si può infatti non riconoscere l’importanza che meritano le affermazioni della Corte, secondo cui, sostanzialmente, bloccare le dinamiche contrattuali in materia retributiva, prima ancora che con i principi di cui all’art. 36 Cost. (principi sui quali ragioni di carattere finanziario possono, sebbene transitoriamente, far premio) contrasta con quelli di cui all’art. 39 Cost., dal momento che quest’ultima norma, evidentemente ora anche per il settore pubblico, deve ritenersi strumento imprescindibile di garanzia di valori fondamentali di rilievo costituzionale e, per quanto specificamente riguarda il settore pubblico, precipuamente capace di realizzare l’opportuno contemperamento degli interessi contrapposti delle parti «ponendosi, per un verso, come strumento di garanzia della parità di trattamento dei lavoratori (art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001) e, per altro verso, come fattore propulsivo della produttività e del merito (art. 45, comma 3, del d.lgs. 165 del 2001» [8].
Ciò detto, verifichiamo dunque come dovrebbe essere la “nuova” contrattazione collettiva dopo la riforma del 2017, sulla scorta essenzialmente delle disposizioni novellate degli art. 40 ss. d.lgs. n. 165/2001. Quanto all’ambito di applicazione “generale” della contrattazione collettiva, viene nuovamente modificata la previsione dell’art. 40 d.lgs. n. 165/2001. La nuova formulazione («La contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali e si svolge con le modalità previste dal presente decreto …»), rispetto alla precedente versione, risulta più simile a quella antecedente al 2009 («… tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali …») e certamente risulta più coerente con la funzione storicamente assunta dal contratto collettivo nonché più omogenea con la sua funzione nel settore privato; e, anche per quanto detto, elimina le “diffidenze” certamente sottese alla formulazione della riforma Brunetta [9], nuovamente riaprendo i (teorici) spazi “fisiologicamente” propri dell’autonomia collettiva.
Il legislatore ricorda che siamo nel settore pubblico, le cui specificità evidentemente, ed in parte condivisibilmente, impediscono il libero pieno dispiegarsi della negoziazione, e rendono necessario delimitare gli spazi esclusi alla contrattazione (e riservati alla legge o a fonti comunque unilaterali): a parte le sette materie riservate dalla l. delega del 1992, si ribadiscono pertanto i limiti già definiti dal d.lgs. n. 150/2009, rispetto sia alle norme di legge regolative di specifici istituti (primo fra tutti procedimenti e provvedimenti disciplinari), sia rispetto ad altre materie e aree, dove i confini sono molto più sfumati e variabili, anche in ragione della “riserva” non a fonti legislative, ma ad altre fonti unilaterali (poteri dirigenziali) o altri “modelli relazionali” (forme di partecipazione sindacale: informazione, consultazione, esame congiunto, ecc.). Su quest’ultimo punto va rimarcata, come differenza dal settore privato, la definizione della barriera invalicabile tra contrattazione ed altre forme di partecipazione: là dove siano previste queste ultime (peraltro ai sensi art. 5 d.lgs. n. 165/2001 dalla stessa contrattazione collettiva), la contrattazione collettiva non può intervenire, con la definizione di “steccati” in cui ciascun modello relazionale è confinato. Limiti poco comprensibili con le logiche delle relazioni industriali, ma comprensibili se si considera che il riferimento principale è alle relazioni sindacali nelle singole amministrazioni, relativamente alle quali, come si dirà meglio più avanti, sono sempre state forti le preoccupazioni con cui il legislatore delle riforme, ed anche quello del 2017, ha guardato e guarda alla contrattazione in periferia.
Venendo poi alle singole aree tematiche (materie) di competenza della contrattazione collettiva, la principale resta il trattamento retributivo dei dipendenti, materia sulla quale, nel settore privato come in quello pubblico, è indiscussa ed indiscutibile la competenza della contrattazione collettiva quale “fonte” privilegiata di regolazione; tanto che, nel settore pubblico, l’assetto legislativo, specialmente prima della riforma Brunetta del 2009, faceva sorgere il dubbio della esistenza di una vera e propria “riserva” di contrattazione sulla materia, e della sussistenza di un vero e proprio “obbligo a contrarre” e non solo e negoziare [10].
Ebbene, per quanto anche dopo le modifiche del d.lgs. n. 75/2017 resti ferma ed indiscussa la “competenza privilegiata” della contrattazione collettiva (nazionale/integrativa – art. 45, co. 1), pur tuttavia il legislatore, ai vincoli normativi già introdotti nel 2009, ossia il meccanismo automatico, sussidiario e transitorio, previsto dall’attuale art. 47 bis d.lgs. n. 165/2001 (nonché quello relativo alla contrattazione integrativa, di cui all’art. 40, co. 3-ter e 3-quinquies), aggiunge ulteriori vincoli, relativi alla destinazione “obbligatoria” di parte delle risorse economiche destinate alla contrattazione collettiva e da queste gestibili (art. 40, co. 3-bis nonché art. 40, co. 4-bis). Almeno un cenno merita la previsione di quest’ ultima disposizione, in virtù della quale «… I contratti collettivi nazionali di lavoro devono prevedere apposite clausole che impediscono incrementi della consistenza complessiva delle risorse destinate ai trattamenti economici accessori, nei casi in cui i dati sulle assenze, a livello di amministrazione o di sede di contrattazione integrativa, rilevati a consuntivo, evidenzino, anche con riferimento alla concentrazione in determinati periodi in cui è necessario assicurare continuità nell’erogazione dei servizi all’utenza o, comunque, in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, significativi scostamenti rispetto a dati medi annuali nazionali o di settore». La norma, che pare di assai complessa attuazione, e che pertanto assegna certamente alla contrattazione nazionale un compito alquanto arduo, nella sua ratio “antiassenteismo”, richiama indubbiamente alcune logiche della riforma Brunetta del 2009, della quale sembra quasi un’appendice tardiva [11].
Attenzione particolare merita la contrattazione collettiva decentrata integrativa, da sempre in “libertà vigilata” nel settore pubblico. Ciò, nella convinzione, mai seriamente contestata o contestabile sulla scorta di dati empirici, che quella che dovrebbe e potrebbe essere una importante risorsa organizzativa, ai fini della organizzazione e gestione del lavoro nelle diverse realtà amministrative, si riveli piuttosto un incontrollabile fonte di spesa improduttiva, non correlata a sufficienti incrementi della efficienza e produttività del lavoro né della professionalità e gratificazione dei dipendenti [12]. Il che spiega la schizofrenia legislativa sul ruolo della contrattazione integrativa ed i tanti lacci e paletti disposti dal legislatore dal 1993 al 2009, ovviamente soprattutto con il d.lgs. n. 150/2009: riconoscendo, da un lato, un ruolo imprescindibile di erogazione di trattamenti economici (retribuzione “accessoria” a quella “principale” definita nei contratti nazionali di comparto), ma cercando in ogni modo, mediante puntuali indirizzi e vincoli normativi, di garantirne una implementazione virtuosa, ed in particolare l’effettivo collegamento tra le attribuzioni economiche e gli incrementi di produttività/efficacia/efficienza del lavoro e degli uffici. Dato siffatto quadro, la riforma Madia interviene anche sulle disposizioni del d.lgs. n. 165/2001 relative alla contrattazione integrativa (spec. art. 40, co. 3-bis ss.), conservando sostanzialmente i vincoli preesistenti, sebbene cercando in qualche caso di “razionalizzarne” e mitigarne l’impatto (v. nuovo art. 40, co. 3-bis e co. 3-quater), ma anche aggiungendone altri (v. il summenzionato “taglio” alle risorse economiche per i contratti integrativi di cui al nuovo art. 40, co. 4-bis). Quanto agli interventi di “razionalizzazione”, merita attenzione l’intervento sul peculiare istituto, introdotto nel 2009, di riappropriazione del potere unilaterale di gestione della pubblica amministrazione (art. 40, co. 3 novellato). La “razionalizzazione”, rispetto alla previgente disciplina, sta nella espressa previsione della condizione del pregiudizio alla funzionalità dell’azione amministrativa, nonché in quella che dispone (obbligo?) in ogni caso per l’amministrazione la prosecuzione della trattativa al fine di pervenire in tempi celeri alla conclusione dell’accordo. Come dire: la dirigenza può regolare e gestire nel caso di eccessivo protrarsi delle trattive, recuperando il proprio potere decisionale unilaterale “sospeso” durante le trattative; ma tale potere va esercitato ragionevolmente e non strumentalmente (solo se si ritiene sussistere il pregiudizio alla funzionalità dell’azione amministrativa), e comunque senza che ciò implichi l’interruzione delle trattative. A ciò si aggiunge l’ulteriore successivo “invito” ai contratti nazionali, ad «… individuare un termine minimo di durata delle sessioni negoziali in sede decentrata, decorso il quale l’amministrazione interessata può in ogni caso provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo …» [13]. Le “cautele” introdotte dalla nuova versione della norma si prestano senz’altro ad una valutazione positiva, pur non potendosi nascondere le difficoltà, per la dirigenza, di individuare la sussistenza del presupposto «pregiudizio alla funzionalità’ dell’azione amministrativa». Ciò, tanto più se si considera l’ulteriore “cautela” introdotta dall’ultima parte della norma, che istituisce un Osservatorio paritetico presso l’ARAN, con il precipuo scopo di monitorare l’attuazione della disposizione (e del relativo potere da parte delle amministrazioni), in particolare disponendo che «L’osservatorio verifica altresì che tali atti siano adeguatamente motivati in ordine alla sussistenza del pregiudizio alla funzionalità dell’azione amministrativa». La riforma introduce altre disposizioni con finalità di “razionalizzazione” dell’attività contrattuale integrativa e dei suoi effetti. Tra questi, il co. 4-ter dell’art. 40: «… la contrattazione collettiva nazionale provvede al riordino, alla razionalizzazione ed alla semplificazione delle discipline in materia di dotazione ed utilizzo dei fondi destinati alla contrattazione integrativa». Previsione opportuna, se si considera che, anche a seguito dei vari “blocchi”, “tagli”, circolari applicative ed interpretative, è sempre più difficile per le amministrazioni districarsi e comprendere quali risorse sono spendibili in sede di contrattazione decentrata e per quali finalità (voci retributive). Per il resto, resta confermato il complessivo assetto e ruolo della contrattazione integrativa nel sistema negoziale e delle fonti del lavoro pubblico: chiara subordinazione gerarchica al livello nazionale, che ne delimita ambito (materie), livelli, soggetti e procedure; finalizzazione precipua alla implementazione dei sistemi di performance [14], obiettivo per il conseguimento del quale la normativa impone di destinare «una quota prevalente delle risorse finalizzate ai trattamenti economici accessori comunque denominati»; rigido sistema sanzionatorio (nullità delle clausole che risultino in violazione dei limiti legislativi e contrattuali nazionali, con sostituzione automatica ex 1339 e 1419 c.c., con recupero degli eventuali sforamenti economici nella sessione successiva) [15]. Anche su questo punto il d.lgs. n. 75/2017 ha cercato una razionalizzazione, consentendo la possibilità di ammortizzare il recupero economico nel corso di più anni, nonché stabilendo un limite massimo di quota di recupero (25% delle risorse destinate alla contrattazione collettiva).
Un rapido cenno meritano le altre forme di partecipazione, che completano il quadro delle relazioni sindacali. Sul punto il nuovo assetto normativo risulta di maggiore apertura, fermo restando che la parola definitiva spetta ai contratti nazionali che, ai sensi dell’art. 9 d.lgs. n. 165/2001, disciplinano le modalità e gli istituti della partecipazione. E, rispetto alla precedente formulazione, l’art. 5 della legge, richiamato dall’art. 9, fa salve ora in generale tutte le forme di partecipazione (sempreché appunto previste nei contratti nazionali), non più limitandosi al riferimento alla sola “informazione” ed esame congiunto [16].
Il riferimento agli artt. 5 e 9 d.lgs. n. 165/2001 suggerisce qualche osservazione sul rapporto tra poteri organizzativi e gestionali del “datore di lavoro” (rectius la dirigenza) e partecipazione sindacale, ma anche sullo spazio del contratto individuale di lavoro. Sul primo aspetto, le modifiche dell’art. 5 d.lgs. n. 165/2001 paiono volte a definire meglio l’area riservata all’esercizio dei poteri datoriali, espressione di atti gestionali “privatistici” («…la direzione e l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici…»), rispetto all’area degli atti organizzativi-amministrativi di natura pubblicistica, con tutte le conseguenze in termini di regime degli atti nonché di eventuale giurisdizione. Quanto al rapporto tra il potere organizzativo-gestionale di cui sopra e la (eventuale) partecipazione sindacale, e dunque al grado maggiore o minore di “condivisione” di tale potere (gestione “partecipata” o “conflittuale”), il quadro normativo continua a non dirci molto [17]. Resta essenziale anche su questo punto il ruolo della contrattazione nazionale (maggiori o minori spazi alle diverse forme di partecipazione) e soprattutto la capacità “manageriale” della dirigenza, di comprendere la convenienza, a seconda dei temi e dei contesti, di una maggiore interlocuzione con le rappresentanze sindacali, o invece di una gestione più unilaterale (e con ogni probabilità più conflittuale). Resta infine del tutto residuale il ruolo del contratto individuale, certamente essenziale sul piano giuridico e teorico astratto (resta comunque la originaria fonte costitutiva del rapporto di lavoro), ma ben poco rilevante sul piano effettivo, pur teoricamente, appunto, non mancando spazi di regolazione lasciati alla contrattazione individuale, di cui peraltro sono sempre stati incerti i confini [18].
La riforma del 2017 non pare contraddistinguersi per un’impronta marcata o un preciso indirizzo di politica del diritto. L’impressione immediata che se ne ricava, per la parte qui commentata, è che essenzialmente si sia limitata ad un intervento di razionalizzazione di alcune “esasperazioni” normative più evidenti prodotte dal bulimico “entusiasmo” riformatore del legislatore-datore di lavoro produttivo delle norme-regolamento del 2009 (d.lgs. n. 150/2009) [19], riportando il quadro normativo più vicino all’assetto antecedente a quella riforma. In questo senso, certamente la valutazione non può essere negativa. Ma se si invece si guarda al complessivo assetto regolativo del lavoro pubblico, ai rapporti tra fonti legislative e negoziali, ai rapporti tra poteri unilaterali e partecipazione sindacale, non si può non nascondere che i principali nodi problematici preesistenti sono rimasti sostanzialmente irrisolti, e balzano in immediata evidenza nel raffronto con la disciplina del lavoro nell’impresa; ciò, in particolare, laddove le regole si traducono praticamente in organizzazione e gestione del lavoro, ossia nelle singole amministrazioni (unità amministrative), dove la separazione normativamente imposta tra area di esclusiva competenza dei poteri unilaterali del dirigente (datore di lavoro) e area del possibile “spazio negoziale” determina una ingessatura delle funzioni dirigenziali davvero poco comprensibili con le logiche “privatistiche” che tuttora dovrebbero ancora essere sottese all’assetto legislativo.
[1] Nella amplissima bibliografia sulla riforma del 1993 v. per tutti Corpaci, A.Rusciano, M.Zoppoli, L., a cura di, La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche (d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29), Commentario, in Nuove leggi civ., 1999, 1047 ss.; AA.VV., Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Aidlass, Milano, 1997.
[2] Tale locuzione da Rusciano, M.Zoppoli, L., a cura di, Lo spazio negoziale nella disciplina del lavoro pubblico, Bologna, 1995;
[3] Per tutti, cfr. Orsi Battaglini, A.Corpaci, A., Sub art. 2, in Corpaci, A.Rusciano, M.Zoppoli, L., a cura di, op. cit., 1047 ss. e 1064 ss.
[4] Tra gli altri, Zoppoli, L., Il ruolo della legge nella disciplina del lavoro pubblico, in Zoppoli, L., a cura di, Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Napoli, 2011, 15 ss.; Carinci, F., Contrattazione e contratto collettivo nell’impiego pubblico “privatizzato”, in Lav. pubbl. amm., 2013, 493 ss.
[5] Sulla riforma del 2009, per tutti, Carinci, F.Mainardi, S., a cura di, La terza riforma del lavoro pubblico: commentario al d.lgs 27 ottobre 2009, n. 150, Milano, 2011; Zoppoli, L., a cura di, Ideologia e tecnica, cit.
[6] Si consenta il rinvio a Natullo, G., Sub artt. 45 e 51, in Corpaci, A.Rusciano, M.Zoppoli, L., a cura di, op. cit., 1303 ss.
[7] C. cost., 24.6.2015, n. 178, in www.giurcost.org., su cui, tra gli altri, Barbieri, M., Contratto collettivo e lavoro pubblico. Blocco salariale e blocco della contrattazione tra scelte legislative e giurisprudenza costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 2015, 3, 453481.
[8] Sul punto cfr. Fontana, G., Contrattazione e partecipazione nel nuovo assetto delle fonti di disciplina del lavoro nelle p.a.: quali prospettive dopo la terza riforma (e in attesa della quarta), in Lav. pubbl. amm., 2015, 397 ss.
[9] Cfr. Natullo, G., La nuova contrattazione collettiva nel lavoro pubblico: ambito e limiti, in Le istituzioni del federalismo, 2009, 56, 685 ss.
[10] Cfr. Zoli, C., Il trattamento economico, in Carinci, F.D’Antona, M., Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, II, 1405 ss.; Santucci, R., La retribuzione, in Carinci, F.Zoppoli, L., Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, V, 785 ss.
[11] Ma coerente con le disposizioni del d.l. sui licenziamenti dei cd. “furbetti del cartellino” (d.lgs. 20.6.2016, n. 116).
[12] Sul tema, le preoccupazioni sono costanti: v. tra i tanti, Bordogna, L., a cura di, Contrattazione integrativa e gestione del personale nelle pubbliche amministrazioni, Milano, 2002; Viscomi, A., La contrattazione integrativa, in Carinci, F.D’Antona, M., op. cit., 183 ss.; Natullo, G.Saracini, P. Vincoli e ruoli della contrattazione integrativa, in Zoppoli, L., a cura di, Ideologia e tecnica, cit., 61 ss.
[13] In merito v. le giuste critiche a suo tempo sollevate, tra gli altri, da Soloperto, R., La contrattazione collettiva nazionale e integrativa, in Tiraboschi, M.,Verbaro, F., a cura di, La nuova riforma del lavoro pubblico, Milano, 2010, 397 ss.
[14] Su cui si rinvia amplius al contributo in questo volume, Diritto del lavoro, 3.2.1 Performance: strumenti per la misurazione e verifica.
[15] V., con riferimento ad un’applicazione in giurisprudenza, Viscomi, A., Contrattazione integrativa, nullità della clausola difforme e “responsabilità diffusa”, in Lav. pubbl. amm., 2007, 877.
[16] Quest’ultimo reintrodotto dalla l. 7.8.2012, n. 135. Sul punto v. Fontana, G., op. cit., anche per i riferimenti all’Accordo sui diritti di informazione e consultazione nelle amministrazioni pubbliche prodotto dal Comitato di dialogo sociale per il settore delle amministrazioni centrali della UE.
[17] Per tutti, sul punto, v. Ales, E., Contratti di lavoro e pubbliche amministrazioni, Torino-Milano, 2007, 57 e ss.
[18] V. Carabelli, U.Carinci, M.T., sub cap. II, in Carabelli, U.Carinci, M.T., a cura di, Il lavoro pubblico in Italia, Bari, 2010, 7677.
[19] Per la definizione di leggi-regolamento v. Zoppoli, L., Legge, contratto collettivo e circuiti della rappresentanza nella riforma “meritocratica” del lavoro pubblico, in Le istituzioni del federalismo, 2009, 56, 663 ss.