Abstract
Il contributo esamina la disciplina della rappresentanza quale istituto di cooperazione giuridica fondato su un atto di autonomia privata (la procura) o sulla volontà della legge, attributivo di effetti diretti all’operato del rappresentante nella sfera giuridica del rappresentato, in rapporto altresì alle divergenze dallo schema ordinario, con riguardo cioè al difetto di poteri rappresentativi in capo al rappresentante e al conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato.
1. Gli elementi costitutivi
L’essenza dell’istituto della rappresentanza può essere ravvisata nella sostituzione di un soggetto (detto rappresentante) ad un altro (detto rappresentato) nell’esplicazione di attività giuridica. Gli elementi costitutivi della fattispecie rappresentativa sono chiaramente individuabili alla stregua della previsione contenuta nell’art. 1388 c.c., ossia l’agire del rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato, sulla base e, dunque, sul presupposto di una facoltà in tal senso riconosciuta dal rappresentato al rappresentante (assicurata per mezzo del negozio unilaterale attributivo, denominato procura) e nel rispetto dei limiti di questa facultas agendi (indicata anche come potere rappresentativo), così producendosi gli effetti giuridici derivanti dall’operato del rappresentante direttamente nella sfera giuridica del rappresentato. La rappresentanza determina pertanto una dissociazione tra l’autore del contratto inteso come atto negoziale, ossia la parte del contratto in senso formale (nel caso di specie il rappresentante), e il titolare del contratto inteso come rapporto contrattuale, ossia la parte del contratto in senso sostanziale (nel caso di specie il rappresentato) (sulla nozione di parte e sulla distinzione tra parte in senso formale e parte in senso sostanziale Bianca, C.M., Diritto civile, III, Il contratto, II ed., Milano, 2000, 53 ss.). La possibilità che un soggetto si sostituisca ad un altro nel compimento di attività giuridica, sulla base di un potere di agire in nome altrui, con effetti nella sfera giuridica di quest’ultimo, realizza nell’attività negoziale un principio di divisione del lavoro in ordine alla conclusione del contratto da parte di un soggetto diverso da quello interessato al contratto medesimo, favorendo l’economia moderna e, dunque, i traffici commerciali (in tal senso Roppo, V., Il contratto, II ed., in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2011, 243); al di là delle peculiari ragioni legate allo svolgimento di un’attività di impresa, ove il ricorso all’istituto della rappresentanza assume carattere di assoluta normalità e di specifica disciplina (cfr. art. 1400 c.c., il quale rinvia alla disciplina contenuta nel libro quinto per le speciali forme di rappresentanza nelle imprese agricole e commerciali), in ogni caso la sostituzione ad altri nello svolgimento di attività giuridica risponde a bisogni propri della vita di relazione determinati da ragioni di necessità od opportunità (così Bianca, C.M., Diritto civile, cit., 79).
Occorre peraltro rilevare, quanto al tratto caratterizzante (e distintivo) della fattispecie rappresentativa, costituito appunto dall’agire in nome altrui, che la contemplatio domini (ossia la spendita del nome del rappresentato) non è da ritenere essenziale, dovendosi piuttosto considerare necessaria l’esternazione del potere rappresentativo che può peraltro avvenire anche senza l’espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, purché vi sia un comportamento del rappresentante ovvero un contesto in cui questi opera che, per univocità o concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che il rappresentante agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti dell’attività sono destinati a prodursi direttamente (in tal senso Cass., S.U., 21.10.2009, n. 22234, in Giur. it., 2009, 2351).
Dal rappresentante deve poi distinguersi il nuncius, che non dichiara la propria volontà per l’interessato, ma piuttosto si limita a trasmettere la volontà (già formata) dell’interessato e, dunque, non diventa parte del contratto (questa figura è certamente ricorrente nell’ipotesi del matrimonio celebrato per procura di cui all’art. 111 c.c., nonostante la terminologia utilizzata sembri indicare la sussistenza della fattispecie rappresentativa).
2. Rappresentanza diretta e rappresentanza indiretta
Il codice civile del 1942, a differenza del codice civile previgente, dedica un apposito capo (il IV del titolo II del libro quarto) alla disciplina dell’istituto della rappresentanza, categoria giuridica all’interno della quale si suole ricomprendere (a indicazione del fenomeno, più ampio, della cooperazione giuridica) sia la figura della rappresentanza cd. diretta, che peraltro è quella a cui propriamente si riferisce il legislatore negli artt. 1387 ss. c.c., sia la figura della rappresentanza cd. indiretta o rappresentanza di interessi, i cui riferimenti normativi devono invece ravvisarsi all’interno della disciplina del contratto di mandato, segnatamente negli artt. 1705, 1706 e 1707 c.c. (sulle connesse questioni, amplius, Di Rosa, G., Il mandato, I, in Comm. cc. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2012, 71 ss.). La distinzione tra i due sottotipi della rappresentanza è da ravvisare nel fatto che mentre in quella diretta il cooperatore agisce in nome (oltre che nell’interesse) di un altro soggetto con la significativa conseguenza della produzione degli effetti, appunto diretti, nella sfera giuridica di quest’ultimo; nella rappresentanza indiretta, invece, il cooperatore agisce in nome proprio, ma nell’interesse altrui e, pertanto, gli effetti dell’attività giuridica compiuta si producono nella sfera giuridica di questi e solo in un secondo momento (attraverso un atto specifico indirizzato a tal fine) si riversano nella sfera giuridica dell’interessato (per la possibile ricostruzione unitaria delle due fattispecie Pugliatti, S., Il rapporto di gestione sottostante alla rappresentanza, ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 155 ss.; diversamente Zanelli, E., Rappresentanza e gestione, in Studi urbinati, XXXIV, 1965-1966, 235 ss.; sul tema, diffusamente, Di Rosa, G., Rappresentanza e gestione. Forma giuridica e realtà economica, Milano, 1997, 39 ss.).
È peraltro da rilevare che l’espressione “rappresentanza indiretta” non è nota al legislatore ed è utilizzata da quegli Autori che attribuiscono all’agire per conto altrui gli stessi effetti rappresentativi prodotti dall’agire in nome altrui, sul presupposto che all’elemento formale della contemplatio domini debba essere preferito, ai fini di una configurazione unitaria della rappresentanza, l’elemento sostanziale della cura dell’interesse altrui, sotto il profilo cioè dell’agire nell’interesse (o per conto) altrui (per tutti Pugliatti, S., Sulla rappresentanza indiretta, ora in Studi sulla rappresentanza, cit., 395 ss.). Ciò, in verità, appare da collegare, più in particolare, alla cd. efficacia diretta della rappresentanza indiretta, con riferimento a talune deviazioni effettuali rispetto all’ordinario meccanismo di imputazione correlato all’agire in nome proprio ma per conto altrui, come nelle ipotesi di cui all’art. 1705, co. 2, c.c., relativamente alla riconosciuta possibilità (per il mandante) di esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato senza rappresentanza, e all’art. 1706, co. 1, c.c., in ordine alla riconosciuta possibilità (per il mandante) di rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio. In tali casi, cioè, si ritiene che, diversamente da quanto normalmente necessario per l’attribuzione degli effetti in capo al gerito degli atti compiuti da parte di chi agisce in nome proprio ma per conto altrui (richiedente uno specifico atto di ritrasferimento da parte del gestore a favore del dominus dell’affare), il gerito farebbe propri immediatamente gli effetti degli atti compiuti dal gestore, anche se quest’ultimo non ha speso il nome del primo.
3. Rappresentanza volontaria e rappresentanza legale
In apertura della trattazione dell’istituto della rappresentanza vengono indicate nell’art. 1387 c.c. le fonti del potere rappresentativo, ossia i titoli giustificativi dell’agire in nome (oltre che nell’interesse) altrui, segnatamente la volontà di legge o la volontà dell’interessato. Nel primo caso siamo in presenza della rappresentanza legale, allorché cioè è lo stesso legislatore a riconoscere (e attribuire) ad un soggetto il potere di agire per altri (si pensi alla rappresentanza legale dei genitori rispetto al figlio minore di età ai sensi dell’art. 320 c.c.); nel secondo caso siamo in presenza della rappresentanza volontaria, ad indicare appunto che il potere di agire per altri deriva da una manifestazione negoziale dell’interessato (espressione dell’autonomia privata) qualificata come procura, attraverso cui il rappresentato sceglie e designa liberamente il proprio rappresentante. Si esclude, peraltro, che possa ricondursi alla rappresentanza legale (ma alla stessa rappresentanza in generale) la rappresentanza cd. organica, con riferimento in particolare all’organo dell’ente collettivo, attesa l’assenza di dualità soggettiva che caratterizza invece, strutturalmente, la fattispecie rappresentativa (in tal senso Bigliazzi Geri, L., La rappresentanza in generale, in Il contratto in generale, VI, in Tratt. Bessone, XIII, Torino, 2000, 10 ss.; diversamente Carnevali, U., La rappresentanza, in Istituzioni di diritto privato, XVII ed., a cura di Bessone, M., Torino, 2010, 666 s., ritenendo la rappresentanza cd. organica una rappresentanza necessaria e accomunandola, per questa ragione, alla rappresentanza legale).
Al disposto generale contenuto nell’art. 1387 c.c., che sembrerebbe preludere a una trattazione congiunta delle due ipotesi (legale e volontaria) di rappresentanza, non fa riscontro tuttavia una correlativa disamina, atteso l’evidente riferimento, in maniera preponderante, alla rappresentanza volontaria, alla luce del complesso degli artt. 1388-1399 c.c., rispetto a cui solo alcune delle norme ivi contenute appaiono riferibili alla rappresentanza legale (come nel caso delle disposizioni di cui agli artt. 1390 e 1391 c.c., sulle quali, rispettivamente, Cass., 20.2.1956, n. 480, in Mass. Giust. civ., 1956, 162 e Cass., 20.8.1986, n. 5103, in Mass. Giust. civ., 1986, 1481; similmente Carnevali, U., La rappresentanza, cit., 675 s., il quale, pur non ritenendo applicabili alla rappresentanza legale tutte le regole dettate in tema di rappresentanza volontaria, considera però utilmente riferibili gli artt. 1390, 1391, 1393 e 1399 c.c.). Del resto l’idea di una trattazione separata delle due forme di rappresentanza era già presente vigente il codice civile del 1865, attesa l’affermata esclusione di una trattazione con unità di criteri della rappresentanza legale e volontaria, ricollegando questo assunto al differente ruolo della volontà del rappresentato nelle due ipotesi (sostanzialmente inesistente nella rappresentanza legale, decisivo invece nella rappresenta volontaria) (in tal senso Nattini, A., La dottrina generale della procura. La rappresentanza, Milano, 1910, 49).
È peraltro indubitabile che sia la rappresentanza legale sia quella volontaria indicano propriamente una dissociazione tra la titolarità del diritto e la legittimazione al relativo esercizio, dal momento che il rappresentato, sia esso legale o volontario, è il titolare del diritto e il rappresentante, legale o volontario, il soggetto legittimato a disporne. Tale unificazione, prospettata per il tramite della accennata distinzione tra titolarità e legittimazione, non appare comunque completa, in ragione di una differenza importante. Al riguardo, infatti, mentre nella rappresentanza legale la titolarità del diritto ne esclude la legittimazione a disporre (si pensi all’incapace legale, titolare del diritto ma giuridicamente impossibilitato all’esercizio dello stesso), nella rappresentanza volontaria la titolarità della situazione giuridica, il cui esercizio è stato consentito (per il tramite della procura) dal rappresentato al rappresentante, non implica che la legittimazione di quest’ultimo escluda quella, contemporanea, del rappresentato-titolare. Può pertanto rilevarsi al riguardo il concorso, a fronte di un’unica situazione di titolarità, quella del rappresentato, di due distinte posizioni di legittimazione al relativo esercizio, l’una del rappresentato in nome proprio, l’altra del rappresentante in nome altrui (sul punto Bigliazzi Geri, L.-Breccia, U.-Busnelli, F.D.-Natoli, U., Diritto civile, I, t. 1, Norme, soggetti e rapporto giuridico, Torino, 1989, 272, nt. 48). La rappresentanza volontaria, in altri termini, non realizza una dissociazione tra titolarità ed esercizio del diritto, bensì consente la contemporanea presenza della facultas agendi in capo a due soggetti diversi, rappresentato e rappresentante.
4. La procura e la rappresentanza apparente
La rappresentanza volontaria si fonda sulla procura (su cui, ampiamente, Stella, G., La rappresentanza, in Tratt. Roppo, I, Formazione, a cura di Granelli, C., Milano, 2006, 783 ss.) quale negozio giuridico unilaterale (in quanto per il relativo perfezionamento è sufficiente la sola volontà del rappresentato che ne è, appunto, l’autore), distinto e indipendente (ossia autosufficiente) rispetto all’eventuale rapporto di gestione (di regola il contratto di mandato) in virtù del quale il gestore si obbliga ad agire nell’interesse (o per conto) del gerito; recettizio (attesa la relativa efficacia negoziale allorché l’atto sia pervenuto a conoscenza del destinatario-rappresentante); a forma eventualmente vincolata (dal momento che l’art. 1392 c.c. ne subordina la validità del conferimento al rispetto delle forme eventualmente prescritte per il contratto che il rappresentante è autorizzato a concludere, secondo il principio di simmetria o relatio formale); conferibile anche nell’interesse del rappresentante (ossia in rem propriam); generale o speciale (in relazione cioè all’oggetto, se dunque riferito a tutti gli atti relativi alla gestione degli interessi patrimoniali del rappresentato o almeno un gruppo di atti, oppure se limitato a taluni specifici atti di gestione espressamente indicati); ordinariamente revocabile (ossia ritrattabile dallo stesso rappresentato con un atto ad efficacia contraria, diretto cioè a privare il rappresentante del potere originariamente attribuito con il conferimento della procura medesima) o modificabile (sotto il profilo cioè della diversa determinazione contenutistica e del correlativo àmbito di operatività) con mezzi idonei ad assicurarne la relativa conoscenza ai terzi secondo quanto disposto dall’art. 1396 c.c.
La procura, oltre a costituire l’atto negoziale di autorizzazione al compimento di atti da parte del rappresentante con efficacia diretta nella sfera giuridica del rappresentato, costituisce altresì uno strumento di conoscenza del terzo contraente in ordine alla particolare vicenda determinata dal rapporto rappresentativo (con tutto quello che ciò comporta: si pensi all’estensione dei poteri rappresentativi); per questa ragione, secondo quanto disposto nell’art. 1393 c.c., il terzo può sempre esigere dal rappresentante (propria controparte contrattuale in senso formale) la giustificazione dei relativi poteri e, nel caso in cui il potere rappresentativo risulti da atto scritto, che gli venga fornita una copia del negozio di procura firmata dallo stesso rappresentante.
Peraltro, proprio alla luce dei rapporti tra la previsione di cui all’art. 1393 c.c. e quella contenuta nell’art. 1396 c.c. (e con inevitabili riflessi quanto alla disciplina di cui all’art. 1398 c.c., su cui v., infra, § 5), può essere compresa la fattispecie della rappresentanza apparente che ricorre allorché, sulla base di circostanze univoche, un soggetto appare essere titolare di poteri rappresentativi ma in realtà ne è privo; in tal caso, infatti, proprio per la sussistenza di indici obiettivi (quantunque ingannevoli) si determina una situazione di apparenza di poteri rappresentativi che, in realtà, non esistono, con la (significativa) conseguenza che il contratto concluso dall’apparente rappresentante vincola l’apparente rappresentato nei confronti del terzo contraente (sulla rappresentanza o procura apparente quale tecnica di responsabilità De Lorenzi, V., La rappresentanza, in Comm. cc. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2012, 292 s.). Si tratta, in buona sostanza, di assicurare una tutela forte alle ragioni del terzo che ha fatto (in buona fede) affidamento nella contrattazione intrapresa a condizione però, e questo spiega la ratio della ricostruzione prospettata (in particolare dalla giurisprudenza rispetto alla fattispecie della cd. apparenza colposa), che la situazione di apparenza sia stata determinata dallo stesso (presunto) rappresentato il quale con il proprio comportamento colposo abbia ingenerato nel terzo la (fondata) convinzione in ordine alla sussistenza di (reali) poteri rappresentativi in capo al (presunto) rappresentante e che la condotta del terzo contraente sia esente da colpa (in tal senso Cass., 27.6.1983, n. 4406, in Pluris; similmente, più di recente, Cass., 28.8.2007, n. 18191, in Pluris; Trib. Catania, 8.5.2008, in Pluris). Più precisamente, la scusabilità dell’errore del terzo deve essere posta proprio in relazione alla inescusabilità del comportamento del soggetto falsamente rappresentato, la cui condotta colposa viene colpita dalla sanzione consistente nell’efficacia del contratto (sul punto Minussi, D., Un singolare orientamento della Cassazione sull’apparenza colposa, in Corr. giur., 1993, 832). Correlativamente il terzo contraente, al fine di invocare la rilevanza della situazione di apparenza, deve dimostrare di avere fatto uso dell’ordinaria diligenza richiesta nella contrattazione (ossia deve provare la propria buona fede), come nel caso della richiesta rivolta al rappresentante della prova dei relativi poteri rappresentativi ai sensi dell’art. 1393 c.c., in mancanza della quale non si può poi pretendere di far valere una situazione divergente rispetto a quella reale (è questa l’ipotesi di chi abbia confidato nella sussistenza del potere rappresentativo del contraente che abbia speso il nome del venditore in assenza di una procura rilasciata in forma scritta rispetto ad un contratto per la cui conclusione la legge la richieda).
L’individuazione della funzione della procura nell’attribuzione ad un soggetto del potere di spendita del nome altrui, per la realizzazione in capo a quest’ultimo di effetti giuridici diretti, consente del resto di comprendere le scelte effettuate in ordine alla valutazione del distinto ruolo di rappresentante e rappresentato rispetto al tema della capacità, della volontà e degli stati soggettivi. A questa stregua, infatti, la richiesta sufficienza della capacità di intendere e di volere (ossia la mera capacità naturale) in capo al rappresentante ai sensi dell’art. 1389, co. 1, c.c. trova giustificazione nel rilievo che gli atti compiuti dal rappresentante (legalmente incapace) si ripercuotono, quanto agli effetti, esclusivamente nella sfera giuridica del rappresentato (a condizione che questi sia legalmente capace), senza che il rappresentante ne possa pertanto ricevere nocumento. Atteso poi che la dichiarazione negoziale attraverso cui si esercita il potere rappresentativo proviene dal rappresentante, appare del tutto consequenziale che venga disposta, per un verso, l’annullabilità del contratto concluso da quest’ultimo se la relativa volontà risulta viziata, a meno che il vizio concerna elementi predeterminati dal rappresentato dal momento che in questo caso l’annullabilità dipende dall’eventuale vizio del volere del titolare dell’affare (cfr. art. 1390 c.c.); per altro verso, la rilevanza dello stato di buona o di mala fede (così come di conoscenza o ignoranza di talune circostante) avendo riguardo alla persona del rappresentante, tranne (anche in questa ipotesi) che si tratti di elementi predeterminati dal rappresentato (cfr. art. 1391, co. 1, c.c.), il quale peraltro non può mai (se in mala fede) giovarsi dello stato di ignoranza o di buona fede del rappresentante (cfr. art. 1391, co. 2, c.c.).
5. La rappresentanza senza potere
La sussistenza del potere rappresentativo in capo al rappresentante e il rispetto dei relativi limiti da parte di quest’ultimo costituiscono, ai sensi dell’art. 1388 c.c., il presupposto per la produzione di effetti diretti nella sfera giuridica del rappresentato (v., supra, § 1). Pertanto, laddove un soggetto si sia presentato come rappresentante senza essere tale (difetto di rappresentanza) oppure, pur essendo titolare del potere rappresentativo, abbia ecceduto i limiti del potere conferito (eccesso di rappresentanza), il relativo contratto concluso deve ritenersi inefficace, ossia assolutamente improduttivo di effetti. L’improduttività di effetti, quantunque, ma impropriamente, l’art. 1398 c.c. richiami la categoria dell’invalidità, riguarda non soltanto i rapporti tra falso rappresentato e terzo contraente, a motivo appunto dell’insussistenza del potere rappresentativo necessario alla produzione dell’effetto giuridico nei confronti del rappresentato, ma altresì i rapporti tra falso rappresentante e terzo contraente, atteso che il sedicente rappresentante ha agito pur sempre in nome altrui, ossia esternando l’insussistente potere rappresentativo e ingenerando così nel terzo la consapevolezza di contrattare, quale titolare del rapporto sostanziale, con il supposto rappresentato (in ordine alle relative problematiche, compiutamente, Turco, C., Lezioni di diritto privato, Milano, 2011, 521 ss.). Pur tuttavia tale inefficacia, sia rispetto al falso rappresentato sia rispetto al falso rappresentante, non implica che il terzo possa unilateralmente liberarsi del vincolo assunto, secondo quanto si ricava dal disposto dell’art. 1399, co. 3, c.c. che subordina ad un successivo (eventuale) accordo tra terzo e falso rappresentante lo scioglimento del contratto.
Il comportamento tenuto dal falso rappresentante viene dall’ordinamento sanzionato con la responsabilità per danni a condizione che il terzo abbia incolpevolmente fatto affidamento sull’efficacia del contratto; si tratta di una responsabilità precontrattuale, alla stessa stregua di quella sottesa all’art. 1338 c.c. (disposizione che peraltro presenta una formulazione letterale analoga a quella dell’art. 1398 c.c.), in relazione alla violazione della regola di buona fede oggettiva di cui all’art. 1337 c.c. Il risarcimento del danno, pertanto, andrà commisurato al cd. interesse negativo, ossia all’interesse del terzo a non concludere un contratto (nel caso di specie) inefficace e, dunque, non potrà coprire il pregiudizio subìto per la mancata esecuzione della prestazione oggetto del contratto medesimo (interesse cd. positivo) ma concernerà le spese (ossia il danno emergente: è questo il caso dei costi sostenuti per la corrispondenza, l’assistenza legale, i viaggi e quant’altro finalizzato alla conclusione del contratto) e il mancato guadagno (ossia il lucro cessante: è questo il caso della rinuncia ad altra occasione contrattuale vantaggiosa o comunque alternativa).
L’obbligo risarcitorio sussiste ovviamente soltanto nel caso in cui non sia ancora intervenuta (o comunque sia certo che non interverrà) da parte del falso rappresentato la ratifica del contratto concluso dal falso rappresentante; sotto questo profilo infatti la ratifica, prevista e disciplinata dall’art. 1399 c.c., è il negozio unilaterale (la cui facoltà si trasmette agli eredi) con il quale il falso rappresentato fa propri gli effetti del contratto concluso dal falso rappresentante e si presenta, pertanto, come una sorta di procura successiva, attribuendo cioè efficacia all’operato di chi agito in nome altrui senza averne i corrispondenti poteri. In considerazione della funzione la ratifica deve assumere, al pari della procura (cfr. art. 1392 c.c. e, supra, § 4), la medesima forma prescritta per il contratto concluso e deve essere portata a conoscenza del (o comunque conosciuta dal) terzo per potere produrre i propri effetti. Dal punto di vista poi della disciplina dell’operato del falso rappresentante rispetto al terzo contraente la ratifica ha effetto retroattivo (cfr. art. 1399, co. 2, c.c.), ossia consente la produzione degli effetti nella sfera giuridica del rappresentato sin dal momento della conclusione del contratto da parte del falso rappresentante; rimangono tuttavia pur sempre salvi, per espressa disposizione di legge, gli eventuali diritti dei terzi aventi causa dal rappresentato, coloro cioè che medio tempore, ossia tra la conclusione del contratto da parte del falso rappresentante e l’intervenuta ratifica da parte del rappresentato, hanno compiuto acquisti da quest’ultimo (come nel caso in cui hanno da lui acquistato lo stesso bene che ha formato oggetto dell’atto dispositivo del falso rappresentante). Proprio al fine di eliminare la situazione di incertezza determinata dall’operato del falso rappresentante il terzo contraente può poi sollecitare la decisione del falso rappresentato attraverso la cd. actio interrogatoria (o interpello) di cui all’art. 1399, co. 4, c.c., secondo uno schema che ricalca quello, in tema di accettazione di eredità, dell’art. 481 c.c.; il terzo contraente può infatti assegnare al falso rappresentato, perché si pronunci sulla ratifica, apposito termine, scaduto il quale, nel silenzio, la ratifica deve intendersi negata rendendosi così definitiva la situazione di inefficacia.
Peraltro, nella fattispecie presa in considerazione e disciplinata dall’art. 1399, co. 4, c.c. l’atto di interpello del terzo contraente non è finalizzato a consentire l’esercizio di un diritto spettante alla controparte (ossia il diritto del falso rappresentato di ratificare il contratto inefficace, diritto che non è certo subordinato ad alcun atto di interpello), bensì è destinato a permettere una più rapida definizione di una vicenda giuridica che presenta caratteri di incertezza e di pendenza, atteso che la ratifica del contratto concluso dal falsus procurator è ammessa senza limiti di tempo (Cass., 10.3.1981, n. 1341, in Foro it., 1982, I, 508). L’atto di interpello, pertanto, è diretto a tutelare le ragioni del terzo contraente interessato ad una soluzione chiara e definitiva della vicenda; in questo senso si è rilevato che all’attività richiesta all’interpellato (ossia il falso rappresentato) è direttamente interessato l’interpellante (ossia il terzo contraente), nel senso che il compimento di tale attività soddisfa un interesse proprio di quest’ultimo (Mirabelli, G., L’atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955, 376). Non a caso la giurisprudenza, pur ritenendo che l’eventuale mutuo dissenso proveniente dagli stessi originari contraenti (falso rappresentante e terzo) ai sensi dell’art. 1399, co. 3, c.c. non incide (risolvendolo) su un rapporto contrattuale sorto tra di loro, tuttavia ne evidenzia l’incidenza sulla situazione di soggezione in cui versa il terzo, a fronte appunto del potere di ratifica che compete al falso rappresentato e che proprio l’atto di interpello mira a sollecitare per definire compiutamente (in un senso o nell’altro) la vicenda contrattuale (Cass., 27.11.2006, n. 25126, in Pluris).
6. Il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato
Il rappresentante deve esercitare il proprio potere di rappresentanza in conformità all’interesse del rappresentato, così come del resto è puntualmente indicato nell’art. 1388 c.c.; proprio tale interesse assume un rilievo peculiare se correlato, con riferimento all’utilizzo usuale dell’istituto rappresentativo, alla disciplina del conflitto di interessi e del contratto con se stesso di cui, rispettivamente, agli artt. 1394 e 1395 c.c. In particolare, il conflitto di interessi designa un’ipotesi di contrasto tra l’interesse del rappresentato e l’interesse del rappresentante indicando incompatibilità tra l’esercizio del potere rappresentativo e lo scopo per cui il potere medesimo è stato concesso; si è pertanto in presenza di un abuso funzionale del potere di rappresentanza, ossia di un abuso dell’esercizio e nell’esercizio del potere di rappresentanza, di un esercizio illegittimo cioè dello stesso potere rappresentativo (chiaramente Pugliatti, S., Il conflitto di interessi tra principale e rappresentante, ora in Studi sulla rappresentanza, cit., 150). In altri termini il conflitto di interessi discende logicamente dal principio generale per cui il titolare di un potere conferito nell’interesse altrui deve usarlo in conformità con l’interesse per il quale il potere è stato conferito (in questo senso Cass., 21.8.1996, n. 7698, in Giur. it., 1997, I, 1, 1382).
Il legislatore ha quindi inteso attribuire rilevanza a quelle deviazioni dell’operato del rappresentante dall’interesse del rappresentato che siano determinate dal proposito del primo di realizzare, al momento della conclusione del contratto, interessi, suoi propri o di terzi, in contrasto, e dunque inconciliabili, con quelli del secondo, a prescindere dal fatto che in concreto il rappresentato abbia per ciò stesso sofferto o meno un danno (è questo il caso, classico, in cui il rappresentante venda il bene alla propria moglie al prezzo indicato dallo stesso rappresentato). Si è pertanto in presenza di una fattispecie in cui assume rilevanza il mero (dunque potenziale) pericolo di danno nei confronti del rappresentato, pericolo correlato all’esercizio del potere rappresentativo per uno scopo confliggente (l’utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante) con quello per il quale tale potere è stato conferito, ossia in termini di impedimento al normale esercizio del potere medesimo. Peraltro, il giudizio sulla congruità dell’operato del rappresentante rispetto all’interesse del rappresentato viene rimesso dall’ordinamento alla libera valutazione del rappresentato stesso, arbitro di impugnare con la domanda di annullamento il contratto concluso dal rappresentante; il relativo accoglimento dipenderà altresì, al di là della prova della sussistenza del conflitto (quale relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori il rappresentato e il rappresentante, in ordine alla quale, in tema di società, Cass., 17.10.2008, n. 25361, in Pluris), dalla posizione del terzo contraente, atteso che l’annullamento è subordinato alla conoscenza o conoscibilità del conflitto da parte del terzo medesimo, ossia alla prova della relativa mala fede (cfr. art. 1394 c.c.).
Ipotesi paradigmatica di conflitto di interessi è poi tradizionalmente ritenuta la fattispecie del contratto con se stesso, che ricorre allorquando il rappresentante contratta in proprio o come rappresentante di un’altra parte, assumendo pertanto le vesti di entrambe le parti contraenti (come nel caso in cui il rappresentante incaricato di vendere il bene assume altresì il ruolo di acquirente, in nome proprio o in nome di altro soggetto). Anche in tal caso, ai sensi dell’art. 1395 c.c., il contratto è annullabile, senza che qui ovviamente rilevi lo stato soggettivo del terzo contraente, su iniziativa del rappresentato, che tuttavia può preventivamente escludere il conflitto di interessi attraverso specifica autorizzazione all’autocontrattazione oppure attraverso apposita determinazione contenutistica del contenuto del contratto da concludere (come nel caso della preventiva fissazione dei termini dell’affare in modo tale che risulti del tutto indifferente per il rappresentato che la propria controparte del rapporto contrattuale sia lo stesso rappresentante, in nome proprio o in nome altrui, ciò che abitualmente può verificarsi nel caso di vendite al pubblico al prezzo di listino).
In merito al rapporto tra le previsioni di cui agli artt. 1394 e 1395 c.c. se ne è evidenziato il carattere distinto e autonomo, giacché alla stregua della prima il conflitto di interessi va configurato come preesistente alla conclusione dell’affare e dunque deve risultare ex ante (in considerazione cioè, in capo al rappresentante, dell’esistenza di interessi giuridicamente protetti inconciliabili con la cura dell’interesse del rappresentato); viceversa, relativamente (e limitatamente) al contratto con se stesso (atteso che l’ipotesi della doppia rappresentanza pone il medesimo ordine di rilievi di cui all’art. 1394 c.c.), il conflitto di interessi risulta posteriore alla conclusione dell’affare e dunque va valutato con un giudizio ex post (in quanto determinato dalle posizioni giuridiche soggettive che si vengono a creare) (in questo senso Sirena, P., Alienità dell’affare e conflitto di interessi fra rappresentante e rappresentato ex art. 1394 c.c., in Riv. dir. civ., II, 1994, 93). Si potrebbe allora, sotto questo profilo, distinguere un conflitto di interessi “da posizione”, legato cioè alla compresenza originaria di interessi del rappresentante incompatibili con quelli del rappresentato, e un conflitto di interessi “da risultato”, in quanto è proprio l’attività di cooperazione rappresentativa a determinare il conflitto medesimo.
Fonti normative
Artt. 1387-1400 c.c.
Bibliografia essenziale
Bianca, C.M., Diritto civile, III, Il contratto, II ed., Milano, 2000, 53 ss.; Bigliazzi Geri, L., La rappresentanza in generale, in Il contratto in generale, t. VI, in Tratt. Bessone, XIII, Torino, 2000, 3 ss.; Bigliazzi Geri, L.-Breccia, U.-Busnelli, F.D.-Natoli, U., Diritto civile, I, t. 2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1989, 551 ss.; Carnevali, U, La rappresentanza, in Istituzioni di diritto privato, XVII ed., a cura di Bessone, M., Torino, 2010, 667 ss.; De Lorenzi, V., La rappresentanza, in Comm. c.c. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2012; Di Rosa, G., Rappresentanza e gestione. Forma giuridica e realtà economica, Milano, 1997; Di Rosa, G., Il mandato, I, in Comm. c.c. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2012, 71 ss.; Natoli, U., La rappresentanza, Milano, 1977; Nattini, A., La dottrina generale della procura. La rappresentanza, Milano, 1910; Papanti Pelletier, P., Rappresentanza e cooperazione rappresentativa, Milano, 1984; Pugliatti, S., Il conflitto di interessi tra principale e rappresentante, ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 35 ss.; Pugliatti, S., Il rapporto di gestione sottostante alla rappresentanza, ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 155 ss.; Pugliatti, S., Sulla rappresentanza indiretta, ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 395 ss.; Roppo, V., Il contratto, II ed., in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2011, 243 ss.; Stella, G., La rappresentanza, in Tratt. Roppo, I, Formazione, a cura di Granelli, C., Milano, 2006, 721 ss.; Turco, C., Lezioni di diritto privato, Milano, 2011, 513 ss.; Zanelli, E., Rappresentanza e gestione, in Studi urbinati, XXXIV, 1965-1966, 1 ss.