Abstract
L’art. 19 dello Statuto dei lavoratori ha la finalità di creare un meccanismo selettivo per stabilire quali fra i soggetti sindacali presenti in azienda possano godere dei diritti sindacali previsti dal titolo terzo della l. 20.5.1970, n. 300. Dal sistema originario, che preferiva il criterio della maggiore rappresentatività, si è passati (ad opera del referendum del 1995) ad un modello che prevede la stipulazione del contratto collettivo come unico meccanismo selettivo. Tale meccanismo ha creato un sistema disequilibrato per il ruolo riconosciuto al datore di lavoro al fine della determinazione dei titolari dei diritti sindacali. La sentenza della Corte Costituzionale n. 231/2013 ha eliminato tale aporia prevedendo che possano costituire RSA anche le associazioni sindacali che, quantunque non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione quali rappresentanti dei lavoratori in azienda.
In una critica abbastanza serrata all’impostazione originaria dell’art. 19 st. lav., si è affermato di recente che «la denuncia del deficit di democrazia è andata sempre più accentuandosi con l’espandersi a macchia di olio della formula della maggiore rappresentatività», che avrebbe «rafforzato la percezione dell’esistenza di un sistema alternativo sostenuto dalla legge, collocato interamente fuori dei modelli organizzativi e dei principi democratici proposti dalla Costituzione e retto da una scelta selettiva senza regole chiare, all’insegna della più totale discrezionalità del legislatore», tanto che si sarebbe radicata la «opinione di quella che possiamo chiamare ‘ingiustizia’ della legislazione di sostegno» (v. Bellocchi, P., Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2011, 550 ss.).
L’art. 19 st. lav. è nato per creare un meccanismo selettivo al fine di stabilire quali fra i soggetti sindacali presenti in azienda potessero godere dei diritti sindacali regolati dal titolo terzo della l. 20.5.1970, n. 300. A tale fine, ferma l’iniziativa dei lavoratori, le rappresentanze sindacali potevano essere costituite o nell’ambito delle confederazioni sindacali con maggiore rappresentatività o nell’ambito delle associazioni che avessero stipulato un contratto collettivo di livello diverso da quello aziendale, ma applicato nell’unità produttiva. Dopo varie trasformazioni, il testo ha oggi un mero valore storico, come lo hanno le forti contrapposizioni giurisprudenziali sull’identificazione delle confederazioni con maggiore rappresentatività. Il punto non ha più alcun rilievo ai fini dell’applicazione dell’art. 19 della l. n. 300/1970.
L’intento dell’art. 19 st. lav. di ricomporre eccessi di conflittualità con l’attribuzione programmata di enormi vantaggi competitivi alle strutture aziendali afferenti ai sindacati confederali maggioritari rispecchiava decisioni politiche centrali nell’impianto della l. n. 300/1970. La storia dell’attuazione dell’art. 19 st. lav. è stata all’insegna della limitazione della parità di trattamento fra i soggetti sindacali presenti in azienda. Anche oggi, ci si chiede quale sia il parametro più equo (v. Bellocchi, P., Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, cit., 547 ss.), al fine di determinare i titolari dei diritti sindacali. Si sarebbe dovuto domandare se l’attribuzione programmata di vantaggi competitivi ad alcune associazioni non comporti una disarticolazione della complessiva libertà, in nome della dichiarata efficienza del sistema, con l’assegnazione di grandi vantaggi a organizzazioni considerate più affidabili.
Di recente, si è cercato di ridimensionare lo scopo selettivo dell’art. 19 st. lav. e si è fatto riferimento alla «filosofia di una legge interamente calata dentro la logica di una autonoma regolazione della rappresentanza e dei diritti sindacali», in quanto «la materia (…) aveva già prima del 1970 una regolamentazione» (v. Bellocchi, P., Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, cit., 562 ss.). Peraltro, salvo cadere in un immotivato dominio del criterio storico di ricostruzione degli istituti su qualunque altro, tale obbiettivo ha implicato la sostituzione dei percorsi eteronomi a quelli convenzionali. A prescindere da qualunque paragone fra l’oggetto dei diritti regolati dalle intese prima del maggio del 1970 e quelli voluti dagli artt. 20 ss. st. lav., se «lo Stato puntava esplicitamente a consolidare e generalizzare» (v. Bellocchi, P., Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, cit., 557 ss.) i diritti stessi, la loro disciplina è ricaduta fuori dal perimetro dei negozi sindacali. Quindi, non si può asserire che «i diritti (…) nei luoghi di lavoro appartengono alla parte obbligatoria dei contratti collettivi» e che «la costituzione di una rappresentanza sindacale aziendale e la titolarità delle prerogative sindacali sono la conseguenza di rapporti negoziali diretti con le controparti», proprio in virtù dell’art. 19 st. lav.
La vocazione selettiva dell’art. 19 st. lav. non può essere misconosciuta, se non si vuole perdere di vista il senso ultimo della l. n. 300/1970, proiettata a rafforzare lo spazio di iniziativa di alcune associazioni a scapito delle altre, tanto che la titolarità dei diritti implicava e comporta anche ora, in un diverso contesto, specifici presupposti, voluti dall’art. 19 st. lav. per contrapporre il destino di differenti gruppi (v. Mancini, G.F., Commento all’art. 19, in Ghezzi, G.-Mancini, G.F.-Montuschi, L.-Romagnoli, U., Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, ed. I, Bologna-Roma, 1972, 330 ss.). Se non fosse un quesito ormai di ordine storico, più che di attualità, vi sarebbe da chiedersi se la valorizzazione della libertà sindacale si potesse coniugare con una programmata diversità di trattamento, su un punto qualificante come la tutela dell’attività in azienda (v. Rusciano, M., Sul problema della rappresentanza sindacale, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1987, 229 ss.; Napoli, M., Sindacato, in Dig., comm., XVI, 517 ss.; Campanella, P., Rappresentatività sindacale: fattispecie e effetti, Milano, 2000, 206 ss.).
Si sarebbero potuti immaginare diritti meno articolati e meno onerosi per le imprese, ma riservati a più destinatari, se non con il taglio onnicomprensivo dell’art. 14 st. lav. Dopo il 1970, i diritti della parte obbligatoria dei contratti di categoria sono inseriti in un contesto nuovo, così che non vi è alcuna continuità sistematica (v. Giugni, G., Il sindacato fra contratti e riforme. 1969-1973, Bari, 1973, 83 ss.; sull’influenza dell’art. 19 st. lav. sui rapporti di forza dei gruppi protagonisti del sistema di relazioni industriali, v. Mengoni, L., I diritti e le funzioni dei sindacati e dei rappresentanti sindacali nell’impresa, in Jus, 1974, 393 ss.; Scognamiglio, R., I diritti e le funzioni dei sindacati e dei rappresentanti sindacali nell’impresa, in Scritti giuridici, II, Diritto del lavoro, Padova, 1996, 1691 ss.). L’art. 19 st. lav. ha voluto non fermare, ma influire in modo energico sul divenire dei rapporti di forza, aiutando a ricreare l’assoluta centralità delle associazioni maggioritarie, in un clima di contestazione accesa e di crescente spontaneismo, ostile alle esigenze negoziali delle imprese e difforme dalla Costituzione materiale vigente nel 1970. In questo senso, l’art. 19 st. lav. è stato uno dei motori della successiva evoluzione di molti aspetti della Costituzione materiale, connotata dalla collaborazione stretta fra Stato e sindacato e dall’aperta protezione del primo per le componenti maggioritarie del secondo.
La modificazione del testo originario dell’art. 19 st. lav. a opera del referendum ha comportato il riferimento esclusivo a un criterio singolare, la stipulazione di un contratto applicato nell’unità produttiva, così che l’accreditamento negoziale sufficiente per ottenere la titolarità dei diritti presuppone il consenso del datore di lavoro, il quale interferiva con la scelta dei soggetti che potessero godere del forte sostegno degli artt. 20 ss. st. lav. A prescindere dall’intento personale dei promotori del referendum del giugno 1995, la seconda stesura dell’art. 19 st. lav. suona come il frutto di una stagione di consociativismo (v. Liebman, S., Forme di rappresentanza degli interessi organizzati e relazioni industriali in azienda, in Dir. rel. ind., 1996, 8 ss.). L’assegnazione di una sorta di cospicuo premio per il raggiungimento dell’intesa ha turbato il sereno esercizio della rappresentanza.
In un panorama di relazioni industriali dominato dalla centralità del contratto di categoria e dalla sua costante applicazione da parte della stragrande maggioranza delle imprese, il secondo testo dell’art. 19 st. lav. ha dato tutela per un lungo periodo costante alle confederazioni tradizionali e consentito a esse di dispiegare in azienda il loro potere (v. Natullo, G., Le rappresentanze sindacali aziendali ieri, oggi e domani?, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT –116/2011, 9 ss., il quale fa persuasivo riferimento al fatto «che il nuovo art. 19 st. lav. potesse segnare un cambiamento gattopardesco, in ragione dello strapotere contrattuale delle associazioni aderenti alle confederazioni sindacali storiche, che perpetua il rischio di autoreferenzialità»).
Lungi dal fornire una soluzione del problema di coerenza costituzionale sollevato dall’art. 19 st. lav., una nota decisione della Corte costituzionale ha cercato di eluderlo, affermando che «la rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro, espresso in forma pattizia, ma è una qualità giudica attribuita dalla legge alle associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti collettivi (nazionali, locali o aziendali) applicati nell’unità produttiva» (v. C. cost., 12.7.1996, n. 244, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 447). La sentenza confermava la matrice eteronoma dell’istituto e, sul punto, era ineccepibile; all’art. 19 st. lav. spetta la distribuzione delle risorse. Però, una larga parte dell’iniziativa è stata rimessa al datore di lavoro, in specie nei confronti dei soggetti esclusi dalla conclusione dei contratti di categoria. Se, per lo più, la singola impresa li subisce e di rado riesce a condizionare i percorsi della loro stipulazione, lo stesso non si può dire per le intese aziendali. A tale riguardo, è decisiva la volontà del datore di lavoro. Sarebbe stato strano vedere in ciò una sorta di coronamento della dimensione dell’autonomia collettiva. Se mai, nel suo secondo testo, l’art. 19 st. lav. ha introdotto una turbativa, facendo balenare poste in palio eterogenee rispetto all’oggetto delle possibili convenzioni.
Vi è da chiedersi quanto fosse coerente con il principio dell’art. 39, co. 1, cost. una selezione rimessa all’impresa, seppure in parte. Del resto, «il contratto collettivo non è rilevante come negozio giuridico (infatti, può anche non regolare i diritti sindacali) produttivo di effetti negoziali, ma come momento terminale della più rilevante tra le attività di rappresentanza» (v. Garofalo, M.G., Rappresentanze aziendali e referendum. Opinione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1995, 665 ss.). La conclusione dell’intesa aziendale è spesso diventata una sorta di premio, con la suddivisione dei benefici mediata dal soggetto passivo degli obblighi. Sono state evidenti le possibili aperture consociative di un modello che non solo avrebbe voluto tutelare la libertà senza garantire la parità di trattamento, ma lasciava all’impresa stabilire chi dovesse rimanere escluso dalla protezione. Né la capacità di proselitismo portava sempre alla stipulazione; per giungere all’accreditamento dell’art. 19 st. lav., non era facile superare possibili alleanze fra le organizzazioni maggioritarie e le imprese.
Si potrebbe a lungo discutere sull’intento soggettivo dei promotori del referendum del giugno 1995. Nell’applicazione dell’ultimo testo dell’art. 19 st. lav., le confederazioni maggioritarie sono state per lungo tempo garantite dall’operare del contratto di categoria nei confronti dell’assoluta maggioranza dei datori di lavoro, mentre lo scontro ha infuriato in ambito aziendale, per gli altri organismi cui non era riferibile l’accordo nazionale. Se una associazione non stipulava né il contratto nazionale, né quello aziendale, l’art. 19 st. lav. faceva venire meno la titolarità dei diritti.
Del resto, se, a proposito della precedente versione dell’art. 19 st. lav., per la Corte costituzionale il sostegno legale era «una qualità giuridica attribuita dalla legge alle associazioni (…) che abbiano stipulato contratti (…)» (v. C. cost., 12.7.1996, n. 244, cit.) era singolare dare risalto a un accordo a prescindere dal suo oggetto e per la sua semplice esistenza, non perché disciplinava la materia dei diritti sindacali. L’art. 19 st. lav. trasforma il negozio in una entità differente dalla sua intrinseca natura e non lo coglie come manifestazione consapevole dell’autoregolazione degli interessi, ma in quanto indice di accreditamento. Si programmava una turbativa delle trattative, con l’inserimento di effetti ulteriori, diversi da quelli derivanti dall’attuazione delle decisioni consensuali. Cercando una intesa su un punto, si producevano conseguenze determinate dall’art. 19 st. lav. su un piano differente e restava la posizione centrale dell’impresa che, perseguendo le migliori soluzioni sui problemi considerati in via diretta, faceva intravvedere le ricadute ulteriori.
A fronte del paradigma legale dell’art. 19 st. lav., il sistema dell’accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 ha imposto di stabilire la titolarità dei diritti nel caso di costituzione delle rappresentanze unitarie (sul nesso fra l’istituzione delle rappresentanze sindacali unitarie nel lavoro privato e la complessiva revisione del sistema contrattuale, v. Grandi, M.-Rusciano, M., Accordo del 31 luglio 1992 e contrattazione aziendale, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1993, 213 ss.; Mariucci, L., Poteri dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitarie e contratti collettivi, ibid., 1996, 213 ss.; Perone, G., L’accordo sul costo del lavoro del 3 luglio 1993: i soggetti della negoziazione, in Dir. lav., 1994, I, 3 ss.; Ricciardi, L., La riforma delle rappresentanze sindacali d’azienda, in Dir. rel. ind., 1995, 2, 22 ss.; Napoli, M., La rappresentanza sindacale unitaria nell’accordo del 23 luglio 1993, in Questioni di diritto del lavoro (1992-1996), Torino, 1996, 393 ss.), fermo il carattere pattizio dell’istituto.
Ci si è domandato spesso quali canoni presiedano alla formazione della volontà della rappresentanza unitaria (v. Ferraro, G., Morfologia e funzione delle nuove rappresentanze aziendali nell’accordo interconfederale del dicembre 1993, in Riv. giur. lav., 1995, I, 211 ss.) e se, al suo interno, debba o possa essere applicata una regola maggioritaria, in quali limiti e con quali forme di tutela per i dissenzienti, a tutela della loro libertà. Nel contesto legale privatistico, ancora oggi, «la logica organizzativa interna, che presiede al processo formativo, non è oggetto di alcuna prescrizione» (v. Grandi, M., L’attività sindacale nell’impresa, Milano, 1976, 83 ss.). A partire dal 1993, seppure in un orizzonte contrattuale, il sistema elettivo è divenuto centrale (v. Scarponi, F., I modelli organizzativi del sindacato fra associazione e rappresentanza generale, in Lav. dir., 1991, 349 ss.), al punto che è in discussione il principio desumibile dall’art. 19 st. lav. per cui «non possono ammettersi determinazioni vincolanti in tema di metodi o di procedure di costituzione» (v. Grandi, M., L’attività sindacale nell’impresa, cit., 83 ss.). Ora, determinazioni vincolanti esistono, seppure solo in una logica convenzionale.
Si afferma che, «in un assetto negoziale come quello protocollare, ordinato secondo principi di gerarchia e competenza, il rinvio a una rappresentatività conquistata, ex lege, in forza del libero e reciproco riconoscimento al tavolo negoziale di secondo livello non ha spazi di agibilità, mentre il privilegio per le organizzazioni stipulanti il contratto collettivo nazionale di lavoro altro non fa se non perpetuare il monopolio assoluto dei sindacati ‘storici’» (v. Campanella, P., Rappresentatività sindacale: fattispecie ed effetti, cit., 304 ss.). Qualora si espletino le elezioni, le organizzazioni minoritarie non sono vincolate a partecipare; sulla base di valutazioni di opportunità, possono agire fuori dalla rappresentanza unitaria, condizionandone le scelte con separate iniziative rivendicative. L’alternativa fra il modello legale e quello convenzionale ha determinato un notevole dinamismo, con una concorrenza fra le differenti forme di rappresentanza.
Le organizzazioni sindacali possono abbandonare le rappresentanze unitarie e operare fuori da esse, al limite evitando di partecipare alla loro costituzione. Salve ipotetiche e irrealistiche responsabilità risarcitorie, ciascun gruppo si può accreditare quale interlocutore dell’impresa come meglio ritiene e il contratto non risente né in ordine alla validità, né con riguardo all’efficacia dell’eventuale deviazione dal modello di esercizio della rappresentanza voluto dagli accordi interconfederali, poiché le relative clausole sono obbligatorie. In qualsiasi momento i soggetti collettivi possono accantonare la rappresentanza unitaria e applicare l’art. 19 st. lav.. Quindi, l’azione della rappresentanza unitaria deve essere accompagnata quanto meno dal mancato esercizio del potere di dissenso riconosciuto a tutti i gruppi presenti in azienda. Per converso, se anche stipulasse l’intesa con interlocutori differenti dalla rappresentanza unitaria e, per esempio, con quelle aziendali o persino con entità attive ai sensi dell’art. 14 st. lav., l’impresa non cadrebbe in alcuna violazione dell’art. 28 st. lav., per la natura obbligatoria delle clausole dell’accordo del 20 dicembre 1993 (cfr. Cass., 18.4.2001, n. 5657; Trib. Pisa, 4.4.2002, in Orient. giur. lav., 2002, I, 708; Trib. Milano, 26.2.1994, in Giust. civ., 1995, I, 2263). Il sistema contrattuale opera su un piano diverso da quello legale.
Vi è da chiedersi come si configuri la titolarità dei diritti sindacali nell’ipotesi di costituzione di rappresentanze unitarie. In una prima fase, si era sostenuto che il successo nella contesa elettorale di un gruppo non in grado di porre in essere una rappresentanza aziendale ai sensi dell’art. 19 st. lav. non avrebbe attribuito a tale organismo (e ai rispettivi componenti della rappresentanza unitaria) i diritti del Titolo terzo della l. n. 300/1970 (v. Cass., 26.2.2002, n. 2855; sul fatto che le assemblee possano essere indette solo dalla rappresentanza unitaria in via collegiale, v. Trib. Crema, 30.3.2001, in Orient. giur. lav., 2001, I, 1; in senso diverso, v. App. Roma, 13.9.2001, in Riv. crit. dir. lav., 2001, 932; Trib. Milano, 11.5.2001, ibid., 2001, 636). Qualora si indicano le elezioni, in conformità all’accordo del 20 dicembre 1993, la contesa è aperta alla partecipazione di tutti i soggetti disponibili, in conformità alla regolazione pattizia e a prescindere dalla loro natura, dalla loro adesione all’accordo del 20 dicembre 1993 e dalla loro rispondenza ai criteri dell’art. 19 st. lav., sempre vincolanti in tema di titolarità dei diritti.
Con una modificazione parziale delle tesi originarie, si è suggerito che «le prerogative (…) previste per le rappresentanze (…) unitarie (…) non sono condizionate a monte dal previo riscontro della sussistenza della rappresentatività sindacale ai sensi dell’art. 19 st. lav.» (v. Cass., 24.1.2006, n. 1307). Infatti, l’autonomia contrattuale potrebbe «prevedere organismi (…) diversi» da quelli legali e ai primi «può assegnare prerogative (…) non identiche a quelle delle rappresentanze aziendali» (v. Cass., 1.2.2005, n. 1982). Anzi, «non è esclusa l’estensione pattizia delle prerogative previste in favore di talune organizzazioni ad altre» (v. Cass., 10.1.2005, n. 269; v. anche Cass., 27.1.2011, n. 1955), se ciò si verifica nell’ambito di operatività dell’accordo del 23 dicembre 1993.
Queste posizioni non sono condivisibili; in qualche modo, l’accordo del 23 dicembre 1993 consente alle confederazioni maggioritarie di lanciare ad altri una sorta di sfida elettorale. Nessuno è obbligato a prendere parte alla contesa, proprio per la natura convenzionale del meccanismo e per il carattere obbligatorio delle relative clausole, le quali non possono vincolare chi non abbia concluso l’intesa, né vi abbia aderito. Anzi, persino gli stipulanti si possono sottrarre al rispetto delle previsioni negoziali senza troppi rischi, perché è remoto il pericolo di subire domande risarcitorie. Avviata la competizione elettorale, chiunque può intervenire, nel rispetto dell’accordo del 23 dicembre 1993, fermo il potere di non accettare il cimento e, se del caso, di costituire una rappresentanza aziendale, qualora ne ricorrano le condizioni.
Se si prende parte alle elezioni, la rappresentanza è unitaria nel senso che i vincitori, a prescindere dalle loro convinzioni, diventano componenti dell’organismo. Però, per la titolarità dei diritti, devono sempre sussistere i requisiti dell’art. 19 st. lav., poiché il criterio non è stato abrogato o derogato, né il contratto collettivo avrebbe potuto farlo, né si ravvisa un impegno vincolante del datore di lavoro a riconoscere la titolarità a soggetti diversi da quelli selezionati ai sensi dell’art. 19 st. lav. Fanno eccezione le garanzie poste a presidio dell’autonomia di ciascun componente della rappresentanza unitaria; con la stipulazione del relativo accordo interconfederale, tali tutele sono state estese a tutti i membri, a prescindere dall’associazione originaria, con clausole normative del negozio, efficace in via diretta a favore di ogni dirigente sindacale (sul dovere del datore di lavoro di rivolgere le sue comunicazioni a tutti i componenti della rappresentanza sindacale unitaria, v. Pret. Milano, 31.12.1998, in Riv. crit. dir. lav., 1999, 305; Pret. Milano, 17.1.1996, ibid., 1996, 626. In senso opposto, per il dichiarato “carattere unitario” della rappresentanza aziendale, cfr. Pret. Livorno, 28.4.1998, in Nuova giur. civ. comm., 1999, I, 295).
A tacere delle previsioni concernenti la protezione dei componenti della rappresentanza unitaria, per gli altri diritti la titolarità rimane fissata dall’art. 19 st. lav., nonostante l’eventuale successo di gruppi che non abbiano stipulato contratti applicati nell’unità produttiva. La conclusione è suggerita dall’inesistenza di alcuna deroga al parametro selettivo legale e, in fondo, dall’impossibilità di introdurla in un contesto solo convenzionale. Ciò suona come una sorta di beffa per gli organismi vincitori, ma non in condizione di stipulare un accordo rilevante ai sensi dell’art. 19 st. lav.
L’impianto dell’art. 19 st. lav. voluto dal referendum del 1995 era disequilibrato, per il ruolo riconosciuto al datore di lavoro al fine della determinazione dei titolari dei diritti sindacali, così che la vocazione selettiva della norma si riferiva a un parametro nel quale il (…) soggetto obbligato avrebbe potuto avere un ruolo decisivo nell’identificazione dei suoi creditori, in pericoloso contrasto con la vocazione della libertà sindacale. Nel 1995 il rischio non era attuale e sarebbe occorso spirito profetico per immaginare la successiva evoluzione, in un panorama economico e di relazioni industriali assai diverso, in specie con un nuovo equilibrio fra imprese e associazioni sindacali, nell’infuriare della crisi economica. Negli ultimi anni, il principale gruppo italiano ha ritenuto di richiamare l’art. 19 st. lav. al fine di contribuire all’identificazione dei titolari dei diritti sindacali, con un ruolo attivo al fine della determinazione dei soggetti in grado di stipulare un accordo collettivo (v. Carinci, F., Il grande assente: l’art. 19 dello Statuto, in Argomenti dir. lav., 2012, 333; Carinci, F., Il buio oltre la siepe: Corte costituzionale 23 luglio 2013, n. 231, in Dir. rel. ind., 2013, 899 ss.; Del Punta, R., L’art. 19 davanti alla Consulta: una pronuncia condivisibile ma interlocutoria, in lav. dir., 2013, 527 ss.).
Ne sono derivate inevitabili contrapposizioni giudiziali e, in fine, una nota e storica decisione della Corte costituzionale, per cui è illegittimo, per violazione agli artt. 2, 3 e 39 cost., l'art. 19 st. lav. «nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, quantunque non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda. Siffatta declaratoria di incostituzionalità è finalizzata a eliminare l'aporia indotta dall'esclusione dal godimento dei diritti in azienda del sindacato non firmatario di alcun contratto collettivo, ma dotato dell'effettivo consenso da parte dei lavoratori» (v. C. cost., 23.7.2013, n. 231), con l’ulteriore precisazione per cui «il criterio della sottoscrizione dell'accordo applicato in azienda viola gli artt. 2, 3 e 39 cost. Risulta violato l'art. 3 cost., sotto il duplice profilo dell'irragionevolezza intrinseca del predetto criterio e della disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare tra sindacati, atteso che questi ultimi, nell'esercizio della loro funzione di autotutela dell'interesse collettivo, che, in quanto tale, reclama la garanzia dell’art. 2 cost., sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività, bensì del rapporto con l'azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa. Ciò viola anche l'art. 39 cost., per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale».
In qualche modo la decisione era scontata (v. Persiani, M., Ancora sulla sopravvenuta illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge n. 300 del 1970, in Argomenti dir. lav., 2012, 1093 ss.), perché, introdotto un criterio selettivo nell’ordinamento in ordine alla titolarità dei diritti sindacali (v. Ghera, E., L’articolo 19 dello Statuto, una norma da cambiare?, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2013, 185 ss.), non era pensabile che il datore di lavoro potesse svolgere un ruolo attivo al fine di determinare i titolari dei diritti e, se mai, vi è da chiedersi come sia stato possibile considerare ammissibile sul piano costituzionale il referendum del 1995 (v. Leccese, V., Partecipazione alle trattative, tutela del dissenso e art. 19 dello Statuto dei lavoratori, in Lav. dir., 2013, 539 ss.). Se, all’epoca, non si era compreso quali fossero le potenzialità della disposizione e come essa avrebbe potuto portare a distorsioni rispetto al razionale esercizio del potere di rappresentanza, lo svolgersi dei fatti ha fatto emergere la questione e ha reso inevitabile una nuova revisione dell’art. 19 st. lav., peraltro in attesa di una sistemazione definitiva, poiché il punto di equilibrio sancito dalla pronuncia è precario.
Si legge nella motivazione un riferimento all’illegittimità della «esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative». Si parla ancora della «tutela dell’art. 28 st. lav. nell’ipotesi di un eventuale, non giustificato, negato accesso al tavolo delle trattative». È appena il caso di sottolineare che, per giurisprudenza consolidata, non esiste un diritto a partecipare alle trattative, a prescindere dal successo riscosso da una organizzazione sindacale. Infatti, «malgrado non sussista nel campo delle relazioni industriali un principio di parità di trattamento tra le varie organizzazioni sindacali, viene a configurare una condotta antisindacale il comportamento datoriale che si concretizzi in un rifiuto, a danno di taluni sindacati, di forme di consultazione, di esame congiunto o di instaurazione di trattative, previste in via espressa da clausole contrattuali o da disposizioni di legge, allorquando detto rifiuto si traduca (sia per le modalità in cui si esprime, sia per il comportamento globale tenuto dall'imprenditore nei riguardi di dette organizzazioni) in condotte oggettive discriminatorie, atte a incidere in modo negativo sulla stessa libertà del sindacato e sulla sua capacità di negoziazione, minandone la credibilità e l'immagine anche sotto il profilo della forza aggregativa in termini di acquisizione di nuovi consensi» (v. Cass., 9.1.2008, n. 212).
Nell’immediato, la decisione della Corte costituzionale lascia aperto un problema cruciale; a volere tacere del caso in cui il datore di lavoro o la sua associazione di rappresentanza si comportino in modo scorretto, una associazione sindacale ha diritto a partecipare alle trattative e può chiedere al giudice di tutelare tale diritto (e, quindi, il contesto regolativo delle trattative è stato modificato dalla pronuncia della Corte costituzionale) oppure può solo scioperare? Il conflitto riguarderà ora i cosiddetti sindacati autonomi, i quali sosterranno che la citata decisione ha alterato i principi tradizionali sulla partecipazione alle trattative e cercheranno di argomentare sul fatto che hanno un diritto e che esso può e deve essere tutelato dal giudice, qualora non sia riconosciuto in modo spontaneo dal datore di lavoro e dalle sue associazioni di rappresentanza. L’esito di questa contrapposizione è imprevedibile, per la scarsa trasparenza dei criteri enunciati dalla Corte costituzionale.
L. 20.5.1970, n. 300.
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