Abstract
La voce affronta in sintesi l’evoluzione della struttura e dell’esperienza applicativa dell’art. 19 della l. 20.5.1970, n. 300, cercando di mettere in luce le diverse trasformazioni subite dalla disposizione rispetto al concetto di rappresentatività, anche sulla base delle ultime indicazioni della Corte costituzionale. L’attenzione è concentrata sulla categoria della rappresentatività e sui criteri della sua identificazione, ai fini della titolarità dei diritti sindacali. Altre voci esaminano in modo specifico la nozione di rappresentanza aziendale e quella di rappresentanza unitaria. Qualche accenno è dedicato al rilievo della rappresentatività fuori dall’area di diretta vigenza dell’art. 19 l. n. 300/1970, e, più in generale, per la selezione ad altri fini di credibili rappresentanze sindacali.
L’introduzione del concetto di rappresentatività sindacale nel testo originario dell’art. 19 l. 20.5.1970, n. 300, ha corrisposto all’intento di selezionare le organizzazioni e, in particolare, le confederazioni sulla base della loro consistenza e delle loro capacità di mobilitazione e di protezione degli interessi collettivi, al fine dell’identificazione delle rappresentanze aziendali (Rappresentanze sindacali aziendali; Rappresentanze sindacale unitarie) che potessero essere titolari dei diritti del titolo terzo della stessa l. n. 300/1970. L’art. 19 st. lav. cercava di «conciliare una scelta di efficienza rappresentativa organizzativamente qualificata con una scelta di promozione dal basso di tipo spontaneistico» (v. Grandi, M., L’attività sindacale nell’impresa, Milano, 1976, 66 ss.; sul risalto centrale dell’art. 19 st. lav. nel sistema della l. n. 300/1970, v. Treu, T., Statuto dei lavoratori, in Enc. dir., vol. XLII, 1043 ss; sulla coerenza fra l’art. 19 st. lav. e il sistema costituzionale, v. Rusciano, M., Libertà di associazione e libertà sindacale, in Riv. it. dir. lav., 1985, I, 590; Veneziani, B., Il sindacato dalla rappresentanza alla rappresentatività, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1989, 350 ss.).
L’intento dell’art. 19 st. lav. di ricomporre eccessi di conflittualità con l’attribuzione programmata di vantaggi competitivi alle strutture aziendali afferenti ai sindacati confederali maggioritari ha rispecchiato decisioni politiche, tradotte in una disposizione in larga parte imperniata sull’idea di rappresentatività, poiché, nel 1970, rappresentanze aziendali (titolari dei diritti del titolo terzo della medesima legge) potevano essere costituite a iniziativa dei lavoratori, ma nell’ambito «delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale».
Condotta con maestria, la scelta dell’art. 19 ha comportato l’assegnazione di grandi vantaggi a organizzazioni considerate più affidabili o più in linea con i principi della Costituzione materiale del 1970, con un legame stretto fra legge e strutture dei lavoratori. Perciò, a differenza del potere di rappresentanza, rimasto con una concezione privatistica e, se mai, con la tutela dell’art. 39, co. 1, Cost., il parametro selettivo della rappresentatività ha definito le organizzazioni in grado di esercitare, in ambito aziendale, gli imponenti diritti degli artt. 20 ss. della l. n. 300/1970. Non a caso, si è obbiettato, «la denuncia del deficit di democrazia è andata sempre più accentuandosi con l’espandersi a macchia di olio della formula della maggiore rappresentatività», che avrebbe «rafforzato la percezione dell’esistenza di un sistema alternativo sostenuto dalla legge, collocato interamente fuori dei modelli organizzativi e dei principi democratici proposti dalla Costituzione e retto da una scelta selettiva senza regole chiare, all’insegna della più totale discrezionalità del legislatore», tanto che si sarebbe radicata la «opinione di quella che possiamo chiamare ‘ingiustizia’ della legislazione di sostegno» (v. Bellocchi, P., Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2011, 543 ss.). L’art. 19 st. lav. ha provocato e rafforzato la vocazione statualista delle maggiori associazioni sindacali e definito il perimetro del campo di gioco e le regole della competizione fra le organizzazioni, desiderose di assicurarsi i cospicui vantaggi della titolarità dei diritti, con l’esclusione di terzi.
La vocazione selettiva dell’art. 19 st. lav. non può essere misconosciuta, se non si vuole perdere di vista il senso ultimo della l. n. 300/1970, proiettata a rafforzare lo spazio di iniziativa di alcune associazioni a scapito delle altre; la titolarità dei diritti implicava e comporta anche ora, in un diverso contesto, specifici presupposti, voluti dall’art. 19 per contrapporre il destino di differenti gruppi (v. Mancini, G.F., Commento all’art. 19, in Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, Ghezzi, G.-Mancini, G.F.-Montuschi, L.-Romagnoli, U., ed. I, Bologna-Roma, 1972, 330 ss.), poiché «la fiducia (e il premio) del legislatore va alla confederazione e non ai sindacati di categoria; ma non a una confederazione sindacale qualsiasi, bensì a quella che abbia usato della propria libertà di inquadramento organizzativo in modo responsabile, solidaristico, serio, e per questo ha accesso ex lege ai diritti sindacali» (v. Bellocchi, P., Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, cit.).
La menzione della maggiore rappresentatività nell’art. 19 l. n. 300/1970, in alternativa con la stipulazione di un contratto collettivo di natura (all’epoca) non aziendale applicato nell’unità produttiva, ha comportato un forte dibattito sulla più plausibile interpretazione della nozione, «parametro che indica l'attitudine dell’associazione a esprimere in modo adeguato l'interesse del sottostante gruppo» (v. Cass., 5.6.1981, n. 3635). Anzi, «al fine di individuare le confederazioni rappresentative sul piano nazionale», si sono ritenuti necessari «un rilevante numero di iscritti (peraltro, elemento in sé non risolutivo) e una diffusa presenza sul territorio dello Stato e nelle varie categorie produttive», con la conseguente insufficienza di una attività concentrata in poche aree merceologiche e non riferita a una componente significativa ed estesa del lavoro subordinato (v. Cass. 28.10.1981, n. 5664).
Ha acquisito una notevole incidenza la l. 18.11.1977, n. 902, sulla distribuzione del patrimonio delle disciolte strutture corporative, poiché tale disciplina «attribuisce una ‘patente’ di maggiore rappresentatività alle cinque organizzazioni indicate dall'art. 1 e tale riconoscimento legale trascende i limiti della stessa legge e incide anche ai fini dell'art. 19 della legge 20.5.1970, n. 300» (v. Cass. 21.2.1984, n. 1256). In difetto, «il giudizio sulla maggiore rappresentatività è fondato su un complesso di elementi indiziari, che prescindono dalla consistenza numerica degli iscritti; una confederazione rientra nei parametri dell’art. 19 se riunisce vari sindacati, è presente in svariati settori della vita lavorativa, sia pubblica, sia privata; ha una sua struttura articolata a livello nazionale e ha condotto molteplici trattative e stipulato alcuni accordi» (v. Cass., 18.7.1984, n. 4218), con la conseguente necessità di indagini e di una circostanziata valutazione delle forme e dei risultati dell’esercizio del potere di rappresentanza e di autotutela collettiva.
Perciò, «per riscontrare in una confederazione il carattere di maggiore rappresentatività, non è decisiva la forza numerica, ma assumono rilevanza sia l'equilibrata consistenza associativa in tutto l'arco delle categorie che la confederazione si prefigge di tutelare, sia la presenza territoriale distribuita sul piano nazionale (e non in una area geografica), sia l'attività di autotutela consistente in particolare nella sottoscrizione di contratti collettivi o nella mera adesione ad accordi stipulati da altre organizzazioni, sia, infine, come mero elemento indiziario, l'inclusione nel decreto del Ministero del lavoro sui requisiti di rappresentatività dell'art. 2 della legge 18.11.1977, n. 902» (v. Cass. 1.3.1986, n. 1320).
Vi è da chiedersi con quanta consapevolezza del corpo elettorale sulle conseguenze e sulle ragioni culturali di una scelta così impegnativa e discutibile, il referendum del 1995 ha modificato l’art. 19 st. lav., con la scomparsa del riferimento alla maggiore rappresentatività. La trasformazione del testo ha comportato il rinvio esclusivo a un criterio, cioè la stipulazione di un contratto applicato nell’unità produttiva, così che l’accreditamento sufficiente per ottenere la titolarità dei diritti presupponeva il consenso del datore di lavoro, il quale interferiva con la scelta dei soggetti che potevano godere del forte sostegno degli artt. 20 ss. st. lav., almeno fino alle ultime indicazioni della giurisprudenza costituzionale. A prescindere dall’intento personale dei promotori del referendum del giugno 1995, la stesura dell’art. 19 st. lav. suonava come il frutto di una stagione di consociativismo (v. Liebman, S., Forme di rappresentanza degli interessi organizzati e relazioni industriali in azienda, in Dir. rel. ind., 1996, 8 ss.).
L’assegnazione di una sorta di cospicuo premio per il raggiungimento dell’intesa collettiva ha turbato il sereno esercizio della rappresentanza, che avrebbe dovuto guardare non in via prioritaria, ma in modo esclusivo al vantaggio dei prestatori di opere, non degli stessi soggetti collettivi. Né i due concetti coincidono, per lo meno non sempre e di necessità. Dopo il 1995, l’art. 19 st. lav. ha dato tutela costante alle confederazioni tradizionali e consentito a esse di dispiegare in azienda il loro potere. Lungi dal fornire una soluzione del problema di coerenza costituzionale sollevato dall’art. 19 st. lav., una nota decisione della Corte costituzionale ha cercato di eluderlo, affermando che «la rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro, espresso in forma pattizia, ma è una qualità giuridica attribuita dalla legge alle associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti (nazionali, locali o aziendali) applicati nell’unità produttiva» (v. C. cost., 12.7.1996, n. 244).
La sentenza confermava la matrice eteronoma dell’istituto e aveva compreso che, soprattutto, dopo il 1995, all’art. 19 st. lav., spettava la distribuzione delle risorse per l’esercizio dei diritti sindacali in azienda. Però, per tale suddivisione una larga parte dell’iniziativa era rimessa al datore di lavoro, in specie nei confronti dei soggetti esclusi dalla conclusione dei contratti di categoria. Se, per lo più, la singola impresa li subisce e di rado riesce a condizionare i percorsi della loro stipulazione, lo stesso non si può dire per le intese aziendali. A tale riguardo, è decisiva la volontà del datore di lavoro. Sarebbe stato strano vedere nel criterio dell’art. 19 una sorta di coronamento dell’autonomia collettiva. Se mai, l’art. 19 st. lav. introduceva una turbativa, facendo balenare poste in palio eterogenee rispetto all’oggetto delle possibili convenzioni. Del resto, «il contratto collettivo non è rilevante come negozio giuridico (infatti, può anche non regolare i diritti sindacali) produttivo di effetti negoziali, ma come momento terminale della più rilevante tra le attività di rappresentanza» (v. Garofalo, M.G., Rappresentanze aziendali e referendum. Opinione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1995, 665 ss.).
Né il tema della maggiore rappresentatività è stato superato dalla creazione di strutture unitarie; per la titolarità dei diritti, devono sempre sussistere i requisiti dell’art. 19 st. lav., poiché il criterio non è stato abrogato o derogato, né il contratto avrebbe potuto farlo, né si ravvisa un obbligo del datore di lavoro a riconoscere la titolarità dei diritti sindacali a soggetti diversi da quelli selezionati ai sensi dell’art. 19 (v. Cass., 7.7.2014, n. 15437, per cui «il diritto di indire assemblee rientra tra le prerogative attribuite non solo alla rappresentanza unitaria considerata in via collegiale, ma anche a ciascun componente, purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato dotato di rappresentatività»). Fanno eccezione le garanzie poste a presidio della libertà di ciascun componente della rappresentanza unitaria; con la stipulazione del relativo accordo interconfederale, tali tutele sono state estese a tutti i membri, a prescindere dall’associazione originaria, con clausole normative del negozio, efficaci in via diretta a favore di ogni dirigente sindacale.
Se l’espressione è stata eliminata nel 1995 dal testo dell’art. 19 st. lav, il concetto di maggiore rappresentatività ha avuto un largo successo in altre fonti e, in primo luogo, in tutte quelle inerenti a poteri delle associazioni sindacali, attribuiti in via esclusiva solo ad alcune, con il ricorso alla stessa selezione immaginata nel 1970 con riguardo alla costituzione di rappresentanze aziendali. Perciò, nonostante il referendum del 1995 e il suo discutibile impatto sull’art. 19 st. lav., la categoria della rappresentatività ha visto quasi inalterato il suo successo nell’ordinamento ed è rimasto uno dei perni dell’assetto delle relazioni industriali, proprio con quella vocazione di identificazione di un nucleo più ristretto di associazioni, destinatarie di forme di promozione, anche indiretta.
Nel settore privato, l’accordo del 23.7.1993 aveva previsto un collegamento fra l’impianto della rappresentanza e il sistema contrattuale, con una residua tutela della libertà. Proprio l’alternatività fra il modello voluto per legge e quello disegnato dalle intese collettive ha evitato difformità dall’art. 39, co. 1, Cost.. Si è affermato che, «in un assetto negoziale come quello protocollare, ordinato secondo principi di gerarchia e competenza, il rinvio a una rappresentatività conquistata, ex lege, in forza del libero e reciproco riconoscimento al tavolo negoziale di secondo livello non ha spazi di agibilità, mentre il privilegio per le organizzazioni stipulanti il contratto collettivo nazionale di lavoro altro non fa se non perpetuare il monopolio assoluto dei sindacati ‘storici’» (v. Campanella, P., Rappresentatività sindacale: fattispecie ed effetti, cit., 304 ss.).
A seguito del referendum del 1995, sulla scorta dell’art. 19 st. lav., rappresentanze aziendali possono essere costituite sempre a iniziativa dei lavoratori, ma «nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva». La conclusione dell’intesa è spesso diventata una sorta di premio, con la suddivisione dei benefici mediata dal soggetto passivo degli obblighi. Né la capacità di proselitismo ha portato sempre alla stipulazione; le risorse sono state minime per chi non sia stato titolare dei diritti e, per giungere all’accreditamento dell’art. 19 st. lav., non è stato facile superare possibili alleanze fra le organizzazioni maggioritarie e le imprese.
Per altro verso, se la titolarità dipende dalla conclusione del contratto (v. Natullo, G., Le rappresentanze sindacali aziendali ieri, oggi; e domani?, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 116/2011, 9 ss.) e, in particolare, di quello aziendale, ci si sarebbe potuto chiedere se vi fosse libertà, se la convergenza di vedute con il datore di lavoro era l’unica premessa per l’applicazione dell’art. 19 st.lav. La valorizzazione della libertà avrebbe dovuto comportare l’accettazione di qualunque posizione negoziale, persino delle più intransigenti, mentre l’art. 19 recava un implicito elogio della moderazione, soprattutto fino alle ultime indicazioni della giurisprudenza costituzionale. Al contrario, l’art. 39 cost. avrebbe vincolato lo Stato, se fosse stato liberale, ad astenersi da qualunque condizionamento sul merito delle impostazioni strategiche dei gruppi. Il premio insito nel raggiungimento dell’intesa era incompatibile con una piena difesa della libertà.
Era stato detto, «non è giusto che la Fiom resti priva di una presenza organizzata in azienda, non già in virtù di un modello astratto di democrazia maggioritaria, per cui se si dissente ci si deve contare (…). È sufficiente confrontare la posizione della Fiom con quella degli altri sindacati non firmatari del contratto, per rendersene conto (…). È innegabilmente diversa la posizione di chi – per le politiche rivendicative perseguite – ha difficoltà a conquistare sul campo un pieno riconoscimento negoziale; e la posizione di chi, come la Fiom, per storia, prestigio, tradizione, numero di iscritti è protagonista essenziale e strategica delle relazioni sindacali in qualsiasi impresa italiana del settore» (v. Bellocchi, P., Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, cit.).
Al fine dell’accreditamento ai sensi dell’art. 19, la rilevanza non era (e non è) riconosciuta alla stipulazione di qualunque accordo, ma solo di quelli normativi, poiché «la capacità dell'organizzazione di accreditarsi come interlocutore stabile dell'imprenditore è testimoniata dalla stipulazione di un contratto, di qualunque livello, ma non di qualsiasi natura, perché deve avere caratteristiche tali da attestare l'effettività dell'azione sindacale, rappresentando un arco di interessi più vasto di quello dei soli iscritti, e incidendo su diversi istituti che regolino i rapporti e non su meri episodi contingenti della vita dell'azienda, così che si richiedeva la conclusione di negozi normativi e non gestionali, non idonei a comprovare la rappresentatività richiesta» (v. Cass., 11.7.2008, n. 19275).
Per altro verso, era necessaria l’effettiva partecipazione alla definizione del testo convenzionale, perché, fino al 2013, il criterio legale di selezione richiedeva la dimostrazione della «capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale e la sottoscrizione di un accordo, negoziato e approvato da altri, non solo non è indicativo, ma è un indizio contrario», così che occorreva «la partecipazione attiva al processo di formazione del contratto normativo che regolasse in modo organico i rapporti individuali, almeno per un settore o istituto importante, anche in via integrativa, a livello aziendale» (v. Cass., 2.12.2005, n. 26239).
A seguito delle iniziative espletate da alcuni datori di lavoro e volte a escludere dall’esercizio dei diritti del titolo terzo della l. n. 300/1970, soggetti che, pure avendo partecipato alle trattative, non avessero concluso l’accordo, per un dissenso di fondo sulla sua impostazione, una nota pronuncia della Corte costituzionale ha considerato illegittimo l’art. 19 «laddove non prevede che la rappresentanza aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni che, sebbene non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano partecipato alla negoziazione quali rappresentanti dei lavoratori», poiché, «nell'esercizio della loro funzione di autotutela dell'interesse collettivo, che, in quanto tale, reclama la garanzia dell’art. 2 Cost., i sindacati sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività, bensì del rapporto con l'azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa» (v. C. cost., 23.7.2013, n. 231). Infatti, si è aggiunto, «l'aporia indotta dall’esclusione dal godimento dei diritti del sindacato non firmatario di alcun contratto, ma dotato dell'effettivo consenso da parte dei lavoratori, che permette e al tempo stesso rende non eludibile l'accesso alle trattative, rappresenta un vulnus alla rappresentatività sostanziale del sindacato. Infatti, il dato sostanziale non può essere eluso (né in eccesso né in difetto) da elementi formali quali, da un lato, la sola (…) sottoscrizione oppure, dall'altro, la (…) mancata sottoscrizione del contratto, da parte di un sindacato che abbia partecipato alle relative trattative, grazie alla sua rappresentatività».
Con il cambiamento di una opposta opinione espressa in precedenza (v. C. cost., 12.7.1996, n. 244), la Corte costituzionale ha negato rilevanza in assoluto alla stipulazione dell’accordo, proprio perché, sulla scorta di una simile impostazione, le scelte del datore di lavoro avrebbero una incidenza determinante al fine dell’identificazione delle associazioni che possano diventare titolari dei diritti sindacali, con una evidente lesione dell’area di libertà protetta dall’art. 2 Cost. e dall’art. 39 cost.. Per risolvere tale problema, si è attribuito un significato prevalente (e sufficiente, ai fini dell’operare dell’art. 19) alla partecipazione alle trattative, che deve essere il frutto dell’azione sindacale. Nonostante alcuni passaggi discutibili della motivazione, non si può ricavare dalla decisione alcuna conseguenza sull’identificazione di un obbligo a negoziare del datore di lavoro, estraneo al sistema, poiché, «nel nostro ordinamento, non sussiste un obbligo (…) di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni sindacali, e rientra nella sua autonomia la possibilità di concludere un nuovo contratto (…) con associazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato il precedente» (v. Cass., 10.6.2013, n. 14511).
Senza che questi principi siano stati sovvertiti dall’ultima pronuncia della Corte costituzionale, per lo meno sulla base della lettura preferibile, ai fini dell’identificazione delle associazioni nel cui ambito possano essere costituite rappresentanze aziendali non si deve avere riguardo per il semplice elemento della conclusione di un accordo applicabile nell’unità produttiva, profilo sufficiente, ma non necessario, in quanto basta una attiva presenza nel negoziato, sempre con riguardo a intese normative e incidenti in modo significativo sui rapporti individuali. La trasformazione è rilevante anche se, sul piano operativo, a circa due anni dalla sentenza, non sono emerse molte differenze, se si eccettua quella, di per sé fondamentale, del riconoscimento dei diritti sindacali ad associazioni radicate e non disponibili a concludere un accordo per ragioni ideali. Altri gruppi più piccoli sono rimasti esclusi dalla titolarità dei diritti sindacali perché non solo non hanno concluso contratti, ma non sono riusciti neppure a ottenere una fattiva partecipazione al negoziato. Da questo punto di vista, la decisione della Corte costituzionale non ha provocato allo stato una attuazione più estensiva del parametro dell’art. 19 st. lav.
Di fronte alla complessa evoluzione della nozione di rappresentatività per l’accreditamento delle associazioni sindacali, ai fini del riconoscimento della titolarità dei diritti e dei poteri, è stato meno travagliato l’evolversi delle restanti fonti eteronome, in cui, se mai, nei modelli successivi agli anni ’90, per la selezione delle associazioni, in specie in ipotesi di rinvio, si è sostituita l’idea di maggiore rappresentatività con quella di maggiore rappresentatività in chiave comparata. Si è optato per la scelta dei soggetti chiamati a esercitare il rinvio della legge in forza del criterio della maggiore rappresentatività comparata, secondo una linea di tendenza propria degli anni ’90. Sarebbe singolare se, a livello nazionale o territoriale, il riferimento alla maggiore rappresentatività comparata fosse stato in grado di sciogliere qualunque dubbio. Se così fosse stato, l’inserzione dell’aggettivo “comparata” avrebbe avuto potenzialità miracolose, mentre, all’opposto, anche tale locuzione richiede delicati sforzi ermeneutici, sui quali non si è raggiunto un consenso generale; né vi è speranza che tale risultato sia conseguito in breve.
Per esercitare i poteri conferiti dalle disposizioni di rinvio, gli organismi sindacali devono essere rappresentativi e, poi, arrivare a un livello più selettivo, dunque in chiave di paragone. Il riferimento alla maggiore rappresentatività comparata non ha sciolto le situazioni di conflitto fra le maggiori Confederazioni e non ha impedito intese separate. La nozione di “comparazione” serve a selezionare le organizzazioni sindacali alle quali la legge attribuisce determinati poteri. Quindi dalla stessa non è possibile dedurre un obbligo o un onere di unanimità. Né il concetto di rappresentatività comparata riserva il potere a chi abbia la maggioranza, se non altro perché non si dice come questa dovrebbe essere calcolata. La maggiore rappresentatività rimane un criterio di mera selezione delle organizzazioni abilitate a esercitare il potere attribuito dalla disposizione di rinvio. Le pretese dell’ordinamento ai fini della scelta si spingono a un livello più alto e la rappresentatività richiesta diventa ancora più significativa. Tuttavia, i sindacati operano in un regime di libertà e ciascuno può concludere l’accordo ed esercitare il potere, senza che vi debba essere unanimità e senza alcun vincolo maggioritario.
L. 20.5.1970, n. 300, art. 19.
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