Rashōmon
(Giappone 1950, Rashomon, bianco e nero, 88m); regia: Kurosawa Akira; produzione: Minoru Jingo per Daiei; soggetto: dai racconti Rashōmon e Yabu no naka (Nel bosco) di Akutagawa Ryūnosuke; sceneggiatura: Hashimoto Shinobu, Kurosawa Akira; fotografia: Miyagawa Kazuo; montaggio: Kurosawa Akira; scenografia: Matsuyama So; musica: Hayasaka Fumio.
Kyoto, dodicesimo secolo. Durante un violento temporale, un bonzo, un boscaiolo e un ladro trovano rifugio sotto la porta di Rashō, ormai in rovina. I tre si mettono a discutere della strana morte di un samurai, Takehiro, raccontando quel che hanno visto del fatto o ascoltato durante il processo che ha cercato di far luce sull'accaduto. La prima testimonianza è quella del bandito Tajōmaru, che afferma di aver incontrato in un bosco la bella Masago accompagnata dal marito Takehiro; colto da un irrefrenabile desiderio, l'uomo violenta la donna, poi, spinto da quest'ultima, si batte coraggiosamente a duello col samurai, ma quando ha la meglio Masago è scomparsa. La donna contraddice la versione del bandito, sostenendo che sia stato questi a esser fuggito dopo averla violentata; rimasta sola con Takehiro e incapace di reggere il suo sguardo, Masago è svenuta e al suo risveglio ha trovato davanti a sé il corpo del marito trafitto da un pugnale. Grazie all'intervento di una medium è poi lo stesso samurai defunto a prendere la parola e a smentire le precedenti versioni: è Masago che ha chiesto al bandito di ucciderlo e poi, dopo il rifiuto di questi, è scappata via; rimasto solo, Takehiro, come un vero samurai, non ha potuto fare altro che togliersi la vita. Tocca infine al boscaiolo, l'unico che nascosto dietro un albero ha assistito all'evento, dare la sua versione dei fatti e sostenere che i due uomini, spinti dalla stessa Masago, si sono battuti, ma pieni di paura e con viltà, sino al momento in cui Tajōmaru ha avuto la meglio. La discussione dei tre è interrotta dalle grida di un neonato che qualcuno ha abbandonato nel tempio. Il ladro, prima di andarsene, gli strappa le vesti. Il boscaiolo decide di prenderlo con sé e di adottarlo. Sollevato da questo gesto d'umanità, il bonzo lascia la porta di Rashō mentre il sole riappare nel cielo.
Ispirandosi a due racconti di Akutagawa, Kurosawa Akira e Hashimoto Shinobu realizzano un film in cui il tema dell'indecifrabilità del reale (determinato dall'impossibilità di risolvere un enigma) si mescola a quello dell'indulgenza di sé e delle proprie azioni ‒ dal momento che ognuno dei tre personaggi coinvolti dà, del proprio operato, una versione più che lusinghiera, che gli altri però smentiscono. Neanche la testimonianza del boscaiolo, poi, è degna di fede, poiché, come gli fa notare il ladro, egli ha taciuto il fatto di essersi impossessato del prezioso pugnale che ha trafitto il corpo di Takehiro e che non è stato più ritrovato. La differenza maggiore tra il film e l'opera di Akutagawa è, soprattutto, nel suo ottimistico finale che, attraverso l'episodio del bambino che il boscaiolo decide di adottare, conferma la fiducia del regista nella possibilità dell'uomo di riscattare le proprie colpe.
Da un punto di vista narrativo Rashōmon ritorna più volte su uno stesso episodio di cui sono offerte diverse e contrastanti versioni. Dal punto di vista spazio-temporale, il film si articola su tre livelli nettamente distinti: un presente ambientato sotto la porta di Rashō; un passato prossimo rappresentato dalle testimonianze nel cortile del tribunale; un passato più remoto che, invece, si svolge in un bosco. Ognuno di questi luoghi è caratterizzato da una diversa luce e condizione atmosferica: il cielo oscurato e il diluvio sotto la porta di Rashō, il sole quasi accecante delle scene di testimonianza, la penombra del bosco in cui accade l'omicidio. Tutto il film è in realtà pervaso da questa dialettica di luci e ombre che rinvia a quella di bene e male, realtà e menzogna, ragione e passione. Il gesto finale del boscaiolo che decide di tenere con sé il bambino è, ad esempio, accompagnato dal ritorno del sole; la violenta luce sul cortile del tribunale è lì a indicare il tentativo di fare chiarezza su un fatto oscuro; l'iniziale penetrare del taglialegna in un bosco sempre più buio segnala l'approssimarsi a un luogo dove è accaduto un fatto che nessuno riuscirà a spiegare; l'agitarsi delle ombre delle foglie sui volti di Tajōmaru, quando vede per la prima volta la donna, e di Takehiro, quando medita sul proprio suicidio, rappresenta, su un piano iconico, le esitazioni dei due personaggi di fronte a scelte difficili e importanti. Di grande intensità espressiva anche l'uso congiunto di montaggio e profondità di campo che, come ad esempio accade nei momenti che precedono lo stupro nella versione di Tajōmaru, dà vita a dei veri e propri conflitti grafici tra un'inquadratura e l'altra, capaci di rendere ancora più tesa la situazione e di dimostrare come Kurosawa abbia bene appreso la lezione ejzenštejniana. Frequenti anche i movimenti di macchina che, nella loro circolarità (ripresa sul piano sonoro dall'insistito ricorso al Bolero di Maurice Ravel), si configurano come un modello visivo che rinvia alla circolarità stessa della narrazione, al suo ritornare più volte sugli stessi eventi e al suo aprirsi e chiudersi sotto la porta di Rashō. Importante anche il lavoro con e sugli attori, la cui recitazione alterna momenti di stasi assoluta a improvvise esplosioni dinamiche, dai marcati toni espressionistici. Scelto nel 1951, contro il parere dei suoi produttori che lo consideravano poco adatto al pubblico occidentale, a rappresentare il Giappone alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, il film vinse inaspettatamente il Leone d'oro e poi, l'anno successivo, il premio Oscar quale miglior film straniero.
Interpreti e personaggi: Mifune Toshirō (Tajōmaru, il bandito), Mori Masayuki (Takehiro, il samurai), Kyo Machiko (Masago, sua moglie), Shimura Takashi (il boscaiolo), Chiaki Minoru (il bonzo), Ueda Kichijirō (il ladro), Katō Daisuke (agente di polizia), Homma Fumiko (maga).
P. Jacchia, Dramma e lezione dei vinti in 'Rashomon' e 'Der Verlorene', in "Bianco e nero", n. 10, ottobre 1951.
C. Harrington, 'Rashomon' et le cinéma japonais, in "Cahiers du cinéma", n. 12, mai 1952.
G. Sadoul, Existe-t-il un néoréalisme japonais?, in "Cahiers du cinéma", n. 28, novembre 1953.
Focus on 'Rashomon', a cura di D. Richie, Englewood Cliffs (NJ) 1972.
K.I. McDonald, Light and darkness in 'Rashomon', in "Literature/Film quarterly", n. 2, 1982.
D. Boyd, 'Rashomon' from Akutagawa to Kurosawa, in "Literature/Film quarterly", n. 3, 1987.
B. Amengual, Rashomon ou la porte du demon de… l'Histoire, in "Études cinématographiques", n. 165-169, 1990.
"Positif", n. 461-462, juillet-aôut 1999, in partic. L.J. Lestocart, 'Rashômon'. Chemins qui ne mènent nulle part, S. Rollet, Kurosawa et Dostoïevski. Un dialogue souterrain. Sceneggiatura: Rashômon, a cura di D. Richie, New Brunswick 1987.