RAZIONALISMO
. Questo termine filosofico entra nell'uso nel sec. XVII, nell'ambiente del deismo inglese, per significare la tendenza del deismo stesso ad accogliere le verità religiose non in quanto rivelate dall'alto ma solo in quanto giustificate dalla ragione. Tale significato ha sempre conservato al termine l'apologetica cattolica, condannando con esso ogni forma di pensiero che trattando delle verità della fede non subordini pienamente la sua critica a quei principî dogmatici, che sono all'uomo comunicati dalla tradizione ecclesiastica, e quindi dalla rivelazione, appunto in quanto soverchiano la sua facoltà raziocinante, pur senza contrastare ad essa. La dottrina ortodossa del cattolicesimo non proclama d'altronde la necessità dell'"irrazionalismo" o "superrazionalismo" (e cioè della tesi che le verità siano affatto incontrollabili dalla ragione dell'uomo, il quale devé accoglierle per fede pur non intendendole), e perciò sostiene piuttosto quella forma di "semirazionalismo" che si esprime nel principio tomistico e pretomistico della philosophia ancilla theologiae, e cioè nell'idea che le supreme verità di fede non contraddicano alla ragione, ma possano esser dimostrate, cioè difese, da essa soltanto negativamente (cioè mediante la prova della falsità delle tesi opposte), la loro asserzione positiva restando di competenza della rivelazione. Ciò non toglie che nella stessa tradizione cattolica si affermino tendenze schiettamente irrazionalistiche, come alcune tra quelle del misticismo e del volontarismo. Agli occhi del primo, anche il semirazionalismo della philosophia ancilla theologiae appare eccessivamente razionalistico, perché già concepire le confutazioni logiche come capaci d'introdurre, sia pure negativamente, alla conoscenza di Dio è presumere troppo della ragione umana, che può essere illuminata soltanto dall'estasi mistica. Agli occhi del secondo, il carattere più gravemente razionalistico della teologia non consiste nel voler intervenire con argomenti della ragione nella difesa delle verità di fede, ma nella stessa concezione della natura divina come tale che la sua ragione, perfettamente costituita e quindi eternamente immutabile, predetermini la sua volontà e quindi annulli la sua onnipotenza. Per sfuggire a tale razionalismo, il volontarismo teologico (Duns Scoto, Guglielmo di Occam) tende quindi a considerare ogni ordine razionale della verità e del mondo come determinato, momento per momento, dalla libera volontà di Dio, e perciò come non teorizzabile a priori.
Nel campo non teologico, il termine di razionalismo designa in generale ogni forma di speculazione filosofica che consideri la riflessione autonoma della ragione come principio essenziale, o addirittura esclusivo, per la conquista della verità. Esso si contrappone quindi, in generale, a qualsiasi forma di sensismo o empirismo, deducente ogni contenuto conoscitivo e quindi ogni verità dall'esperienza sensibile e dalle associazioni e schematizzazioni che i suoi dati subiscono nell'intelligenza; e contro ad essa sostiene l'esistenza di principî o forme razionali, che l'intelletto, mercé un'interiore riflessione, scopre o come uniche verità di fronte a cui tutto il mondo della conoscenza sensibile si svela quale illusoria apparenza, o come superiori verità integranti quelle del senso, o come condizione a priori che l'intelletto stesso impone ai dati sensibili perché essi possano entrare a far parte dell'esperienza, o, infine, come metodi conoscitivi capaci di superare le contraddizioni della conoscenza empirica elevandola a un grado teoretico superiore. Attraverso la storia del pensiero, tali forme di razionalismo si manifestano in una ricca gamma di variazioni particolari: e solo come esempî tipici di quelle quattro forme caratteristiche possono qui esser citati il razionalismo eleatico, quello platonico-aristotelico, quello kantiano e quello idealistico-dialettico. Il primo respinge infatti come illusoria ed erronea ogni attestazione dei sensi, di fronte a quella verità della ragione che asserendo l'unità dell'ente le contraddice senza rimedio. Il secondo considera la verità della ragione non come negazione ed esclusione immediata di quella del senso, ma come sua superiore integrazione e giustificazione, in quanto aggiunge alla conoscenza sensibile del reale la conoscenza intelligibile dell'ideale. Il terzo scorge nell'a priori razionale (prescindendo qui dalla differenza che in esso distingue la ragione dall'intelletto, propriamente autore di quell'a priori, giacché nell'accezione più generale del termine di razionalismo è compreso anche l'intellettualismo kantiano) la forma categorica dell'a posteriori empirico, e considera quindi la concreta esperienza come unificante in sé le opposte verità del puro razionalismo e del puro empirismo. Il quarto, infine, vede nella conoscenza razionale della dialettica il mezzo di approfondire la verità di tutte le particolari conoscenze empiriche, risolvendo in armonica unità ogni loro contraddizione.