Razionalità pratica tra senso comune cultura e natura
Nella tradizione filosofica si parla da lungo tempo di razionalità ‘teoretica’ e razionalità ‘pratica’. Teoretica (o cognitiva) è la razionalità che si suppone operi nella formazione della conoscenza intesa come credenza vera e giustificata, comprendendo in questa anche quella deduttiva basata su principi e regole inferenziali di tipo logico; pratica, invece, è la razionalità che governa i comportamenti e le azioni compiuti per soddisfare nel modo più efficace (ottimale) gli scopi o i desideri di un agente. Nel corso di questo saggio si discuterà esclusivamente di quest’ultimo tipo di razionalità, più noto forse come razionalità strumentale, e si cercherà di mettere in evidenza il passaggio da una concezione normativista a una descrittivista che, a partire dall’inizio del 21° sec., caratterizza ampiamente il dibattito filosofico sulla razionalità, soprattutto in seguito a certi noti risultati sperimentali psicologico-cognitivisti. In tale prospettiva, oltre ad alcune influenti riflessioni filosofiche sulla concezione critico-deliberativa della razionalità – risalente almeno ad Aristotele, sistematizzata dalla teoria matematica della decisione e discussa per decenni nella teoria analitica dell’azione –, verranno prese in considerazione alcune concezioni influenzate dalla teoria dell’evoluzione biologica e dai conseguenti orientamenti naturalistici relativamente all’attività pratica e cognitiva umana.
Normativo-descrittivo
Il concetto di razionalità pratica risale quanto meno ad Aristotele, che originariamente teorizzò gli aspetti logici del ragionamento mezzi-fini e dell’attività di deliberazione. Secondo la definizione aristotelica, ancor oggi alla base del nostro concetto di azione razionale, questa è un mezzo per conseguire uno scopo o per soddisfare un desiderio, e il ragionamento che conduce all’azione sarebbe rappresentabile mediante un «sillogismo pratico», qualcosa del tipo: «è necessario (desiderabile, opportuno) che io ottenga x; fare y è un mezzo per ottenere x; quindi farò (immediatamente) y , a meno che non vi sia qualche impedimento» (Etica Nicomachea, VII, 5, 1147a, 25-30). La meccanicità del sillogismo pratico – la cui conclusione è un’azione invece che una proposizione come nel sillogismo dimostrativo –, per quanto evidenzi la relazione teleologica (mezzi-fini) tra comportamento o azione da un lato e oggetto del desiderio dall’altro, non appare tuttavia rappresentare nel modo più adeguato quella che, tipicamente, sembra la caratteristica del comportamento umano rispetto, per es., a quello animale. Aristotele doveva essere consapevole di ciò se nel De motu animalium (701a, 33-37) individuava una forma primitiva di sillogismo pratico anche nel comportamento animale, la cui «causa finale» sarebbe il desiderio. Caratteristico dell’uomo sarebbe invece il processo deliberativo che conduce all’azione. Se è vero che, nel tentativo di trovare un modello unificato che potesse accomunare ragione teoretica e ragione pratica, Aristotele indicava nel sillogismo pratico un possibile modo di ricostruire il ragionamento mezzi-fini, è anche vero che Aristotele si soffermava sulla deliberazione in quanto valutazione dei mezzi (cioè le azioni) più adeguati per conseguire un certo fine: dato che si delibera «non sui fini, ma sui mezzi per raggiungere i fini», Aristotele osservava che «posto il fine, esaminiamo il come, ovvero con quali mezzi sarà realizzato. E se risulta che può ottenersi con più mezzi, esaminiamo con quale si ottiene nel modo più facile e migliore» (Etica Nicomachea, III, 5, 1112b, 12-18). Il principio che si delibera sui mezzi e non sui fini e quello che vede nella deliberazione un processo di selezione del mezzo migliore per raggiungere il fine (una strategia ottimizzante) sono ancor oggi alla base della nostra concezione della razionalità strumentale, e forse Aristotele ha fornito una fondazione difficilmente revocabile a tale concezione.
La domanda che ci si può porre è se il modello deliberativo della razionalità strumentale sia un modello descrittivo o un modello normativo, secondo il modo consueto di intendere questa coppia di termini, cioè se quel modello rappresenta il modo in cui di fatto gli esseri umani pervengono alle decisioni e alle azioni o se non sia piuttosto una rappresentazione di come dovrebbero pervenire alle decisioni e alle azioni. Forse Aristotele intendeva il modello deliberativo in senso descrittivo. Ma la più potente elaborazione del modello deliberativo, risalente agli anni Quaranta-Cinquanta del 20° sec., è, com’è noto, la teoria matematica della decisione, una teoria che, per quanto soggetta a numerose modifiche e obiezioni, è stata solitamente concepita in termini di normatività. L’assunto fondamentale su cui essa si basa è, a grandi linee, di tipo aristotelico (ma con rilevanti integrazioni): secondo la teoria un agente idealmente razionale dovrebbe passare in rassegna tutte le opzioni (o corsi di azione) per lui disponibili in modo da scegliere quella che soddisfa in modo ottimale i propri scopi o desideri, massimizzando i benefici o vantaggi (gli esiti desiderati) e minimizzando gli svantaggi (gli esiti indesiderati). La subordinazione della teoria a competenze non comuni relativamente all’assegnazione di indici di probabilità (grado di credenza) e di valori quantitativi di utilità (grado di desiderabilità, ordinamento di preferenze) a ciascun esito di ciascuna opzione disponibile, al soddisfacimento dell’assioma di transitività circa le preferenze tra gli esiti finali e alla necessità di raccogliere informazioni sufficienti (idealmente complete) sugli ‘stati di natura’ che li influenzano ne hanno fatto un bersaglio da parte degli orientamenti descrittivisti – primo fra tutti quello di Herbert A. Simon e della sua teoria della razionalità limitata (bounded rationality) basata non su criteri di ottimizzazione ma sulla nozione di comportamento satisficing – volti a individuare i meccanismi cognitivi e decisionali effettivamente operanti negli esseri umani (per un’ottima rassegna, v. Rumiati, Bonini 2001). Il programma di ricerca noto come heuristics and biases, nato in qualche modo come estensione dell’approccio di Simon alla razionalità e i cui maggiori rappresentanti sono stati Daniel Kahneman e Amos Tversky (Judgment under uncertainty. Heuristics and biases, ed. D. Kahneman, P. Slovic, A. Tversky, 1982), avrebbe poi messo in evidenza, con risultati di laboratorio, come quei meccanismi cognitivi e decisionali siano spesso basati su strategie euristiche che se da un lato operano delle utili semplificazioni nella formazione dei giudizi e nell’acquisizione dell’informazione, dall’altro inducono i soggetti in errori sistematici (biases) che sono stati spesso considerati sintomi di irrazionalità. Le ricerche di Kahneman e Tversky hanno d’altra parte dato origine a una notevole serie di studi e commenti, anche in ambito filosofico, che hanno avuto l’esito di mostrare l’infondatezza di certe ottimistiche assunzioni filosofico-psicologiche sulla razionalità umana, fra cui quelle riguardanti le competenze di tipo probabilistico e la transitività delle preferenze.
Una prima osservazione che può essere fatta al proposito è che, se si individua nelle euristiche il prototipo del ragionamento e delle decisioni umani ma si pongono criteri troppo elevati per una definizione di razionalità – criteri inevitabilmente di tipo normativo, come quelli della logica proposizionale o della teoria della decisione –, è abbastanza agevole poi dimostrare come quei criteri non siano generalmente soddisfatti dagli effettivi meccanismi psicologici del ragionamento e della presa di decisione (decision making) che orientano il comportamento umano (per una critica di questo tipo all’heuristics and biases program, basata sulla nozione di razionalità ecologica, v. Gigerenzer 2008). Un commento ancor più severo potrebbe mettere in discussione addirittura il tipo di esperimenti su cui sono basate le conclusioni circa l’irrazionalità umana. È quanto fa, per es., Donald Davidson, probabilmente il filosofo analitico più influente dell’ultimo ventennio del 20° sec., che aveva insistito soprattutto sulla razionalità come prerequisito tipico e ineludibile – di tipo quasi trascendentale – per la genesi e la comprensione del comportamento umano, sia pratico sia linguistico. In uno dei suoi ultimi lavori (2001), dove prendeva implicitamente posizione sui temi e gli orientamenti di ricerca (in pratica il programma psicologico-cognitivo heuristics and biases) che indubbiamente hanno la conseguenza di mettere radicalmente in dubbio un concetto di razionalità pratica basato sulla decision theory, Davidson osservava: «Credenze e desideri concorrono nel causare, razionalizzare e spiegare le azioni intenzionali. Agiamo intenzionalmente per delle ragioni, e le nostre ragioni includono sempre sia valori sia credenze. Non agiremmo a meno che non vi fosse qualche valore o scopo che speriamo di conseguire (o qualche supposto danno che speriamo di evitare) e non credessimo che il nostro corso d’azione sia un modo di realizzare i nostri obiettivi. La teoria della decisione costituisce un modo di sistematizzare le relazioni tra credenze, desideri e azioni. Essa riesce in questo imponendo un modello complesso, ma chiaramente definito, sul modo in cui le credenze e i desideri interagiscono. La teoria della decisione viene spesso derisa in quanto considerata una falsa descrizione di come le persone agiscono realmente; una grande ingegnosità è stata profusa nei tentativi di ingannare soggetti inducendoli a compiere scelte che secondo la teoria sono incoerenti […]. Eppure la teoria risponde alle nostre intuizioni sul modo in cui vengono prese le decisioni reali; di fatto essa non fa altro che esplicitare in dettaglio il nostro apparato di senso comune per spiegare l’azione intenzionale. Tutti noi, che se ne sia consapevoli o meno, prendiamo le nostre decisioni in base al modo in cui soppesiamo i valori dei vari possibili risultati delle nostre azioni e in base a quanto riteniamo probabile che un corso d’azione o un altro sia in grado di farci conseguire quei valori. Comprendiamo perché qualcuno agisce come agisce soltanto supponendo che valuti in vario grado i possibili risultati dell’azione e quanto probabile ritenga che una certa azione ottenga un risultato o un altro. Così […] la teoria della decisione corrisponde alle nostre intuizioni su come le reali decisioni vengono prese, ed è parte del nostro apparato di senso comune per spiegare il comportamento intenzionale» (Davidson 2001, pp. 125-6; corsivi aggiunti).
Nella parte polemica della sua osservazione Davidson metteva in evidenza innanzitutto la discutibilità di alcuni risultati empirici: com’è noto, le risposte dei soggetti spesso dipendono anche dal modo in cui certi problemi cognitivi o decisionali vengono posti, ed è abbastanza riconosciuto, inoltre, che le presupposizioni del ricercatore possono influenzare l’interpretazione dei dati empirici. Se un soggetto mostra di violare l’assioma della transitività delle preferenze, ciò non vuol dire necessariamente che è irrazionale, così come chi sbaglia una deduzione per modus ponens non necessariamente è un soggetto prelogico o alogico. Esistono indubbiamente dei limiti cognitivi umani, di memoria, attenzione e capacità di calcolo innanzitutto (come aveva rilevato Simon), ma tali limiti difficilmente potranno essere considerati una prova schiacciante a favore dell’irrazionalità umana. Quanto alla parte costruttiva dell’osservazione davidsoniana, va notato innanzitutto che essa si basa fondamentalmente sulle nostre intuizioni riguardo alla genesi e alla spiegazione dell’azione, e sarebbe su tali intuizioni che si erigerebbero a loro volta gli elaborati principi della decision theory. Nulla lascia supporre, nella tesi di Davidson, che la reale attività di decision making sia un sofisticato procedimento (di tipo forse bayesiano) che conduce a compiere le azioni in modo razionalmente ottimale e perfettamente conforme ai principi della teoria; piuttosto, quel che da essa si evince è semplicemente che la teoria della decisione è una sistematizzazione delle nostre intuizioni – del nostro apparato di senso comune – riguardo all’agire, intuizioni che presumibilmente corrispondono a qualcosa di simile alla razionalità limitata di Simon. L’obiezione che Davidson attribuisca un indebito valore descrittivo a certi principi solo normativi (spesso avanzata nei confronti delle sue teorie sull’azione e sul ragionamento pratico) appare così quanto meno discutibile. È forse vero che Davidson ha in qualche modo cercato di attribuire uno status descrittivo a certi principi normativi di razionalità: basti ricordare, al proposito, che uno dei suoi primi lavori (D. Davidson, P. Suppes, S. Siegel, Decision making. An experimental approach, 1957; rist. 1977) era il resoconto di una ricerca psicologico-empirica volta a verificare, in condizioni sperimentalmente controllate, l’assunto principale del modello della decisione in situazioni di rischio, ossia che le scelte tra le alternative che implicano rischio vengono compiute in modo da massimizzare l’utilità attesa. L’idea alla base della ricerca era di verificare il potere descrittivo della teoria della decisione dimostrando empiricamente che «in molte situazioni le persone agiscono in accordo con canoni di razionalità (forse in modo non esplicito e inconsapevole), esattamente come le persone ignare di logica formale ragionano molto spesso in accordo con i canoni della logica» (p. 4). Ma probabilmente è solo in parte vero che Davidson abbia attribuito un valore descrittivo a certi principi normativi: dalle sue più recenti affermazioni si ricava infatti l’impressione che sarebbero piuttosto i principi normativi della teoria della decisione a essere desunti dal piano descrittivo, ossia dalle nostre «intuizioni» sulla decisione e l’azione: la teoria della decisione rappresenta soltanto un’elaborazione, un’idealizzazione e una sistematizzazione delle nostre intuizioni comuni – quelle stesse intuizioni, si potrebbe aggiungere, che sono alla base della fondazione aristotelica della razionalità critico-deliberativa.
Obiezioni filosofiche al modello desiderio-credenza di razionalità pratica
Se Davidson, agli inizi del nuovo secolo, riafferma una concezione relativamente ‘forte’ (anche se di tipo descrittivo) della razionalità umana, andando in controtendenza rispetto agli orientamenti psicologico-cognitivi dominanti nell’ultimo ventennio del 20° sec., un altro influente filosofo analitico, John R. Searle, ha per converso ampiamente ridimensionato, sempre con intenti descrittivisti, quello che definisce il «modello classico» della razionalità pratica (Searle 2001), ossia esattamente il modello di razionalità strumentale difeso da Davidson e che, osserva Searle, risale al concetto di deliberazione di Aristotele e alla celebre tesi di David Hume che la ragione «è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse» (D. Hume, A treatise of human nature, 1739-40; trad. it. 1975, 2° vol., p. 436).
Il concetto aristotelico di deliberazione – per il quale si delibera sui mezzi, non sui fini – e la ‘cinica’ tesi di Hume sarebbero inoltre per Searle alla base della contemporanea teoria matematica della decisione, che li avrebbe ereditati ed elaborati insieme ad alcune assunzioni nelle quali Searle ravvisa i limiti del ‘modello classico’. Tra queste assunzioni possiamo limitarci qui a ricordare le più rilevanti notate da Searle: a) la natura causale del rapporto tra desideri e credenze (ragioni) da un lato e decisione o azione dall’altro; b) la riduzione della razionalità pratica a pura razionalità strumentale (cioè al ragionamento mezzi-fini), dove gli scopi o i desideri sarebbero gli unici ed esclusivi punti di partenza dell’azione razionale, non soggetti essi stessi a deliberazione; c) la conseguente esclusione di ragioni per l’azione indipendenti dai desideri. Non tutte le assunzioni che Searle attribuisce al modello classico sono state sostenute esplicitamente da qualche autore o hanno caratterizzato un orientamento ben definito: l’assunzione (a) è esclusivamente filosofica: essa era stata sostenuta da Hume e John Stuart Mill e, nel 20° sec., è stata ripresa da Davidson, ricevendo un ampio consenso nella filosofia analitica dell’azione e della mente; l’assunzione (b) è ovviamente presente in Aristotele e in Hume, ma anche in Max Weber, H.A. Simon e Bertrand Russell, e costituisce inoltre il principio teorico fondamentale su cui si erige la decision theory; (c) è un’omissione più che un’autentica tesi, e con essa Searle intende segnalare l’esigenza di riconoscere un tipo di razionalità pratica non riducibile a quella strumentale mezzi-fini.
Riguardo alla tesi (a), Searle sembra, per la verità, operarne una semplificazione difficilmente sostenibile. Nella letteratura filosofica di fine Novecento, in particolare analitica e postdavidsoniana, aveva assunto (e ha tuttora) un ruolo privilegiato il cosiddetto modello desiderio-credenza (desire-belief model) come modello sia eziologico sia esplicativo dell’azione razionale: nella versione eziologica del modello (formulabile sia in prima che in terza persona), un agente A compie una certa azione y in quanto desidera un certo risultato x e crede che y sia un modo per conseguirlo, e la coppia desiderio-credenza è concepita come ragione, ma anche come causa, dell’azione; la versione esplicativa (ossia post actum) del modello è stata ritenuta come quella solitamente utilizzata nella cosiddetta psicologia del senso comune (folk psychology) per spiegare causalmente (di solito in terza persona) le azioni, secondo lo schema: A ha fatto y perché desiderava x e credeva che y fosse il modo migliore per ottenere x. È evidente che in entrambi i casi il modello desiderio-credenza costituisce una plausibile versione causale del ragionamento mezzi-fini e si può agevolmente comprendere che l’ampio consenso da esso ricevuto sia dovuto alla sua capacità di ricondurre a un ambito causale quella che può sembrare una relazione teleologica. Secondo Searle, che presta attenzione esclusivamente alla versione eziologica del modello attribuendole tuttavia caratteristiche della versione esplicativa, il desire-belief model sarebbe del tutto inadeguato, e anzi fuorviante, in quanto più adatto a caratterizzare le azioni non razionali che quelle razionali («in generale, soltanto le azioni irrazionali e non razionali sono causate da credenze e desideri»: Searle 2001, p. 12). Desideri e credenze, osserva al proposito Searle, non sono di solito causalmente sufficienti a determinare le azioni, salvo nei casi in cui l’agente sia vittima di un’ossessione o di una dipendenza: è questo il caso, per esempio, del tossicodipendente che assume in modo compulsivo eroina perché desidera eroina e crede che ciò che ha davanti sia eroina; difficilmente considereremmo razionale quest’azione causalmente determinata in modo sufficiente da desideri e credenze pertinenti (p. 13). L’azione razionale, viceversa, presuppone che gli stati intenzionali del desiderio e della credenza non siano sufficienti a causare un’azione e che vi sia un vuoto (gap) tra le cause dell’azione (desideri e credenze) e il loro effetto; tale vuoto è normalmente occupato dal «processo di deliberazione» che conduce a prendere una decisione e quindi all’azione, ed è nel processo di deliberazione che consiste essenzialmente la razionalità (p. 13). Benché apparentemente condivisibile, l’osservazione di Searle (il cui controesempio non è forse ben scelto) si applica tuttavia a una versione alquanto semplificata del desire-belief model, difficilmente rinvenibile nella letteratura corrente sull’azione e la razionalità: il modello desiderio-credenza, infatti, non è in alcun modo concepito in alternativa al processo di deliberazione. Se sul piano esplicativo (post actum) con esso ci si limita di solito (ma non necessariamente) a citare il desiderio e la credenza pertinenti che spiegano una certa azione, trascurando altri desideri e altre credenze che l’agente può aver passato in rassegna, su quello eziologico desideri e credenze costituiscono condizioni necessarie ma certamente non sufficienti per l’azione. Come era stato ampiamente riconosciuto da Davidson già nei primi anni Sessanta nel celebre Actions, reasons, and causes (1963), consideriamo desideri e credenze cause di azioni soltanto retrospettivamente (ex post facto), cioè a deliberazione e ad azione già compiute e per scopi esplicativi; dal punto di vista eziologico, ossia prima che un’azione venga compiuta, un agente razionale, per quanto possa essere provvisto di desideri e credenze (ragioni) pertinenti da cui può originarsi un’azione, si troverà di solito, e proprio in dipendenza di quei desideri e quelle credenze, dinanzi a ulteriori desideri e credenze che possono entrare in conflitto con quelli originari, e ciò a causa della natura del ragionamento pratico (il processo deliberativo) che prende l’avvio da essi e che – in modo relativamente non dissimile da una matrice di decisione – soppesa le possibili conseguenze delle opzioni (corsi d’azione) disponibili al fine di selezionare quella che appare la migliore (in altri termini, un agente può credere che una certa azione y condurrebbe a un obiettivo x ma anche che possa presentare conseguenze collaterali che non desidera o che desidera evitare). Ne consegue che desideri e credenze non sono cause sufficienti per l’azione razionale, altrimenti il modello non sarebbe che una versione causale del sillogismo pratico aristotelico, condividendone i limiti (può essere ricordato che Davidson aveva esplicitamente contrapposto il desire-belief model al sillogismo pratico).
Maggiore rilevanza sembra presentare l’obiezione che Searle rivolge al modello classico della razionalità pratica relativamente al suo basare l’agire razionale su motivazioni o ragioni esclusivamente ‘interne’ (desideri), non contemplando la possibilità di ragioni per le azioni indipendenti dai desideri (tesi b e c). Il mancato riconoscimento di tali ragioni esterne costituisce per Searle forse il punto più debole della concezione classica della razionalità pratica. Correttamente, Searle nota innanzitutto che il concetto di desiderio coinvolto nelle concezioni tradizionali è inteso in senso piuttosto ampio, in modo da includervi obblighi, valori morali, scopi privati o pubblici e convenzioni sociali, in breve tutto ciò che può fungere da spinta motivazionale per l’azione (questa inclusione era stata per esempio esplicitamente teorizzata da Davidson, che utilizzava il termine pro attitude, «atteggiamento a favore», benché riconoscesse anche che la spinta motivazionale sia riducibile a un desiderio in senso ampio). Tale prospettiva ‘individualistica’ (ovviamente in senso epistemico o metodologico, non politico) escluderebbe tutta una serie di ragioni ‘esterne’ per le quali non sembrerebbe necessario ipotizzare alcuna ‘internalizzazione’ psicologica e, soprattutto, alcuna relazione causale. La tesi sostenuta da Searle (un ampliamento della teoria dei cosiddetti atti linguistici e della teoria dell’intenzionalità dello stesso Searle) si basa essenzialmente sulla caratteristica temporalità del comportamento umano (in questo differente da quello degli animali non umani): un’azione compiuta ora (motivata da desideri e credenze pertinenti) può creare certi presupposti o vincoli per azioni successive che sono del tutto indipendenti dal desiderio di volerle compiere, per quanto possano essere motivate dal desiderio primario di cui sono conseguenze (Searle 2001, cap. VI). Sarebbe questo il caso di un agente che decidesse, per esempio, di cambiare casa e acquistarne una nuova: un’azione di questo tipo sarebbe senz’altro motivata da un insieme di desideri (disporre di maggiore spazio, abitare in un luogo più vicino a quello di lavoro ecc.) e di credenze (per es., che una certa abitazione possegga i requisiti desiderati), ma difficilmente le azioni ulteriori implicate dalla decisione di comprare una nuova casa – firmare un contratto, pagare un anticipo, accendere un mutuo presso una banca ecc. – sarebbero in relazione a certi desideri: esse costituirebbero degli impegni successivi derivanti dal (o impliciti nel) desiderio primario di cambiare casa. Obblighi, promesse e doveri in genere costituirebbero per Searle degli impegni e sarebbero dei motivatori di azioni che fungono da ragioni indipendenti dai desideri – ossia motivatori di tipo deontico che un agente sceglie liberamente e intenzionalmente di compiere in quanto membro di una comunità in cui vigono determinate istituzioni e norme. D’altra parte, può essere notato come sia lo stesso Searle a riconoscere che anche le azioni razionali di tipo deontico non siano, in fondo, del tutto indipendenti dagli stati conativi (ossia dai desideri) dell’agente allorché, ricapitolando conclusivamente il suo argomento, osserva: «una volta che sia stata creata una valida ragione per l’azione indipendente dai desideri, quella ragione può motivare un desiderio di compiere l’azione, esattamente come il riconoscimento di qualsiasi altra ragione può motivare un desiderio di compiere l’azione. Riconoscere una valida ragione per fare qualcosa è già riconoscere una valida ragione per volerla fare» (Searle 2001, p. 213). L’unica differenza con il desire-belief model sembra qui consistere nel fatto che il rapporto tra ragioni deontiche (o istituzionali) e desideri appare rovesciato: sarebbe la ragione a motivare il desiderio di agire, non il desiderio a fornire una ragione per agire.
Quale che sia la giusta interpretazione, resta il fatto che Searle attribuisce un così grande rilievo alla tesi dell’esistenza di ragioni indipendenti dai desideri da basare su di essa il ridimensionamento della razionalità mezzi-fini. Le ragioni deontiche, infatti, sarebbero tipiche del comportamento umano, mentre gli animali non umani manifestano solo comportamenti guidati dalla relazione mezzi-fini. Al proposito Searle utilizza, quale esempio paradigmatico di che cosa non è la razionalità, un celebre esperimento di Wolfgang Köhler volto a sondare le capacità cognitive degli scimpanzé. Nell’esperimento di Köhler uno scimpanzé riusciva a procurarsi delle banane poste a un’altezza irraggiungibile procurandosi e utilizzando un bastone esterno alla gabbia in cui era rinchiuso e salendo su una cassa a sua disposizione nella gabbia.
Tra le varie interpretazioni dell’esperimento c’è ovviamente quella che attribuisce all’animale la capacità di ‘ragionare’ secondo lo schema mezzi-fini, selezionando il mezzo migliore per conseguire lo scopo. Se il modello adeguato di razionalità pratica fosse essenzialmente qualcosa del genere, osserva Searle, esso non riuscirebbe a catturare tutte le caratteristiche della razionalità pratica umana: questa, oltre a essere caratterizzata da decisioni e azioni che si estendono nel tempo (cosa che sarebbe preclusa agli animali), è per Searle soprattutto la capacità di agire in base a ragioni non dipendenti da desideri (Searle 2001, pp. 1-2). La razionalità umana non può essere considerata una estensione della razionalità strumentale dello scimpanzé, come erroneamente si è ritenuto nel ‘modello classico’(p. 32).
Cosa dimostra esattamente la tesi di Searle? Essa, forse, dimostra soltanto che la teoria causale dell’azione basata sul desire-belief model non copre tutti i casi di razionalità pratica, che sembrerebbe costituire una categoria più ampia delle azioni strumentali causate da desideri e credenze. Ciò nondimeno, può essere ancora sostenuto che le azioni razionali, per quanto possano essere indipendenti dai desideri e mediate da norme istituzionali e deontiche, siano comunque mezzi per il conseguimento di scopi: anche assolvere a un obbligo o a un impegno è un mezzo per conseguire uno scopo, come dare del danaro a qualcuno per pagare un bene, estinguere un debito ecc. Scopi istituzionali di questo tipo, inoltre, possono anche essere concepiti in modo strettamente individualistico, per es. nei termini da un lato del desiderio di evitare le eventuali conseguenze negative (di ordine sociale o penale) che potrebbero derivare dal mancato assolvimento dell’impegno deontico, dall’altro della credenza che assolvere a certi impegni sia un ottimo modo per evitare quelle conseguenze (il che naturalmente non vuol dire che un’azione istituzionale non possa essere compiuta perché si desidera semplicemente rispettare le norme). In ultima analisi, appare difficile comprendere come gli ‘impegni’ dettati dalle norme e dalle istituzioni possano fungere da motivatori di azioni se non attraverso una loro ‘internalizzazione’ mediante l’attivazione di pertinenti stati conativi o pro attitudes.
Razionalità strumentale ed evoluzione biologica
Oltre che con le acute analisi di Davidson e le obiezioni al ‘modello classico’ di razionalità di Searle (che ripropone in larga misura l’approccio ‘societario’ e culturalistico wittgensteiniano delle «forme di vita»), il nuovo secolo si apre anche con una riscoperta dei progetti di naturalizzazione della razionalità, sia in senso teoretico-cognitivo sia in senso pratico, progetti anch’essi con intenti di natura descrittiva. Segnali in questa direzione si trovano già negli anni Novanta del 20° sec. benché indicazioni programmatiche fossero già state fornite da Willard Van Orman Quine, Karl R. Popper e H.A. Simon.
Alcuni precedenti
Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso Quine pubblicò un articolo ormai celebre dal titolo Epistemology naturalized (1969) nel quale delineava un programma di ricerca sui processi cognitivi rientrante a pieno titolo nella sfera delle scienze positive, e come tale radicalmente innovativo rispetto alla tradizione che, da Descartes e Locke a Kant fino al neokantismo, a Russell e allo stesso neoempirismo, aveva perseguito l’obiettivo di fondare filosoficamente l’attività conoscitiva. In questo programma, osservava Quine, avrebbero dovuto acquisire un ruolo di rilievo la psicologia comportamentistica e la biologia evoluzionistica, le quali avrebbero messo in ombra le teorie strettamente filosofiche sulla conoscenza umana. Un presupposto della tesi di Quine era ovviamente la continuità tra mondo animale e mondo umano: gli esseri umani e gli animali non umani avrebbero in comune certe caratteristiche biologiche e psicologiche che legittimerebbero una naturalizzazione anche delle funzioni mentali e cognitive più elevate degli umani. Tra le funzioni specificamente umane Quine indicava ovviamente il linguaggio, anch’esso indagabile tramite gli strumenti delle scienze naturali. All’epoca il programma di Quine (una sorta di ‘anatema’, si potrebbe dire, contro la filosofia fondazionalista) poteva forse apparire (e apparve) troppo restrittivo, riduzionistico e ottimistico: com’è noto, l’orientamento cognitivista aveva appena preso il sopravvento sul comportamentismo e non si erano ancora sviluppati gli approcci biologici e neuroscientifici alla ‘mentalità’ (la cosiddetta neuroscienza cognitiva).
In una prospettiva non dissimile si era collocato anche Popper con quella che sarebbe diventata nota (grazie a un celebre lavoro di Donald T. Campbell) come «epistemologia evoluzionistica». Rispetto a Quine – il quale si era limitato a indicazioni di metodo –, Popper si spingeva anche più oltre sul piano della naturalizzazione biologica dell’attività conoscitiva, arrivando a concepire i processi cognitivi, al pari di altre capacità animali e umane, come funzioni sviluppatesi nel corso della filogenesi per assicurare la conservazione della specie. In particolare, la concezione evoluzionista popperiana vede nel meccanismo di tentativo ed errore l’attività di ogni organismo e la fonte di ogni conoscenza; le stesse ipotesi e teorie scientifiche che determinano il progresso della conoscenza non sarebbero per Popper che tentativi di adattamento a un ambiente, con una differenza di rilievo tra l’uomo e gli altri organismi naturali: laddove la selezione elimina l’organismo che propone una soluzione sbagliata, l’uomo è in grado di «far morire» i suoi prodotti (ipotesi e teorie) al suo posto; l’attività scientifica (e, più in generale, conoscitiva) si caratterizza così come eliminazione selettiva delle ipotesi errate (soluzioni inadatte) e conservazione selettiva di quelle corrette (soluzioni adatte). Nella concezione popperiana assumeva peraltro un ruolo rilevante la nozione di azione diretta a uno scopo, alla quale Popper riconduceva la stessa attività conoscitiva: questa, infatti, non sarebbe altro che un tentativo di risolvere un problema da parte di qualsiasi organismo e, come tale, una specie di comportamento finalizzato, presente anche negli organismi più semplici, per quanto ‘cieco’. Di più, per Popper «il meccanismo della selezione naturale […] può simulare anche l’azione umana razionale diretta verso un proposito o uno scopo» (K.R. Popper, Objective knowledge. An evolutionary approach, 1972; trad. it. 1975, p. 354). Ma sicuramente l’osservazione popperiana più pertinente al proposito era quella relativa alla natura della coscienza: questa sorgerebbe, evolutivamente, allorché un organismo «comincia ad anticipare i possibili modi di reagire: possibili movimenti per tentativi ed errori e i loro possibili esiti»; più in particolare, gli stati di coscienza sarebbero quelle funzioni che «anticipano il nostro comportamento, elaborando, attraverso il tentativo e l’errore, le sue probabili conseguenze; e con ciò essi non solo controllano, ma progettano, deliberano» (pp. 326 e 327).
Difficile non scorgere in tale visione un tentativo di fondare biologicamente la razionalità strumentale e il ragionamento mezzi-fini, ossia l’attività di problem solving e di decision making.
Anche Simon, qualche anno dopo, avrebbe proposto una tesi analoga relativamente alle possibili basi biologiche della sua teoria della razionalità, individuando un parallelismo tra i meccanismi dell’evoluzione e quelli della teoria «comportamentale» (cioè limitata) della razionalità; scriveva al proposito Simon:«Proprio come nell’evoluzione biologica noi troviamo la variazione allo scopo di produrre nuovi organismi, così nella teoria comportamentale della razionalità umana troviamo alcuni tipi di elaborazione di alternative, alcuni processi combinatori che possono prendere singole idee semplici e riunirle in nuove combinazioni. Analogamente, proprio come nella teoria biologica dell’evoluzione il meccanismo della selezione elimina le varianti che hanno dimostrato scarsa capacità di adattamento, così nel pensiero umano il processo di verifica rifiuta le idee diverse da quelle che contribuiscono alla risoluzione dei problemi di cui si sta occupando» (H.A. Simon, Reason in human affairs, 1983; trad. it. 1984, pp. 76-7).
Simon osservava inoltre che la razionalità corrispondente ai meccanismi adattativi non è necessariamente ottimizzante, e da questo punto di vista rappresenterebbe una plausibile versione biologica della razionalità limitata.
Ma quali garanzie esistono per questo tipo di corrispondenza? Davvero l’attività di deliberazione e di decisione umana circa il modo migliore (o quanto meno più satisficing) di conseguire certi scopi non è altro che un’estensione o un prodotto filogenetico dei meccanismi che sono all’opera nella selezione naturale? Le tesi di Popper e Simon erano solo brillanti metafore, teorie speculative o invece plausibili ipotesi scientifiche? Secondo Elliott Sober, uno dei maggiori filosofi della biologia, le similitudini fra evoluzione e deliberazione, per quanto sostenibili, non possono essere spinte troppo innanzi; nota al proposito Sober: «la deliberazione è qualcosa che viene compiuta da un organismo provvisto di una mente. L’organismo prende in considerazione una serie di azioni alternative e sceglie quella che sembra meglio promuovere i suoi scopi. L’evoluzione, d’altra parte, coinvolge una popolazione di organismi che possono essere o non essere provvisti di menti. Quando la popolazione si evolve per selezione naturale gli organismi manifestano caratteristiche differenti; il carattere che si evolve è quello che meglio promuove la possibilità di sopravvivenza e di riproduzione degli organismi. La deliberazione implica un cambiamento che ha luogo in un individuo. L’evoluzione determina un cambiamento nella composizione di una popolazione i cui membri individuali non hanno alcuna necessità di modificare i loro caratteri» (Sober 1998, p. 408). Di là da questa differenza tra individuo e collettività, Sober mette inoltre in rilievo come l’affinità fra evoluzione e deliberazione deriva da quella che chiama l’euristica della personificazione (qualcosa a metà strada fra le euristiche di Kahneman e l’intentional stance di Daniel C. Dennett), un procedimento di pensiero che porta a estendere ai meccanismi della selezione naturale i criteri di ottimizzazione che caratterizzano la deliberazione razionale. L’euristica in questione si baserebbe su domande di questo tipo: se fossi un membro di una certa popolazione e volessi massimizzare l’adattamento, quale carattere vorrei possedere (per esempio, essere veloce o lento?) (p. 409). Per quanto spesso innocua, questa strategia potrebbe comunque essere fuorviante. Se l’obiezione di Sober è corretta, il rapporto istituito da Popper e altri fra selezione naturale e comportamento finalizzato può apparire basato su un’argomentazione circolare: si potrebbe osservare che si tende a individuare tanto nel comportamento finalizzato quanto nella deliberazione un meccanismo di tipo adattativo soltanto perché si è già precedentemente interpretata, o meglio ancora, personificata, l’evoluzione con le categorie della razionalità strumentale.
Nuove prospettive
Obiezioni di questo tipo non hanno impedito, tuttavia, il sorgere di ulteriori proposte sulla relazione fra razionalità pratica ed evoluzione: argomenti a favore della ‘derivazione’ della stessa teoria della decisione dai principi fondamentali della biologia evoluzionistica sono stati avanzati, per es., da William S. Cooper (2001), ma le sue ambizioni vanno ben oltre, implicando la sua tesi la riducibilità all’evoluzione anche della logica induttiva probabilistica, della logica deduttiva e infine della stessa matematica.
Ma soprattutto negli sviluppi più recenti della cosiddetta scienza cognitiva hanno rivestito un ruolo di grande rilievo le considerazioni tratte dall’evoluzionismo: basti pensare, per fare un esempio, alla rinascita e all’affermarsi della psicologia evoluzionistica (Oxford handbook of evolutionary psychology, 2007). Anche in ambito filosofico, e specific amente quell’ambito più vicino alla scienza cognitiva, si tende spesso a discutere delle funzioni cognitive nei termini del loro valore adattativo. Il caso più interessante è probabilmente quello del mindreading – la problematica della «lettura della mente» di altri individui. Il mindreading ha suscitato grande interesse originariamente riguardo al problema di chiarire i meccanismi utilizzati dagli esseri umani per spiegare o comprendere il comportamento finalizzato dei propri simili, anche se si tratta in realtà di un tema ‘trasversale’ che interessa la filosofia delle scienze umane e della mente, l’etologia cognitiva e la psicologia dello sviluppo, costituendo un oggetto di studio privilegiato per chiarire il sorgere della ‘mentalità’.
La versione del mindreading che, tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, sembra aver ricevuto maggiore adesione – anche grazie al suo incontro con la teoria neuroscientifica dei neuroni mirror – è quella che va sotto il nome di simulation theory, le cui caratteristiche sembrano comportare una vera e propria «riscoperta dell’empatia» (per un’articolata presentazione di questa teoria, v. Rainone 2005; Stueber 2006). Secondo questa teoria le nostre capacità esplicative e predittive del comportamento altrui sono in ampia misura basate su un’attività di simulazione immaginativa degli stati mentali altrui e delle azioni causate da tali stati. L’idea centrale della teoria è che, nel predire o nello spiegare il comportamento altrui, l’interprete si mette, empaticamente, nei suoi panni, assumendone il punto di vista e lo stato conativo e cognitivo (desideri e credenze) e impegnandosi in una vera e propria attività di finzione oppure di imitazione (pretending): un procedimento che nel caso predittivo condurrebbe alla decisione (ipotetica) di compiere l’azione che, se si trovasse nello stato mentale simulato, compirebbe egli stesso; nel caso esplicativo a individuare gli stati mentali intenzionali che, tramite un opportuno ragionamento pratico, avrebbero condotto lui stesso a eseguire il comportamento osservato. La conclusione (cioè la decisione) dell’ipotesi controfattuale alla base dell’interpretazione verrebbe ovviamente soltanto immaginata (sarebbe off-line, come si esprimono i sostenitori della teoria).
Alvin I. Godman, tra i maggiori sostenitori della simulation theory, ha esplorato, insieme a Vittorio Gallese (Gallese, Goldman 1998), la possibilità di connettere l’attività epistemica della simulazione a quella dei cosiddetti neuroni specchio, ossia quel tipo di neuroni, scoperti dal gruppo del neurofisiologo Giacomo Rizzolatti, individuati nella corteccia premotoria (area F5) delle scimmie (Rizzolatti, Sinigaglia 2006). La caratteristica di questi neuroni è quella di attivarsi sia quando la scimmia esegue un comportamento finalizzato, per es. cercare di afferrare un oggetto, sia quando osserva un comportamento analogo in un individuo conspecifico. L’occorrenza di quest’attività neurale in corrispondenza di azioni non solo eseguite ma anche semplicemente osservate potrebbe essere interpretata come una sorta di simulazione, per quanto inconsapevole. In particolare, la tesi sostenuta da Gallese e Goldman è che il processo neurocerebrale di attivazione dei neuroni mirror potrebbe costituire una forma primitiva e rudimentale, una sorta di «precursore filogenetico», dei processi simulativi utilizzati comunemente nella folk psychology per la comprensione del comportamento diretto a uno scopo, ossia l’attribuzione di desideri e credenze. E, soprattutto, la capacità di ‘rispecchiamento’ neurale del comportamento di individui conspecifici potrebbe essere interpretata come un meccanismo atto a favorire la sopravvivenza in quanto in grado di influenzare e modificare le risposte comportamentali di un individuo sulla base del comportamento osservato di un altro individuo, che potrebbe essere cooperativo o aggressivo (Goldman ha ulteriormente sviluppato l’interpretazione evoluzionistica della simulation theory: Sekhar, Goldman 2005; Goldman 2006).
Per quanto costituiscano dei notevoli incrementi sul piano della nostra conoscenza dei meccanismi interpretativi del comportamento altrui (umano e animale), la simulation theory e la teoria dei neuroni specchio non forniscono ancora, tuttavia, una risposta alle basi biologiche della deliberazione e della razionalità strumentale. Forse la pressione selettiva ha favorito inizialmente gli organismi in grado di simulare il comportamento dei propri conspecifici, così come ha favorito gli organismi in grado di riconoscere i volti (si pensi al valore adattativo di tale capacità, che è certamente all’origine della convivenza umana e della sua caratteristica stabilità sociale); ma, di fatto, come è stato osservato al proposito da David Papineau, gli organismi in grado di ‘leggere’ la mente altrui sono in grado di farlo proprio perché già provvisti della capacità di ragionare in base allo schema mezzi-fini: «presumibilmente – osserva Papineau – la capacità di fare un ragionamento ‘off-line’ presuppone una precedente capacità di farlo on line» (Papineau 2003, p. 121). La simulation theory, in altre parole, non sembrerebbe fornire una spiegazione evolutiva del ragionamento mezzi-fini in sé, ma solamente dei possibili vantaggi evolutivi del mindreading basato su quel ragionamento. Nonostante l’obiezione di Papineau, non si può escludere tuttavia che il ragionamento pratico possa essere sorto proprio in dipendenza di un’ancestrale e primitiva forma di simulazione-imitazione, diventando poi, nel corso della filogenesi, una capacità cognitiva autonoma o forse un ‘modulo’ nel senso di Jerry A. Fodor.
Sul tema delle origini biologiche della razionalità strumentale può essere segnalata la riproposizione – per il tramite di alcune tesi di Dennett – di temi popperiani da parte di Ruth G. Millikan (2006), che si chiede se non sia possibile individuare in una forma di comportamento per prove ed errori (trials and errors) l’origine della razionalità strumentale. Era stato Dennett a contrapporre, nel corso dell’evoluzione, le «creature skinneriane» alle «creature popperiane» (D.C. Dennett, Kinds of minds, 1996; trad. it. 1997, p. 102 e sgg.): i comportamenti delle prime sono originariamente casuali e, tra essi, vengono selezionati per ‘rinforzo’ quelli con il maggior grado di adattamento: ciò ovviamente può comportare la morte dell’organismo nel caso di tentativi casuali errati; le creature popperiane, invece, hanno la capacità di preselezionare i comportamenti in modo da eliminare quelli non adatti. Gli esseri umani, e molti animali superiori, sarebbero creature popperiane che lasciano morire le loro ipotesi al loro posto, secondo l’efficace formula di Popper. Riprendendo la tesi di Popper-Dennett, la Millikan pone in evidenza come una forma di razionalità strumentale comune agli umani e agli animali superiori sia proprio questa capacità di compiere tentativi ed errori in one’s head, una capacità molto più sofisticata del sillogismo pratico aristotelico nel quale più di un autore, nella filosofia analitica, aveva ravvisato un plausibile modello di razionalità strumentale. Naturalmente, una prospettiva di questo tipo comporta che si riconosca, almeno a certi animali superiori, una forma, ancorché minima, di deliberazione. Era stato lo stesso Darwin, del resto, a mettere in evidenza questo punto in The descent of man (1871), dove osservava che «si possono vedere costantemente animali che si fermano, deliberano e risolvono». Ma qual è esattamente, allora, la differenza tra la deliberazione umana e quella animale? Se è vero che è possibile attribuire a certi animali qualcosa di simile ai desideri e alle credenze degli umani (protodesideri e protocredenze, almeno), è vero peraltro che esiste un salto, pur nella continuità, fra razionalità animale e razionalità umana. La Millikan individua questa differenza nelle caratteristiche che, grazie al linguaggio, permettono agli umani di ragionare in termini di rappresentazioni mentali di forma proposizionale che possono fungere da guida per l’azione e che non dipendono, come negli animali, dalle precedenti esperienze rivelatesi utili alla sopravvivenza. Gli umani sarebbero così creature popperiane di tipo più sofisticato.
Il rapporto tra razionalità pratica animale e umana è stato problematizzato con particolare efficacia argomentativa da Papineau, che tuttavia considera la razionalità animale in termini più skinneriani che popperiani, per rimanere alla distinzione di Dennett. Secondo Papineau, ammesso che si possa parlare di ragionamento mezzi-fini negli animali, questo sarebbe parte del loro corredo genetico (basato quindi su istinti) o derivato da una forma di apprendimento per condizionamento. Il ragionamento mezzi-fini degli animali non sembrerebbe andare oltre una forma primitiva di sillogismo pratico, un ‘ragionamento’ del tipo: ‘è necessaria dell’acqua e qui c’è uno stagno’, seguito dal comportamento appropriato per soddisfare la necessità (Papineau 2003, pp. 96-7). Assenti negli animali sarebbero le capacità di elaborare le informazioni in loro possesso per generare, tramite processi inferenziali, disposizioni e comportamenti di nuovo tipo rispetto a quelli appresi dall’esperienza passata e rivelatisi vantaggiosi per la sopravvivenza (p. 98). Ancora, il comportamento animale può essere basato su certe ‘inferenze’ riguardanti l’appropriatezza di un certo comportamento date certe condizioni sperimentate nel passato, ma non sulle inferenze delle conseguenze che le azioni possono avere (p. 113).
L’autentica differenza fra ragionamento pratico animale e ragionamento pratico umano consisterebbe così nella capacità strettamente umana di produrre nuove disposizioni comportamentali (desideri e credenze) e di operare delle inferenze riguardo alle probabili conseguenze dei comportamenti da esse causati (si pensi, per fare un solo esempio, all’importanza del ragionamento controfattuale per il processo di deliberazione; v. Sober 1998, p. 417). Ciò non vuol dire, tuttavia, che il ragionamento pratico umano non sia biologicamente fondato: per Papineau esso «è un adattamento biologico peculiare degli esseri umani» (Papineau 2003, p. 98). Tale adattamento avverrebbe per il tramite del linguaggio (il che spiega perché vada limitato agli esseri umani): è nel linguaggio, infatti, che risiedono le strutture inferenziali che rendono possibile il ragionamento pratico e che controllano il comportamento finalizzato. Sennonché, questa ipotesi pone ovviamente il problema della funzione adattativa dello stesso linguaggio e, più specificamente, del rapporto tra ragionamento mezzi-fini e comunicazione: qual è esattamente la funzione primaria del linguaggio sul piano evolutivo? Quella di servire al ragionamento pratico o quella di servire alla comunicazione? Se si privilegia una come funzione primaria, l’altra potrebbe essere considerata come un ‘effetto collaterale’ o secondario, un by-product, della prima (secondo un argomento basato sulla nota teoria dello spandrel effect che era stata proposta nel 1979 dai biologi S.J. Gould e R.C. Lewontin in The spandrels of San Marco and the panglossian paradigm). Se la funzione primaria del linguaggio consistesse nel ragionamento mezzi-fini, la comunicazione sarebbe allora un effetto collaterale evolutosi solo successivamente. Ovviamente potrebbe valere anche il contrario. L’ipotesi di Papineau è che né il ragionamento pratico né la comunicazione possano essere considerati effetti collaterali; piuttosto, entrambi potrebbero essere considerati «funzioni biologiche del linguaggio» secondo un modello coevolutivo in cui il linguaggio potrebbe aver favorito inizialmente la comunicazione e questa a sua volta il ragionamento mezzi-fini, che, ancora, avrebbe facilitato ulteriormente la comunicazione (Papineau 2003, p. 127).
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