Razionalità
Filosofia
di Antonio Rainone
È quasi un luogo comune la constatazione che la r. e i problemi a essa connessi costituiscano temi eterni della ricerca filosofica. Sin dalla celebre definizione aristotelica dell'uomo come 'animale razionale' la r. rappresenta uno dei temi su cui si è concentrata - in forma implicita o esplicita - una gran parte delle indagini speculative, sia quelle sul ragionamento e la conoscenza sia quelle sull'etica e l'azione. Si parla da lungo tempo di r. 'teoretica' e r. 'pratica', e tale grande suddivisione è presente anche negli sviluppi che, verso la fine del 20° sec., hanno caratterizzato un ampio settore delle indagini psicologiche cognitiviste, le quali, spostando la nozione di r. dal tradizionale ambito filosofico-normativo a quello scientifico-descrittivo, ne hanno fornito chiarimenti di grande rilievo pur nel ridimensionamento delle concezioni filosofiche più ottimistiche (v. oltre). Teoretica (o cognitiva) è la r. che si suppone operi nella formazione del giudizio e della conoscenza corretta e giustificata, comprendendo in questa anche quella basata su certi principi logici; pratica, invece, è la r. che dovrebbe governare le azioni, in particolar modo quelle che riescono a soddisfare nel modo più efficace (ottimale) gli obiettivi o scopi di un agente. Da un punto di vista generale la r. può essere pertanto definita come un compito cognitivo o pratico basato sulle migliori ragioni per credere o fare qualcosa (Rescher 1988).
L'orientamento dei propri giudizi e delle proprie azioni secondo certe norme di r. è stato considerato, in larga parte della filosofia occidentale, il tratto caratteristico dell'uomo. Ciò non vuol dire, tuttavia, che il concetto di r. sia chiaro e definibile in modo univoco una volta per tutte. In una visione alquanto ampia della r., questa dovrebbe comprendere molti dei problemi discussi nella teoria della conoscenza (comune e scientifica), con particolare riguardo al ruolo dell'evidenza probatoria su cui è basata la cosiddetta credenza vera giustificata (ambito nel quale si può far rientrare anche il tradizionale problema dell'inferenza induttiva). Autonomizzatasi la teoria della conoscenza, le teorie più ristrette della r., quali si sono venute costituendo soprattutto nell'ultimo trentennio del 20° sec., riguardano in particolare le forme di ragionamento - i processi inferenziali - che conducono a conclusioni corrette dal punto di vista logico e ad azioni efficaci (rispondenti agli scopi) da quello pratico.
Il ragionamento logico-deduttivo e il ragionamento pratico (anch'esso in certa misura di tipo deduttivo) rappresentano pertanto le due grandi aree in cui maggiormente si è discusso di r. dal punto di vista filosofico.
Razionalità logico-cognitiva: il requisito della coerenza e la chiusura deduttiva
Un importante contributo alla definizione della r. logico-cognitiva era stato dato da W.V.O. Quine nel celebre Word and object (1960). Escogitando un ipotetico tentativo di traduzione o interpretazione di un linguaggio completamente ignoto da parte di un etnolinguista - il Gedankenexperiment della 'traduzione radicale', attraverso cui il filosofo statunitense tracciava le basi di una teoria naturalistica della conoscenza e del significato -, Quine osservava che in quest'attività dovrebbero essere evitate traduzioni che attribuiscono al parlante credenze assurde dal punto di vista logico, essendo spesso l'attribuzione di un'assurdità logica, come per es. la contraddizione p e non-p, prova di cattiva traduzione o interpretazione ("l'insipienza del nostro interlocutore, oltre un certo limite, è meno probabile della cattiva traduzione", Quine 1960; trad. it. 1970, p. 79). Questo criterio metodologico, noto come principio di carità (così chiamato con allusione al 'benevolo' atteggiamento con cui l'interprete dovrebbe presumere nell'interlocutore capacità razionali non dissimili dalle proprie), sarebbe stato in larga misura alla base della concezione della r. retrostante all'influente teoria dell'interpretazione di D. Davidson, secondo cui in ogni tentativo di interpretazione del linguaggio (e quindi delle credenze) altrui dovrebbero essere sempre favorite le interpretazioni che rendano l'interlocutore quanto più possibile coerente nel senso logico della non-contraddittorietà del suo sistema di credenze ("se non siamo in grado di trovare un modo di interpretare le emissioni verbali e l'ulteriore comportamento di una persona come rivelanti un insieme di credenze ampiamente coerenti e vere in base ai nostri criteri, non avremo alcuna ragione di considerarla come una persona razionale, come una persona che ha delle credenze o asserisce qualcosa", Davidson 1984, p. 137). Il principio di carità, espresso da Quine nella forma di una restrizione solo negativa sull'interpretazione (che si limita a imporre ciò che va preferibilmente evitato), acquisisce in Davidson un valore molto più positivo e vincolante, imponendo ciò che va fatto, cioè considerare necessariamente coerente l'interlocutore e orientare l'interpretazione a questo presupposto di partenza.
Il requisito della coerenza come caratteristica essenziale della r. chiama in causa il problema ulteriore della competenza logica da presupporre nel soggetto. Questo è razionale se è massimamente coerente dal punto di vista logico oppure esiste una tolleranza rispetto alle eventuali incoerenze che possono essere presenti nel suo sistema di credenze? Sembra che per Davidson esista un repertorio di principi logici che fanno di una creatura una persona, cioè un essere razionale, tali principi identificandosi in buona misura con la logica proposizionale: "la questione se una creatura 'sottoscrive' […] la logica del calcolo proposizionale [...] non è una questione empirica. […] Gli agenti non possono decidere se accettare o meno gli attributi fondamentali della razionalità: se essi sono nella condizione di decidere qualcosa, allora hanno quegli attributi" (Incoherence and irrationality, in Dialectica, 1985, 39, p. 352). Essere razionali significa, da questo punto di vista, padroneggiare almeno la logica proposizionale e pensare, o parlare, secondo un conseguente livello di coerenza.
Questa immagine della r. è apparsa per più di una ragione eccessivamente 'forte' in quanto tende a escludere molti ragionamenti umani non adeguatamente caratterizzabili secondo il criterio della coerenza e della deduzione logica corretta, senza contare il fatto che, empiricamente, è difficile dire quanta logica proposizionale ciascuno di noi conosca e utilizzi in modo istintivo. Inoltre, presupporre la logica proposizionale come dotazione cognitiva - naturale o acquisita - su cui sarebbero basati i processi inferenziali pone l'ulteriore problema della cosiddetta chiusura deduttiva del sistema di credenze di un soggetto. Il requisito della chiusura deduttiva impone che un soggetto creda tutte le conseguenze logiche delle sue credenze: assumendo la logica proposizionale come modello di r., ne conseguirebbe che ciascuno di noi dovrebbe credere, o, quanto meno, essere in grado di inferire tali conseguenze. A tale requisito come requisito della r. (sia logico-cognitiva sia pratica) si avvicina D. Dennett -che considera la r. come un elemento fondamentale per l'interpretazione di creature a cui si attribuiscono credenze, desideri e intenzioni e le cui tesi sulla r. sono simili a quelle di Davidson - allorché osserva: "supporre che l'entità x creda che p, q, r... non ci porta a nulla se non supponiamo anche che x creda a ciò che segue da p, q, r...; altrimenti non c'è modo di escludere la previsione che, malgrado creda che p, q, r..., x farà qualcosa di totalmente stupido" (Dennett 1978; trad. it. 1991, p. 49). Nei casi più elementari - per es., la regola del modus ponens: se p allora q, p, quindi q - il requisito potrebbe apparire in molti casi (anche se non necessariamente) soddisfatto; ma che dire di conseguenze logiche per trarre le quali è necessaria una competenza logica alquanto elevata? (Si pensi, per es., alla relazione di interdeducibilità che sussiste tra se p allora q e la sua contrapposta, se non-q allora non-p, per la quale chi crede la prima proposizione dovrebbe necessariamente credere anche la seconda e viceversa). Limiti temporali, mnemonici, di attenzione, errori e confusioni possono peraltro influenzare i processi di ragionamento, sicché appare alquanto improbabile che la chiusura deduttiva possa essere considerata un contrassegno della r. (Cherniak 1986). D'altra parte, appare difficile anche individuare quali siano le conoscenze logiche che un soggetto deve necessariamente possedere per essere considerato razionale. Al massimo, possono essere indicati alcuni modelli inferenziali (il modus ponens e forse il modus tollens della logica proposizionale) come requisiti necessari per la r., con l'avvertenza, tuttavia, che non sempre tali modelli vengono utilizzati correttamente: è vero, per es., che in molti casi gli esseri umani cadono nella cosiddetta fallacia dell'affermazione del conseguente (cioè se p allora q, q, quindi p, un'applicazione errata del modus ponens) o in quella della negazione dell'antecedente (cioè se p allora q, non-p, quindi non-q, un'applicazione errata del modus tollens) e, data l'elevata frequenza di tali fallacie, se ne dovrebbe concludere con un verdetto di subrazionalità o irrazionalità per gli esseri umani.
La nozione di r. implicata dal principio di carità è stata ampiamente criticata (per es., in Stich 1990, Nozick 1993) anche per via dell'universalismo implicato dal principio. Senza arrivare a certe conclusioni relativistiche come quelle implicite in L. Wittgenstein - per il quale la r. ha un carattere prevalentemente intraculturale, le forme di ragionamento e di comportamento essendo razionali solo all'interno delle culture che le istituiscono - Nozick ha, per es., osservato che i principi che presuppongono certe forme di r. comuni a tutti gli esseri umani "sembrano imperialistici in quanto conferiscono un ruolo indebito alla posizione di fatto occupata da noi, dalle nostre credenze e dalle nostre preferenze" (1993, p. 152).
Talvolta si è ritenuto che i processi inferenziali, le capacità di pervenire a credenze vere e di agire nel modo più appropriato ed efficace rispetto a certi scopi siano prodotti dell'evoluzione biologica, autentiche funzioni adattive rivelatesi utili alla sopravvivenza. Tale tesi, che ha ricevuto adesione nelle teorie naturalistiche della conoscenza e nella filosofia della mente degli ultimi decenni del 20° sec., risale in larga misura a Quine ed è stata sostenuta, tra gli altri, da Dennett ("l'evoluzione ha progettato gli esseri umani in modo che fossero esseri razionali, credessero ciò che dovrebbero credere e desiderassero ciò che dovrebbero desiderare", Dennett 1987; trad. it. 1993, p. 55), da R. Nozick (1993) e, prima ancora, da K.R. Popper con la sua 'epistemologia evoluzionistica'. Secondo S. Stich essa sarebbe basata su un'idea eccessivamente ottimistica della r. umana, che attribuisce a degli ideali normativi (appartenenti a una certa cultura) lo status di descrizioni biologico-naturalistiche, estendendo ai meccanismi biologici che presiedono all'adattamento degli organismi requisiti di r. che in realtà non trovano in quei meccanismi perfetta esemplificazione: strategie che conducono a inferenze sbagliate o a credenze false - è questa la conclusione cui perviene Stich - risultano spesso più adattive rispetto a quelle perfettamente razionali, rivelandosi quindi logicamente ed epistemicamente irrazionali ma al contempo molto utili per la sopravvivenza (Stich 1990).
Modelli di razionalità pratica
Gran parte del dibattito filosofico contemporaneo sulla r. pratica si è concentrato su quella che è nota come r. strumentale, cioè sulla definizione della r. pratica in termini di mezzi da utilizzare rispetto a uno o più scopi da conseguire, mentre rimane un problema a parte quello della r. degli scopi stessi, di ordine prevalentemente valutativo ed etico-politico. Benché tale nozione risalga per lo meno ad Aristotele (e sia presente in D. Hume e J. Bentham), la sua codificazione novecentesca si deve a M. Weber, che in Wirtschaft und Gesellschaft (1922) aveva parlato di razionalità rispetto allo scopo (Zweckrationalität) e definito l'agire razionale rispetto allo scopo come quello basato sulla scelta dei mezzi più efficaci per conseguire uno scopo e che, nel contempo, tiene conto delle sue varie conseguenze in modo da massimizzare i risultati attesi e minimizzare quelli indesiderati. Si tratta di una definizione che indubbiamente trova la sua origine in ambito economico (la sua formulazione più rigorosa sarebbe stata infatti fornita tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento con la teoria matematica della decisione razionale) e che Weber estendeva alla più generale comprensione sociologica. Weber ne precisava al contempo il valore di Idealtypus a cui non sempre si conformerebbero perfettamente le comuni azioni umane, rilevando inoltre l'esistenza di tipi di azioni che presentano caratteristiche riconducibili a modelli interpretativi ed esplicativi diversi da quello della Zweckrationalität, per es. il modello della Wertrationalität, la r. rispetto al valore (la casistica weberiana rimane una delle più complete riguardo alle motivazioni dell'azione umana).
In una prospettiva volta a generalizzare il modello weberiano si erano mosse le considerazioni di Popper (1967) sul 'principio di razionalità', il principio secondo cui un agente agisce in modo adeguato o appropriato date le circostanze in cui si trova e gli scopi che intende conseguire. Tale principio costituirebbe per Popper un criterio metodologico, un presupposto che guida le spiegazioni delle azioni umane e, come tale, non falsificabile, in quanto ogni tentativo di spiegare (o comprendere) un'azione consiste nel cercare di individuarne l'adeguatezza rispetto allo scopo che l'agente si prefiggeva. Le azioni incomprensibili, invece, cioè quelle che non si conformano alla presunzione di r., indicherebbero il più delle volte non che esse siano irrazionali ma che chi cerca di spiegarle non è a conoscenza di tutti i fatti - ossia circostanze, scopi e credenze dell'agente - pertinenti (considerazioni analoghe sulla presunzione di r. nella spiegazione dell'azione umana si possono trovare anche in Dray 1957 e in Dennett 1978). Ciò non escluderebbe necessariamente la possibilità di azioni subrazionali o irrazionali, ma il verdetto di subrazionalità o irrazionalità non sarebbe che un'extrema ratio a cui ricorrere solo in casi eccezionali - casi nei quali il principio di r. funzionerebbe come un modello (un Idealtypus weberiano) rispetto al quale il comportamento reale appare come una deviazione a causa di informazioni limitate, credenze o valutazioni errate da parte dell'agente.
Sebbene la r. come principio a priori fosse stata criticata molto acutamente da un punto di vista empiristico da C.G. Hempel fin dagli anni Sessanta e successivamente da Nozick (1981), per i quali la r. è una disposizione ad agire in un certo modo da accertare empiricamente caso per caso (e quindi non un principio a priori infalsificabile da presupporre in ogni spiegazione del comportamento), questa concezione ha goduto di grande influenza, quanto meno fino alla fine degli anni Novanta del 20° sec., soprattutto grazie alla teoria dell'azione di Davidson (1980) e alla teoria dei 'sistemi intenzionali' di Dennett (1978, 1987). In modo non dissimile da quanto sostiene nell'ambito della sua teoria dell'interpretazione e del significato, Davidson vede nella r. un criterio normativo a priori in base al quale selezionare le ipotesi esplicative del comportamento umano, privilegiando quelle che meglio contribuiscono a dare dell'agente l'immagine di un soggetto coerente sul piano logico e attento a valutare opportunità e ponderare conseguenze su quello pratico, così da agire in modo ottimale. Il desire-belief model, il modello più elementare sul quale secondo Davidson è basata la spiegazione dell'azione - 'A ha fatto x perché desiderava conseguire y e credeva che fare x fosse il modo migliore per conseguire y', che restituisce il classico schema mezzi-scopi della r. strumentale -, incorporerebbe già un'assunzione di r.; le ipotesi sui desideri e le credenze pertinenti verrebbero infatti avanzate per Davidson (secondo la sua concezione olistica del sistema mentale) sulla base della loro coerenza con il più ampio sistema di credenze e desideri dell'agente, dell'efficacia dell'azione compiuta rispetto allo scopo che l'agente si ripropone e della valutazione delle conseguenze dell'azione stessa (in modo da evitare quelle indesiderate). Pur non escludendo casi di irrazionalità, Davidson si spinge ancora oltre allorché nota come le comuni spiegazioni delle azioni umane siano in qualche modo affini ai modelli elaborati dalla teoria matematica della decisione (la teoria della decisione "si limita a esplicitare il nostro apparato di senso comune per spiegare l'azione intenzionale. Infatti, ognuno di noi in modo più o meno consapevole prende le sue decisioni in base al peso che dà ai valori dei possibili risultati delle sue azioni e alla probabilità che l'uno o l'altro dei corsi d'azione considerati sia in grado di produrre quei valori. Comprendiamo perché qualcuno agisce come agisce soltanto supponendo che egli assegni valori diversi ai possibili risultati dell'azione e congetturando quanto ritenga probabile che una certa azione possa produrre un risultato piuttosto che un altro", Davidson 2001; trad. it. 2003, p. 161).
L'attrattiva esercitata su Davidson (come su altri filosofi) dalla teoria della decisione lo aveva peraltro condotto a considerare a priori e costitutivo del ragionamento umano il principio della transitività delle preferenze (se X preferisce a a b e b a c, allora preferirà a a c) su cui è essenzialmente basata tale teoria. Le indagini cognitiviste più influenti, tuttavia, hanno messo in discussione le capacità umane di prendere decisioni ottimali in accordo ai modelli più sofisticati della teoria (Judgment under uncertainty, 1982) e si sono mosse piuttosto sul solco della r. limitata tracciato da H. Simon. L'assunto che ogni essere umano basi le proprie decisioni su un insieme completo e coerente di preferenze, e che proceda a un ordinamento di preferenze assegnando una certa probabilità e una certa utilità a ciascun esito delle opzioni per lui disponibili, appare pertanto troppo forte come requisito della r. pratica, esigendo competenze che esulano in gran parte dalla normale dotazione cognitiva umana (v. decisione, psicologia della). Ciò nondimeno, va sottolineato che, nonostante l'enfasi che Davidson attribuisce alla teoria della decisione (parallela a quella posta sulla logica proposizionale), il modello di r. pratica che difende appare in ultima analisi più vicino a quello che si chiamerebbe ragionevolezza, non pretendendo - se non in una misura limitata - di considerare gli esseri umani dei perfetti decision-makers guidati da criteri di ottimalità.
Razionalità e psicologia umana
di Antonio Rainone
Di là dai controversi tentativi di 'naturalizzare' la r. su basi evoluzionistiche, ciò che più colpisce nel dibattito dell'inizio del 21° sec. sono i risultati in ambito sperimentale-cognitivista che tendono a limitare l'ambito delle capacità razionali degli esseri umani o, quanto meno, a ridimensionare le definizioni filosofiche di razionalità. Tali risultati sono indicativi dell'esistenza di una sorta di frattura fra riflessioni filosofiche e indagini empiriche sul concetto di r., anche se va riconosciuto che la stessa filosofia ha manifestato interesse per le ricerche cognitiviste in merito, subendone spesso l'influenza (Cherniak 1986, Stich 1990, Goldman 1993). Se prendere sul serio il principio di carità equivale a supporre a priori un elevato grado di r., prendere sul serio i numerosi esperimenti psicologici volti a saggiare le capacità cognitive e inferenziali di soggetti umani significa infatti ridimensionare i presupposti 'caritatevoli' fino al punto da renderli pressoché inutilizzabili, dato che le inferenze, le credenze e le azioni dei soggetti sottoposti a tali esperimenti manifestano un elevato grado di subrazionalità. Per es., i risultati empirici riguardanti preferenze intransitive (A. Tversky, Intransitivity of preferences, in Psychological review, 1969, 76, pp. 31-48) ed errori nel ragionamento probabilistico (A. Tversky, D. Kahneman, Extensional versus intuitive reasoning: the conjunctive fallacy in probability judgment, in Psychological review, 1983, 90, pp. 292-315) minano fortemente l'idea dell'uomo come 'decisore razionale' coerente e in grado di pervenire ad affidabili giudizi di probabilità su cui basare le proprie scelte e azioni. Inoltre, l'ingiustificata (irrazionale) perseveranza in credenze erronee - per non citare che un solo caso dell'ampia casistica sperimentale discussa da R. Nisbett e L. Ross (1980) - sembra porre in discussione l'immagine dell'uomo come soggetto epistemico che basa i suoi giudizi conoscitivi sulle prove più affidabili. Considerazioni analoghe valgono infine per le capacità deduttive, che non sembrano essere basate sulle regole della logica proposizionale, ma su procedure di tipo intuitivo (euristiche) più o meno affidabili, ma spesso anche causa di semplificazioni ed errori sistematici (v. logica e processi cognitivi e ragionamento, psicologia del).
Gli esperimenti psicologici di questo tipo possono essere (e sono stati) tacciati di eccessiva complicazione quando non, addirittura, di trarre deliberatamente in inganno i soggetti. Ad accuse del genere lo sperimentatore può ribattere facendone notare la dipendenza da quel tipico processo psicologico (irrazionale) che tende a ignorare deliberatamente o inconsapevolmente i dati in contrasto con l'opinione che fa più comodo sostenere (una forma di wishful thinking). Andrebbe tuttavia riconosciuto qualcosa di corretto in entrambe le posizioni, quella dello psicologo sperimentale, che - dati alla mano - tende a limitare l'eccesso di ottimismo sulla r. umana, e quella del filosofo, che, per converso, tende a trovare conforto al suo punto di vista nella possibilità di comprendere i discorsi e le azioni degli altri sulla base di certi principi di r. logico-cognitiva o pratica.
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