RAZZA (XXVIII, p. 910)
La politica fascista della razza. - La politica demografica del Regime fascista, definita da Mussolini fin dai primi anni di governo come uno dei compiti elementari dello stato, doveva necessariamente svilupparsi in una più larga e severa politica della razza. I principî della politica demografica del fascismo sono infatti, sin dagl'inizî, non soltanto quello del potenziamento numerico della nazione, raggiunto con l'aumento della natalità e la lotta contro la mortalità, ma anche quelli del suo miglioramento fisico e spirituale, per elevare le sue capacità militari e produttive e i suoi tipici valori tradizionali. Era evidente allora che lo sviluppo stesso della storia d'Italia, individuato nella competizione con le altre nazioni e con numerose correnti ostili e nella formazione dell'impero, dovesse creare nel popolo italiano, sempre più profondi, una coscienza e un orgoglio di razza e nello stato il bisogno di una politica protettiva della razza.
La prima affermazione statale di questa nuova politica razziale segue infatti di pochi mesi la creazione dell'impero dell'Africa Orientale. Esso deve essere, nella definizione mussoliniana e nella necessità italiana, non soltanto un territorio coloniale abbandonato al lavoro degl'indigeni, sotto una guardia militare e politica e un comando produttivo e commerciale metropolitano - come gl'imperi delle altre potenze - ma un territorio nazionalmente, oltre che economicamente, collegato all'Italia; sbocco diretto della sua popolazione crescente, prolungamento di tutta quanta la sua vita nazionale. Questo tipo nuovo d'impero, che immette sul suo territorio vaste masse bianche di nazionali, crea anche un problema nuovo, che è quello dei rapporti fra i nazionali e gl'indigeni. Il problema è fondamentale per la vita della colonia come per quella stessa della nazione: la convivenza delle masse bianche e indigene può portare alla promiscuità e agl'incroci; il meticciato si è sempre rivelato, nell'esperienza di ogni paese coloniale, come uno sciagurato imbastardimento delle qualità originarie dei produttori; doveva dunque essere severamente arginato e vietato. Lo stato intervenne con precisi principî di netta separazione: un decreto-legge, approvato nel Consiglio dei ministri del 9 gennaio 1937, vietò con sanzioni penali le relazioni di carattere coniugale fra i cittadini italiani e i sudditi dell'Africa Orientale Italiana. Il concubinato di un italiano con un'indigena o di un'italiana con un indigeno è dunque reato punito con la reclusione in colonia e nel Regno.
A questa politica di divisione delle razze si aggiunge quella che si può chiamare dell'integrazione familiare. Nei primi mesi seguiti alla conquista dell'impero i cittadini italiani affluiti sul suo territorio erano sopra tutto uomini isolati, senza famiglia. L'incertezza del tempo e la vita dura sembravano dover rendere più ardui l'afflusso della donna, il trasferimento o la formazione d'intere famiglie. Ma presto si riconobbe la possibilità di ristabilire anche sui territorî coloniali d'oltremare l'equilibrio numerico fra i cittadini dei due sessi per favorire la conservazione e il normale sviluppo della famiglia italiana, prima condizione naturale di difesa dell'integrità della razza. La donna italiana, sana, resistente e laboriosa, si è sempre rivelata capace di dividere con l'uomo i più diversi destini, le più dure condizioni di vita. Ma il Partito è anche prontamente intervenuto a preparare con particolari corsi e regolamenti di vita la donna italiana alla vita della colonia.
Una nuova nazione italiana va dunque sorgendo, con tutti i suoi elementi essenziali, sui territorî d'oltremare; le caratteristiche qualità fisiche e spirituali degl'Italiani sono preservate dalle infiltrazioni corruttrici di elementi inferiori. Fra la Gran Bretagna, che non conosce questo problema per le esigue minoranze metropolitane presenti in colonia e ridotte alle più alte rappresemanze militari, politiche ed economiche, e la Francia, abbandonata nella sua decadenza demografica ad una politica di libera assimilazione, l'Italia fascista si individua dunque con una nuova e sostanziale politica di razza sui suoi territorî imperiali.
Ma presto questa politica razziale, rivolta ad elevare la coscienza e le forze attive degl'Italiani, si trasferisce dal piano imperiale al piano nazionale. Questo è il logico spontaneo risultato di un movimento interiore sempre più sentito nel popolo e nello stato italiano. Ma è anche il risultato di due fatti esterni: le abbondanti immigrazioni in Italia di elementi stranieri, soprattutto ebraici, fuggiti dopo il 1919 e sempre più numerosi dai paesi dell'Europa orientale e poi dopo il 1933 dalla Germania e infine dall'Austria, e le rivelazioni del fondo ebraico delle più infrangibili ostilità internazionali che l'Italia fascista ha trovato sul suo cammino, durante la sua rinascenza e soprattutto ín occasione dell'impresa etiopica.
Le immigrazioni di Ebrei stranieri, fatto nuovo per l'Italia, che si sono iniziate mentre si chiudevano le porte di quasi tutti i paesi alle emigrazioni italiane, dovevano necessariamente creare uno stato di disagio economico e sociale in Italia, dove esse portavano un improvviso e pesante elemento nuovo di concorrenza, soprattutto nelle attività delle libere professioni e in quelle dei commerci e degli affari. Ma il disagio era sopra tutto spirituale, ossia nazionale. I nuovi immigrati non rivelavano alcuna volonta e capacità di fondersi e armonizzarsi, nello spirito e nell'essenza della vita nazionale e politica, con gl'Italiani. Si rivelavano invece spesso ostili, corrosivi, pronti a speculare sulla vita italiana ma non a dividere le passioni e i rischi nazionali; veicolo di sovversivismo politico e intellettuale: elemento insomma grigio ed estraneo, quando non pericoloso. Si aggiunga che essi trovavano pronta e piena solidarietà, come di connazionali, in una gran parte dell'elemento ebraico, di cittadinanza italiana, che rivelava una sua singolare tendenza ad accoglierli, proteggeili e immetterli nelle attività italiane preferendoli agli stessi Italiani.
Queste schiere d'immigrati, non abbondanti di numero di fronte alla massa nazionale ma già sensibili nella sua vita, con la tendenza ad aumentare ogni giorno, ponevano allo stato un duplice problema: di concorrenza molesta al lavoro italiano e soprattutto d'influenza corrosiva, creata dalla mentalità di una razza che non può armonizzarsi con quella della razza italiana. La formulazione di questi problemi doveva portare alla creazione di una vera politica italiana di razza, nel senso di un'azione statale rivolta alla difesa della purità della razza italiana e all'esaltazione dei suoi più essenziali valori.
Per tale politica era necessario anzitutto definire il concetto della razza italiana, non a fini puramente dottrinarî ma come determinante di una precisa azione politica. Questa definizione fu fornita da un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, sotto l'egida del ministro della Cultura popolare, nel senso che "la popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana" e che essa si è ormai cristallizzata nella sua purezza poiché "dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione". Tale definizione fu poi chiarificata il 26 luglio 1938 dal segretario del Partito fascista, il ministro Achille Starace, nel senso che la razza italiana, con tipiche e riconoscibili individualità, appartiene al gruppo degl'Indoeuropei, mentre "gli Ebrei si considerano da millenni dovunque e anche in Italia come una razza diversa dalle altre".
Sulla base di queste definizioni si è venuta rapidamente sviluppando una concreta politica razziale. Un primo decreto-legge, approvato dal Consiglio dei ministri il 1° settembre 1938, vieta agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel regno, in Libia e nei possedimenti dell'Egeo; revoca le concessioni di cittadinanza italiana fatte a stranieri ebrei dopo il 10 gennaio 1919; impone l'esodo, entro sei mesi, degli stranieri di razza ebraica che si trovano in questi territorî e vi abbiano iniziato il loro soggiorno dopo il 1° gennaio 1919. Agli effetti di questo decreto-legge è considerato ebreo colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se professi religione diversa dall'ebraica. La stessa definizione vale per il trattamento degli Ebrei nati in Italia. Un altro decreto-legge, approvato dal Consiglio dei ministri del 2 settembre, esclude gl'insegnanti e gli alunni di razza ebraica dalle scuole statali e parastatali di qualsiasi ordine e grado ed elimina i membri di razza ebraica dalle accademie, dagl'istituti e dalle associazioni di scienze, lettere e arti.
Ma un più largo e completo indirizzo è tracciato nella politica razziale del fascismo da una dichiarazione approvata dal Gran Consiglio del fascismo nella riun; one del 6 ottobre 1938. Con essa viene posto nella sua interezza il problema della difesa della razza italiana contro i pericoli di incroci e di imbastardimento e viene considerato il problema ebraico come l'aspetto metropolitano di un problema di carattere generale.
Questa dichiarazione vieta anzitutto il matrimonio degl'Italiani con elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre räzze non ariane. vietato pure il matrimonio con stranieri di qualsiasi razza per i dipendenti civili e militari dallo stato e da enti pubblici. È condizionato al preventivo consenso del Minisiero degl'interni il matrimonio d'Italiani con stranieii anche di ïazza ariana. sono rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza nei territorî dell'Impero.
Una più larga applicazione è pure preveduta nella dichiarazione per la politica discriminativa e severamente limitata riguardante gli Ebrei. L'ebraismo è considerato non soltanto nel suo aspetto di razza diversa e inassimilabile, indipendentemente dalla questione religiosa, ma anche nelle sue mondiali rivelazioni spirituali e politiche ostili al fascismo. E pertanto, confermandosi il divieto d'ingresso nel Regno agli Ebrei stranieri e l'espulsione degli Ebrei stranieri affluiti in Italia - fatta eccezione per gli Ebrei che abbiano un'età superiore ai 65 anni o abbiano contratto un matrimonio misto italiano prima del 1° ottobre 1938 - sono integrate sul piano generale della vita nazionale le norme limitative che separano dalla razza italiana gli Ebrei di cittadinanza italiana.
I cittadini italiani di razza ebraica non possono: essere iscritti al Partito nazionale fascista; essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone; essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno; prestare servizio militare in pace e in guerra. Sono riservate a ulteriori provvedimenti le decisioni sull'esercizio delle professioni. Ma nessuna discriminazione, escluso l'insegnamento nelle scuole, è applicata agli Ebrei di cittadinanza italiana i quali appartengano a: famiglie di caduti nelle quattro guerre sostenute dall'Italia in questo secolo: libica, mondiale, etiopica e spagnola; famíglie dei volontarî di guerra nelle guerre suddette o di combattenti; famiglie di insigniti della croce al merito di guerra; famiglie di caduti o di mutilati, invalidi o feriti per la causa fascista; famiglie di fascisti iscritti al partito negli anni 1919-20-21-22 e nel secondo semestre del 1924: famiglie di legionarî fiumani; famiglie aventi eccezionali benemerenze accertate da apposita commissione. Questi ebrei hanno dimostrato con la loro vita e la loro opera di essere spiritualmente inseriti nella vita nazionale italiana e nella sua storia.
La politica razziale fascista riguardante gli Ebrei tende a separare dalla razza italiana quella ebraica senza assumere alcun carattere particolarmente persecutorio. Sono mantenuti e protetti il libero esercizio del culto e l'attività delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti: sono istituite per gli Ebrei scuole elementari e medie pari a quelle statali; è rigorosamente vietata ogni forma di pressione sugli Ebrei per ottenere abiure; è riconosciuto il normale diritto di pensione agli Ebrei allontanati dagl'impieghi pubblici. È infine riconosciuta la possibilità di una controllata immigrazione di Ebrei europei in qualche zona dell'Etiopia anche per deviare l'immigrazione ebrea dalla Palestina.
L'applicazione di questa politica ha portato a profonde revisioni di posizioni in molte zone della vita nazionale, soprattutto in quelle delle scuole superiori, della finanza e dell'assicurazione e dei grandi commerci, nelle quali gli Ebrei di cittadinanza italiana, nonostante la loro minoranza numerica - calcolata in un primo censimento in 70 mila individui - avevano conquistato numerosi posti di comando e di controllo su larghe correnti dello spirito e degl'interessi italiani.