RAZZISMO
(App. II, II, p. 669)
Il termine, entrato nell'uso comune negli ultimi sessant'anni, definisce anzitutto una posizione ideologica che, fondata su una grande varietà di motivazioni, diverse da epoca a epoca, afferma la superiorità di un gruppo umano sugli altri, presunta in base a caratteristiche biologiche e anche culturali. Quando questa pretesa superiorità non resta sul piano delle elaborazioni teoriche, produce la violenta formazione di sistemi sociali basati su pregiudizio ed emarginazione, fino alla dichiarata volontà di soppressione delle alterità culturali che inquinano la purezza della razza considerata dominante. La crescente ampiezza degli scambi etnici e delle migrazioni di popolazioni del Terzo Mondo verso i paesi economicamente avanzati del vecchio continente, il costituirsi di aspre tensioni interne tra le regioni di uno stesso paese, la continua crescita di contatti con stranieri che occupano posti lavorativi all'interno delle nazioni europee e, insieme, fuori dell'Europa, la persistenza di antiche pregiudiziali razziste negli Stati Uniti, in India, in Africa e in molte altre regioni geografiche, hanno riproposto il problema del r. come particolarmente attuale, che viene a inserirsi nel quadro più vasto della crisi economica e culturale che accompagna i più recenti sviluppi dell'epoca postindustriale.
Il r. può essere investito da vari tipi di analisi, con prospettive e risultati notevolmente diversi e contrastanti. Dominano, allo stato, le tecniche di ricerca sociologica e microsociologica che ricorrono ai metodi statistici e alle microinchieste nazionali e locali, ma quasi sempre finiscono per non cogliere la prospettiva dell'origine e dello sviluppo storico dei fatti analizzati. Diversamente da quanto accade per le tecniche di analisi sociologica, numerose anche se con risultati insoddisfacenti, poche sono le ricerche che hanno colto e seguito le linee del dispiegarsi storico del fenomeno. Opere di vasto respiro appaiono, invece, destinate a interpretare la genesi e la formazione di r. sui generis, quali l'antisemitismo (v. III, p. 527; App. II, i, p. 206) e i movimenti contro la negritudine negli USA.
Le contraddizioni logiche, sistematiche e classificatorie, che hanno originato il r., vanno ricercate nell'uso aberrante e mistificatorio del concetto di ''razza'' che, in senso biologico, venne a definirsi fra il 17° e il 18° secolo (G.-L. Buffon, 1707-1788) per indicare una tipologia fisica delle varie stirpi animali e umane, fondandosi prevalentemente sulle loro forme e caratteristiche esteriori ed ereditarie, in particolare sul colore della pelle, per quanto attiene agli uomini. Questo termine nasconde, quasi certamente, un'origine zoologica legata alla veterinaria e alla domesticazione animale, poiché, contro le vecchie ipotesi etimologiche che lo riconducevano al latino generatio e ratio, si è attualmente propensi a connetterlo con l'antico francese haraz, haras, "allevamento di cavalli e deposito di stalloni" (M. Cortellazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, 1985).
Una volta trasferito il termine dall'ambito zoologico a quello umano, la nozione diviene gravida di pesanti conseguenze sociali, perché per i razzisti la razza costituisce non più un referente di mera classificazione biologica più o meno certa, ma un complesso strettamente correlato di caratteri fisici, mentali, spirituali e culturali, che determina e differenzia il comportamento degli individui e dei relativi gruppi in forma rigidamente ereditaria (Montagu 1952). Questo processo di surrettizia trasposizione dei significati originari delle classificazioni biologiche ai gruppi sociali, non resta sul piano dell'osservazione teorica, ma deborda in prassi politico-sociale distruttiva e negativa. Correttamente è stato osservato che fra professione di r. e intento di dominio viene a costituirsi una stretta relazione, ed esso in tanto è possibile in quanto si proietta una negativa immagine del dominato che tende a legittimarne la subordinazione e l'emarginazione, fino alla soppressione o annientamento. Razzista in senso stretto è chi unisce tutti i tratti differenziali che separano sé dagli altri fino a fonderli in un concetto di razza. In senso largo il razzista non tollera le differenziazioni razziali, ma si autovalorizza a danno altrui, svalutando gli altri. Memmi (1982) precisa che per razzista in senso stretto deve intendersi colui che afferma l'esistenza delle differenze biologiche (colore della pelle, forma del naso, dimensioni del cranio, curva delle spalle, odore, composizione del sangue), e per il quale non ha rilievo se tali differenze sono reali o apparenti poiché egli agisce come se fossero reali.
Le antiche popolazioni mediterranee non conobbero il r. nel senso che ad esso noi attribuiamo. La posizione assunta nei riguardi degli ''altri'' originò il diverso fenomeno indicato come ''etnocentrismo'', che solo raramente e posteriormente coincise con le rappresentazioni razziste. Leach (1978) ricorda che l'etnocentrismo è un'universale caratteristica umana e non, come talvolta si suppone, solo una peculiarità dell'imperialismo moderno. Nelle culture antiche che superavano la condizione tribale, l'etnocentrismo si rivela a livello urbanistico ed edilizio con la costruzione di palazzi imperiali e di templi nel punto centrale della città, considerato il centro dell'universo. Esso è fondato su concezioni del mondo nelle quali un gruppo umano si autodefinisce esclusivamente secondo i propri caratteri, considerando ''uomini'' anche quelli che appartengono a gruppi prossimi pur se diversi, e come ''non-uomini'' quelli che sono al di là di tale prossimità. Costoro sono ''stranieri'', selvaggi, animali bruti, elementi della natura. Il nome tribale che la gente si autoattribuisce, spesso reca la connotazione ''uomini''. Se vengono riconosciuti altri gruppi tribali, questi sono diversi non solo perché hanno costumi diversi dai propri ma perché sono di una specie diversa: essi non sono veramente ''uomini''.
Il caso di etnocentrismo, meglio noto nel mondo antico, è quello dei Greci, i quali qualificavano i ''diversi'' dal popolo ellenico con il termine barbaroi, soprattutto per l'incomprensibilità della loro lingua, parlanti cioè per fonemi quasi animali e non decodificabili, le cui voci, secondo un'ipotesi di C. Lévi-Strauss, apparivano simili a stridi di uccelli (la prima attestazione è in Omero, Il., ii 867, che riferendosi ai Cari, li qualifica come βαϱβαϱόϕὗνοι). Il termine si diffuse ampiamente dopo le guerre fra Persiani e Greci. La qualifica di barbari era principalmente connessa a una radicale diversità di costumi e di forme accentrate di potere: tutte le popolazioni barbare sono qualificate per la forma monarchica; Sciti, Amazzoni, Egizi, ecc. sono indicati in Erodoto come barbari perché retti monarchicamente. Tale antica visione etnocentrica non per questo è necessariamente razzista, anche se può esserne l'occasionale preliminare. La concezione era connessa alla rappresentazione dell'ecumene, o terra abitata, come un'isola circondata dal fiume Oceano (famoso è lo schema di Eporo e la carta di Eratostene), avente la Grecia al centro (l'omphalos di Delfi era il centro del centro) rispetto a cui gli altri popoli costituivano una serie geografica sempre più lontana e marginale rispetto al centro e dunque sempre meno nota. I neri erano paragonati a tutti gli altri barbari. Un'altra differenziazione fondamentale fra Greci e stranieri era il modo opposto di concepire usanze, costumi o tecniche. Presso gli Egizi, per es., vendita al mercato e attività di commercio sono svolte dalle donne, mentre gli uomini custodiscono la casa e tessono; mentre dovunque la tessitura si svolge tendendo la trama dal basso in alto, gli Egizi la tendono dall'alto in basso; gli uomini portano i pesi sulla testa, le donne sulle spalle; le donne urinano stando in piedi, gli uomini accovacciati; i loro bisogni naturali li soddisfano in casa ma mangiano all'aperto (Erodoto, ii 35).
Sebbene l'etnocentrismo sia rarissimamente slittato verso forme di r., i Greci e soprattutto gli uomini di cultura ne avvertirono spesso il disagio. Con Alessandro Magno i Greci passarono infatti da una coscienza etnica etnocentrica a una coscienza universalistica. Alessandro sognava l'unificazione fra Greci e Persiani, pensando non solo a superare l'opposizione Greci-barbari, ma che "Dio è re di tutti gli uomini..., padre comune di tutti gli uomini, sebbene consideri come suoi figli soprattutto i più virtuosi" (Plutarco, Vita Alex., 27). Il divario etnico, apparentemente superato in modo definitivo, sparisce con il cristianesimo: nella Chiesa "non vi è né Gentile né Ebreo, né barbaro né Scita, né schiavo né uomo libero, ma il Cristo è tutto in tutti" (Paolo, Ai Colossesi, 3,11). Nel periodo ellenistico, del resto, si delinea una rivalutazione quasi mitica dei cosiddetti barbari, degli Egizi, dei Babilonesi e degli stessi Sciti, immaginati come presunti detentori di una ''sapienza occulta'', che avrebbe preceduto la stessa sapienza ellenica. Parallelamente, nel mondo romano, Tacito esalterà le virtù di un popolo ai margini dell'impero, i Germani, dando origine al sorgere e alla riscoperta di una diversa mitologia che non a caso sarà ripresa in pieno 20° secolo, nell'epoca del nazismo, con i vari commenti allo scritto tacitiano, inteso come glorificatore della razza aria.
Forme di r. in senso proprio fanno la loro apparizione nel Medioevo. Da un lato persiste l'antica nozione di barbari come estranei e diversi che abitano lontani dal centro della cultura situato nel mondo mediterraneo; permane pure, contro l'immagine sferica della Terra, l'antica rappresentazione di una terra piatta e discoide, difesa da alcuni teologi, la cui parte inferiore e liminare è abitata da mostri e da selvaggi. Quando prevale la rappresentazione della forma sferica, l'emisfero inferiore appare abitato da popolazioni misteriose, gli Antichtones, che ponevano il problema teologico di una razza diversa dalla discendenza adamitica. A questo senso del diverso come misterioso o mostruoso vengono ad aggiungersi decise forme di r. come quelle dell'antisemitismo e dell'antigiudaismo, che considerano gli ebrei, già nei testi della teologia cristiana, esseri inferiori, rappresentati come figli di Satana, dotati di coda e maleodoranti (il cosiddetto foetor iudaicus) e i cui maschi mestruano tre volte al mese. Intorno all'11°-12° secolo sono investiti da un violento pregiudizio razziale i Cagots (o Agotes nella forma linguistica spagnola), popolazione dei territori baschi di Francia e di Spagna, assoggettata per secoli, fino a epoca recente, ai duri statuti di emarginazione, probabilmente perché discendenti da gruppi di lebbrosi espulsi dalle città nel corso del Medioevo.
Attualmente si è concordi nel ritenere che le teorizzazioni razziste in senso proprio siano nate con la scoperta dell'America e con la riduzione a schiavitù degli Indi americani e dei negri dell'Africa. Alcuni studiosi (Mosse 1978) ritengono che le elaborazioni moderne del r. risalgano, invece, a un'epoca posteriore, in concomitanza con gli sviluppi dell'Illuminismo e del Pietismo. Con la scoperta del Nuovo Mondo da più parti, religiose e politiche, si delinea un interesse disordinato ad assoggettare le popolazioni indigene al dominio spagnolo e portoghese, con un contemporaneo emergere di correnti spietatamente razzistiche (studiate in particolare da Todorov, 1982). Lo sterminio fu spietato soprattutto per quanto riguarda le popolazioni messicane e mesoamericane, fondamentalmente legittimato dalla tesi dell'inferiorità quasi bestiale degli indigeni. Secondo attendibili valutazioni scientifiche, la popolazione del Messico che era di circa 25 milioni di abitanti alla vigilia della conquista, nel 1600 era ridotta a circa un milione di persone. L'enorme diminuzione avvenne per ragioni dirette come le guerre, gli eccidi e i maltrattamenti; e per ragioni indirette come malnutrizione e diffusione di malattie. L'immagine che di queste popolazioni fornivano gli scrittori dell'epoca non poteva che favorire un avallo alla conquista attraverso gli eccidi. Il domenicano Tomas Ortiz scriveva: "Mangiano, sulla terraferma, carne umana. Sono sodomiti più di qualsiasi altro popolo. Non vi è giustizia fra di loro. Vanno tutti nudi. Non rispettano l'amore, né la verginità... Mangiano pidocchi, ragni e vermi ovunque li trovano, senza farli cuocere... Posso quindi affermare che Dio non ha mai creato una razza più ricolma di vizi e di bestialità, senza alcuna traccia di bontà e di cultura". Ancora più disumano appare il giudizio espresso da G. Fernandez de Oviedo: "Chi vorrà mai negare che usare la polvere da sparo contro i pagani è come offrire incenso a Nostro Signore?". In contrasto con tali posizioni di r. estremistico si pose l'opera di molti missionari conquistatori, soprattutto da parte del domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566), il quale, con impegno continuo e polemico, sostenne la naturale bontà degli Indi e affermò che la loro predisposizione alla conversione al cristianesimo ne avrebbe segnato il passaggio alla civiltà: tesi che se da un lato umanamente predicava la necessità di evitare gli eccidi, d'altro lato, tuttavia, proponeva una più sottile e insinuante forma di esclusivistico r. che comportava, col passaggio alla civiltà ispano-cristiana, la cancellazione delle culture indigene. In quest'epoca, peraltro, era già pienamente matura un'altra forma di emarginazione, quella degli zingari (v. XXXV, p. 956), conosciuti fin dal 13° secolo e che, con pretesti vari spesso di natura religiosa, furono perseguitati in tutti i paesi europei.
In America la contemporanea tratta degli schiavi destinati alla coltivazione diede origine al r. spesso feroce contro la popolazione negra, di cui tuttora restano ampie tracce, soprattutto negli stati meridionali degli USA. Anche qui si trattò d'individuare una legittimazione teorica alla vendita e alla schiavizzazione degli Africani, e la si trovò in interpretazioni devianti del testo biblico (maledizione di Cham, preteso capostipite dei negri) ovvero accentuandone le differenze biologiche e comportamentali che rappresentavano gli Africani come una stirpe aliena e giustamente assoggettabile al dominio europeo. Già nella Descrizione dell'Africa del viaggiatore e scrittore Leone Africano (n. circa 1485-m. dopo il 1554), musulmano che Leone x credette di aver convertito al cristianesimo e che presto tornò alla sua religione di origine, si leggeva: "Questi paesi sono abitati da uomini che vivono come le bestie, senza re, senza signori, senza repubblica, senza governo, senza tradizioni". Ancora una volta la diversità di costume e di cultura fonda una teoria dell'inferiorità destinata a consolidarsi col passare dei secoli. Un celebre naturalista come Buffon, nel classificare le specie umane, collocava gli Australiani come i più prossimi agli animali, gli Indi soltanto animali di primo rango, infine i negri animali a parte come le scimmie. L'articolo Espèce humaine della Encyclopédie di Diderot e D'Alembert era non meno perentorio: "Tutti questi popoli [dell'Africa] sono sudici e grossolani, superficiali e stupidi"; e ancora aggiungeva: "Non soltanto il colore li distingue, ma differiscono dagli altri uomini per tutti i tratti del loro volto, per i nasi larghi e piatti, per le grandi labbra, e per la lanuggine al posto dei capelli, sembrano costituire un'altra specie di uomini".
La netta ripulsa razziale del negro costituirà del resto uno degli elementi centrali di tutta la storia americana, soprattutto quando le folle di schiavi forzosamente immigrati furono via via emancipate e assunsero diritti pari agli altri cittadini. In questo clima maturarono episodi violenti come l'assassinio di M.L. King (4 aprile 1968) e l'esplosione di rivolte dei ghetti negri in periodo recente (29 aprile 1992).
Ma dietro tutto ciò va ricordata la triste azione del Ku Klux Klan, setta fondata nel 1865 a Pulaski, capoluogo di contea del Tennessee, e rifondata nel 1915 ad Atlanta. Gli adepti sono tenuti a riconoscere i principi dichiarati nei vari documenti di fondazione. Tra questi principi è affermato che scopo della fondazione del Ku Klux Klan era quello di "rigenerare il nostro sfortunato Paese e riscattare la razza bianca dalla condizione umiliante cui era stata ridotta; che lo scopo principale è quello di mantenere la supremazia della razza bianca; che la storia e la fisiologia ci insegnano che apparteniamo ad una razza che la natura ha dotato di una superiorità evidente su tutte le altre e che il Creatore, elevandoci così al di sopra del livello comune delle creature umane, ha inteso conferirci il dominio sulle razze inferiori, dominio, cui nessuna legge umana può mai derogare; che quanto più una razza si avvicina alla razza nera africana, tanto più fatalmente quel marchio di inferiorità viene stampato sui suoi figli, condannandoli irrevocabilmente a degradazione ed imperfettibilità eterne".
La degradazione degli Africani, ai fini dello sfruttamento politico e coloniale, s'integrerà nella storia moderna e contemporanea dell'intera Europa, fino ad accompagnare, in termini espliciti, la giustificazione in Italia delle pretese coloniali sull'Etiopia. Cipriani (1935) giungeva a dichiarare che le ricerche condotte sul cervello degli Africani e sulle loro funzioni fisiologiche e psichiche rivelavano un'irreversibile inferiorità mentale che li escludeva da una possibilità di progresso inteso alla maniera europea. In particolare, gli Africani sarebbero risultati inadatti ad assimilare effettivamente la civiltà europea, e trattandosi di condizioni dipendenti dai caratteri di razza, diventava necessario divulgare norme eugeniche che limitassero in modo opportuno i rapporti fra Europei e indigeni.
Trascurando tutte le suggestioni razzistiche di origine religiosa o colonialistica delle quali si è fatto cenno finora, in un suo studio Mosse (1978) ritiene che i principi teorici razzistici si siano venuti a formare nel 18° secolo, sotto la duplice influenza dell'Illuminismo e del Pietismo. L'Illuminismo avrebbe fissato l'ideale classico di bellezza e di armonica perfezione del corpo e del volto umano, trovandone il referente soprattutto nel mondo greco, ponendo di conseguenza, forse non intenzionalmente, le premesse del giudizio negativo sulle forme etniche devianti dal modello. Il Pietismo avrebbe prodotto, anche in rapporto all'azione missionaria, un ideale cristiano di moderazione secondo cui i negri divengono persone da avviare verso un processo di educazione che li sollevi a livello dei valori cristiani occidentali. Nella seconda metà del 18° secolo viene a disfarsi l'immagine utopica del ''buon selvaggio''; ad essa si sostituisce una rappresentazione negativa dipendente anche dalla letteratura di viaggi e dai primi tentativi di antropologia fisica, collegati alla tradizione fisiognomica e alla nascente frenologia. Si delineano così le classificazioni qualitative che vanno dal mondo animale a quello umano, e in cui, come accade in molti ambienti inglesi, il negro viene considerato un uomo-bestia. Nel 1785 viene pubblicato il Grundriss der Geschichte der Menschheit di C. Meiners che dopo aver classificato l'umanità secondo il colore della pelle e i fattori geografici, aggiungeva tra le caratteristiche distintive delle tribù e dei popoli la bellezza o la bruttezza dell'intero corpo o del volto. Veniva creandosi così una gerarchia di razze che, partendo dalle creature più basse, attraverso le scimmie e il leggendario ''nero della foresta'', giungeva agli Ottentotti, ai Boscimani e agli Aborigeni, e poi ancora alle razze gialle e agli Slavi e si concludeva infine con la razza bianca, signora del mondo. Buffon, nella sua Histoire naturelle de l'homme (1778), riprendendo i principi di J.-B.-A. de Lamarck, pensava all'azione determinante dei fattori ambientali e a concorrenti elementi spirituali. C. von Linné (Linneo) insisteva sulla superiorità della razza bianca e sui caratteri negativi dei negri.
Con l'epoca romantica viene a configurarsi una radicale trasformazione del concetto di razza, all'interno della trama di correnti fra di loro differenziate e ideologicamente molto ricche. J.G. Herder (1744-1803) ebbe una decisiva influenza, sullo sfondo di una concezione di universalismo etico, nel trasformare l'idea di razza in quella di Volk (popolo), soprattutto inteso come patrimonio di idee e di intuizioni che qualificano i caratteri di un popolo.
Durissimo, invece, sarà il giudizio di Hegel: "L'uomo, in quanto tale, si oppone alla natura ed è così che egli diviene uomo. Ma, fin quando si distingue solamente dalla natura, egli resta soltanto al primo stadio, ed è dominato dalle passioni. È un uomo allo stato bruto. Per tutto il tempo in cui ci è stato dato di osservare l'uomo africano, lo vediamo nell'età della selvatichezza e della barbarie, e ancora attualmente egli è restato tale. Il Negro rappresenta l'uomo naturale in tutta la sua barbarie e la sua assenza di disciplina. Per comprenderlo, dobbiamo abbandonare del tutto il nostro modo di vedere europeo. Non dobbiamo pensare né a un dio spirituale né a una legge morale; dobbiamo astrarre da ogni spirito di rispetto e moralità, da tutto ciò che si chiama sentimento, se vogliamo afferrare la sua natura... La loro condizione non è suscettibile di alcuno sviluppo, di alcuna educazione. Come li vediamo oggi, tali sono sempre stati... [l'Africa] propriamente non ha storia" (Liauzu 1992).
Ma qualche decennio dopo una nuova configurazione della razza maturò all'interno delle tendenze interpretative nate in seno agli studi orientalistici e sull'India e che avevano portato alla scoperta delle lingue del cosiddetto gruppo indogermanico e all'ipotesi connessa, discutibile e incerta, che alla loro origine fosse esistita una popolazione indicata come ''aria'' o indogermanica dalla quale sarebbero derivate, in combinazioni più o meno miste, le attuali popolazioni europee. Da questo processo di confusione fra una koinè linguistica e una koinè etnica, assunto come autentico dato scientifico, trasse legittimità la proposta, in rapporto al modello ario, di una classificazione di razze superiori, degradate per successive contaminazioni con altre etnie. Il nobile francese A. de Gobineau (1816-1882), legato alle idee dell'ancien régime, nel suo Essai sur l'inégalité des races humaines (Parigi 1853-55), attinse largamente alle nuove idee della filologia indogermanica e costruì, senza apporto di notevoli novità, un'ideologia della razza quale elemento centrale della storia, proponendo una scala di valutazioni etniche cariche di pregiudizi.
Delle tre razze riconosciute (la gialla, la nera, la bianca), quella gialla sarebbe dominata dal materialismo; quella nera avrebbe scarsa intelligenza, sensualità eccessiva, manifestata da una sfrenatezza della plebe simile a quella dei sans-culottes della rivoluzione francese; quella bianca avrebbe incarnato le virtù francesi, soprattutto quelle della nobiltà. In questa concezione gerarchica delle razze, gli Ari costituivano il livello superiore dei bianchi.
Su questa linea una funzione di grande autorità ebbero gli scritti del linguista F.M. Müller (1823-1900), il quale, respinti i metodi antropometrici dell'antropologia fisica, assegnò alla linguistica la decisiva capacità di accertare l'unità dei popoli e le loro derivazioni, riconoscendo particolari virtù agli individui di razza aria immigrati nei vari paesi europei. Posteriormente faranno la loro comparsa molti tentativi di restringere la qualità superiore della stirpe aria al solo gruppo tedesco (G. Kossinna, A. Rosenberg, H. Himmler). A queste ipotesi razzistiche andavano saldandosi potenti correnti di antisemitismo soprattutto in Francia, dove E. Drumont (1844-1917, inventore del termine ''nazionalsocialismo'') compiva un'attiva propaganda razzista, sostenendo che la causa dei dissesti sociali di allora erano i semiti, dipinti come trafficanti, avidi, orditori di trame segrete e scaltri. Lo stato nazional-sociale francese avrebbe dovuto essere riscattato dalla presenza ebraica mediante la confisca dei loro beni. Drumont fondò la sua ideologia su basi fisico-antropologiche, facendo ricorso agli indici fisiognomici e fisiologici.
A partire da questo periodo, e nei decenni seguenti, il r. in senso proprio, inteso come teoria emarginante di alcune etnie dichiarate inferiori, viene a intrecciarsi così intimamente con l'aperta lotta contro gli ebrei, che descrivere i successivi sviluppi del r. senza aver presente il peso della questione ebraica implica una sorta d'indebita estrapolazione. Viene infatti a configurarsi il cosiddetto ''r. scientifico'', basato su una vera e propria biologia razzista. Nel 1895, nel suo Die Tüchtigkeit unserer Rasse und der Schutz der Schwachen, A. Ploetz presenta la razza germanica come portatrice di cultura nel mondo, e dichiara che, pur essendo ogni popolo il risultato di incroci razziali, quello tedesco rappresenta la migliore selezione umana per competenza e capacità. Gli stessi ebrei sarebbero appartenuti a tale razza superiore, grazie a un processo di arianizzazione testimoniata, in molti casi, dalla presenza di occhi azzurri e di capelli biondi.
Parallelamente, una notevole influenza esercita un tipo di r. definibile come ''spirituale'', o ''mistico-religioso'', che agli occhi di alcuni studiosi è apparso, soprattutto nel caso degli epigoni italiani (J. Evola), più innocuo e meno implicato nelle catastrofi e negli eccidi provocati dall'ideologia razzista del nazifascismo. Lo spiritualismo diviene r. soprattutto in J. Langbehn (Rembrandt als Erzieher, 1890): solo la razza di artisti tedeschi poteva comprendere la natura e l'universo di Dio, mentre gli ebrei, deprivati di radici, manifestavano soltanto l'avidità del loro animo. In questa tendenza, pretestuosamente definita come spiritualistica, quasi a coprire le colpe di cui si è resa responsabile, si affermano sia il recupero della fisiognomica classica, sia l'avversione decisa contro il cristianesimo e la fantasia di ricostruzione di un neopaganesimo germanico (J.L. von Liebenfels), mentre convergono in essa, anche attraverso le dottrine della Società teosofica fondata a New York nel 1875, le immagini di un Oriente patria dell'arianità. Illustre rappresentante della corrente è R. Wagner. Si comprende così l'apparizione di H.S. Chamberlain, morto nel 1927, che, inglese germanizzato e marito della figlia di Wagner, intese portare queste idee a un livello filosofico. Immaginò infatti una religione cristiana di tono wagneriano che doveva corrispondere all'anima tedesca razzista e aria, per di più qualificata dagli stereotipi fisici dei tratti fisiognomici e della craniologia. Per lui lo stesso Cristo diviene un profeta ario, perché la Galilea non sarebbe stata dominata da ebrei, ma da un ramo degli ari. Gli ebrei divengono così un popolo demoniaco mentre i Tedeschi sono vero popolo eletto. Tutti codesti preliminari storici e ideologici di tendenza sia biologistica che spiritualistica, confluirono nel nazismo favorendo il disegno della cosiddetta ''soluzione finale'' che sterminò gli ebrei, ma che prevedeva un più ampio sterminio di tutte le stirpi europee che non fossero conformi al modello ario.
Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, anche alla luce delle nefandezze prodotte dal r., molti studiosi passarono a una dura critica della stessa nozione di razza, negando completamente la possibilità di un suo fondamento scientifico e interpretando la storia come conflitto e incontro non già di razze, ma di complessi culturali, nati dall'osmosi di popolazioni etnicamente diverse. Nel 1952 M.F.A. Montagu, docente presso la Rutgers University (USA), in un suo libro intitolato Man's most dangerous myth. The fallacy of race, dimostrava con rigore e minuzia di dettagli l'inconsistenza di tutte le teorie ricordate. Nello stesso anno C. Lévi-Strauss, in un volumetto intitolato Race et histoire, pubblicato dall'UNESCO e poi ripreso in Le regard éloigné (1983), chiariva definitivamente che "il peccato originale dell'antropologia consiste nella confusione fra il concetto puramente biologico di razza... e le produzioni sociologiche e psicologiche delle culture umane". Nonostante questi sforzi di chiarimento e di superamento di arcaici pregiudizi, le attuali condizioni storiche ed economiche hanno visto risorgere l'esplosione di nuove forme di r. più o meno violento. Accanto ai fenomeni di r. negli Stati Uniti e in Sudafrica, di antica matrice, anche nei paesi europei sono riapparse pericolose posizioni, assai esplicite e dure nelle formazioni di destra, tese a opporre la barriera del più brutale r. contro gli immigrati comunitari ed extracomunitari nella doppia forma di un rischio economico perché sottrarrebbero lavoro agli autoctoni, e di un rischio biologico perché inquinerebbero ancora una volta la pretesa purezza delle etnie in cui s'inseriscono. Le forme di r. attualmente più pericolose sono rappresentate dalle rinnovate formazioni e ideologie neonaziste che hanno il loro centro nei paesi di lingua tedesca ma le loro lontane origini negli hooligans e negli skinheads inglesi, giovani reazionari di origine piccolo-borghese e operaia.
In Italia il neo r. si è manifestato nei movimenti leghisti, i quali si appellano, anche non dichiaratamente, a più antiche teorizzazioni del divario economico e civile fra Meridione e Settentrione, quale fu proclamato già nel 1898 in L'Italia barbara contemporanea di A. Niceforo, appartenente all'ampia schiera degli antropologi fisici di scuola lombrosiana e positivistica. Accanto a disordinate manifestazioni razzistiche che si rilevano in alcune frange della Lega Lombarda e nei suoi numerosi calchi regionali e locali, sembra avanzare sempre più in tutto il paese un r. ''selvaggio'', carente di ogni riferimento ideologico e appartenente ai livelli popolari, nelle forme ben note di emarginazione di immigrati africani e asiatici nel Sud e nel Nord e nei riguardi delle comunità zingare. Queste reazioni in alcuni casi sono passate a vere e proprie forme di violenza persecutoria fino al delitto, senza che le comunità di immigrati siano riuscite a difendersi attraverso la debole azione delle loro associazioni. D'altra parte gravi fenomeni di r. sottostanno al duro trattamento subito in Italia dai gruppi di Albanesi che tentavano d'immigrare per sottrarsi alla miseria e che continuano a passare il confine attraverso un mercato delittuoso e segreto della manodopera. In senso generale le esperienze recenti e remote sembrano dimostrare l'infondatezza dell'immagine di un'Italia naturalmente tollerante e affrancata dal male razzista. Purtroppo i dati inseriscono il paese nell'esplosione europea dei movimenti di emarginazione che continuano a frapporre barriere fra gli uomini.
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