Razzismo
di George L. Mosse
Razzismo
sommario: 1. Introduzione. 2. Le concezioni razzistiche nel Settecento e nel primo Ottocento. 3. Maturazione e diffusione dell'ideologia razzistica sino alla prima guerra mondiale. 4. Da ideologia a movimento di massa. Il razzismo e i fascismi. 5. Dopo la seconda guerra mondiale. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il termine ‛razza' ha diversi significati, ancora oggi non completamente distinti l'uno dall'altro. È stato usato sin dal Rinascimento per denotare tratti caratteristici di gruppi sia umani che animali; come è stato usato anche per indicare gruppi privi di affinità ereditarie. ‛Razzismo' si riferisce a una visione del mondo che riconduce il comportamento e il carattere degli uomini alla ‛razza' cui si asserisce che l'individuo o il gruppo appartenga. L'influsso del razzismo nell'epoca moderna deriva dal fatto che esso è divenuto una sorta di religione secolare, basata sulla scienza e sulla storia. Esso avanza diritti sui frutti migliori di entrambi i mondi: quello della scienza, che ha fornito nuove ‛verità' a partire dal Settecento, e quello della storia, che ha istituito un legame con tradizioni che si andavano rapidamente dissolvendo nel mondo moderno. Il razzismo fornisce una visione totale del mondo che, oltre alla scienza e alla storia, comprende anche l'estetica e la morale. (V. anche razza).
Possiamo tracciare l'evoluzione del razzismo attraverso diverse e ben definite fasi storiche. I fondamenti teorici furono gettati durante il Settecento e la prima metà dell'Ottocento. A partire dalla seconda metà dell'Ottocento sino alla fine della prima guerra mondiale il razzismo andò crescendo d'intensità, assumendo un più netto e definito orientamento. Tra la prima e la seconda guerra mondiale stabilì collegamenti con i movimenti politici di massa europei riuscendo, su buona parte del continente, a tradurre in pratica le teorie razziste. Infine, dopo la seconda guerra mondiale i razzisti continuarono ad agitarsi, ma furono sopraffatti dalla reazione contro i loro stessi crimini.
2. Le concezioni razzistiche nel Settecento e nel primo Ottocento
Il risveglio romantico della storia, quale ebbe luogo nel Settecento, fu d'importanza fondamentale per lo sviluppo dell'ideale razziale. Furono allora postulate le leggi dello sviluppo organico, poi trasferite all'antropologia e alla linguistica, le quali dovevano avere entrambe un ruolo decisivo nello sviluppo del pensiero razzistico.
Mentre per uomini come il Buffon e il Montesquieu lo sviluppo storico era condizionato dai fattori ambientali come il clima e la geografia, le differenze tra i popoli essendo variazioni puramente casuali, la concezione ‛organica' della storia scavava un abisso profondo tra gli uomini e tra le nazioni, abisso che, si diceva, non era un prodotto delle umane vicende, ma rivelava un piano divino. Si consideri per esempio la concezione elaborata da Herder, che doveva avere vasta risonanza in tutta l'Europa. La natura e la storia sono le forze creative dell'universo. La spontaneità naturale, istintiva, è alla radice delle caratteristiche di ciascun popolo nel suo cammino attraverso il tempo. Oltre che nella letteratura del passato, il popolo si esprime altrettanto schiettamente nella lingua nazionale e nella poesia popolare. L'individuo esiste solo come parte di un Volk così concepito. Nella concezione herderiana la nazionalità veniva ad assumere una dimensione estetica, storica e linguistica che ne faceva un'entità separata da qualsiasi forma transitoria di organizzazione politica. Il fatto che il Volk ‛organico' avesse la prevalenza sullo Stato si dimostrò decisivo per tutto il successivo pensiero razzistico. Herder non credeva, tuttavia, nella supremazia nazionale, poiché, come uomo dell'illuminismo, l'amore per il suo proprio Volk non gli impediva di rispettare tutti gli altri.
L'insistenza di Herder sul linguaggio come espressione di un passato comune accomunò un'intera generazione di filologi a cavallo del Sette e Ottocento, i quali respingevano però in massima parte gli interessi umanistici di Herder per concentrarsi invece sulla ricerca scientifica delle affinità genetiche tra le lingue. Le indagini glottologiche accertarono senza possibilità di dubbio la parentela esistente fra il sanscrito e l'antico persiano (e le lingue derivate) e molte lingue europee antiche e moderne; l'esame comparato di tutte queste lingue conduceva cioè a postulare una protolingua comune (indoeuropeo o arioeuropeo), importata in Europa dall'Asia all'epoca delle migrazioni dei popoli ‛ariani'. È in questo contesto che appare per la prima volta la parola ‛ariano'. Senonché la ricerca scientifica delle parentele linguistiche indulse assai presto alla formulazione di giudizi di valore, venendo così a saldarsi con la visione organica della storia tanto popolare tra i romantici.
Poiché la lingua esprimeva l'esperienza di un popolo attraverso il tempo, si pensava che il passato degli ariani, i quali avevano dato all'Europa le sue lingue, riflettesse la supposta superiorità dell'Europa contemporanea. Attraverso la linguistica i romantici trovarono un legame con la preistoria ariana dei popoli germanici. I linguisti descrissero gli ariani come forti e virili contadini, dalla sana vita familiare. La scienza linguistica dava così origine a un mito storico; la ricerca scientifica conduceva ad avanzare pretese di superiorità morale: tratto, questo, che resterà costante attraverso tutta l'evoluzione del pensiero razzistico. Il conte de Gobineau ripeteva un luogo comune della linguistica del suo tempo, quando pretendeva che la lingua ‛pura' degli ariani dimostrasse la loro capacità di trascendere la dimensione puramente materiale della vita.
La lingua divenne un indice della vera spiritualità e della continuità con un passato incontaminato. Già durante i primi decenni dell'Ottocento si sosteneva che stranieri come gli Ebrei erano caratterizzati da una intrinseca incapacità di parlare la lingua nazionale del paese ospite. Una simile inettitudine svelava la differenza delle origini storiche e una natura materialistica, incapace di volgersi a Dio e alla natura. Quand'era professore in Inghilterra (1859-1861), Max Müller presentava dottrine razzistiche sotto il manto della ricerca linguistica. Gli ariani erano stati trascinati nell'Europa nordoccidentale (Inghilterra e Germania) da un impulso irresistibile. Questa migrazione aveva irrobustito quel senso d'indipendenza e quella fiducia nelle proprie forze che erano i contrassegni della superiorità ariana. Bisogna sottolineare che simili idee di superiorità non erano necessariamente associate al nazionalismo, ma potevano essere anche usate per sostenere qualità tipicamente liberali, come la fiducia in se stessi e l'iniziativa privata.
Comunque la linguistica, combinata con il mito storico della superiorità ariana, portava a concludere che gli Anglosassoni erano predestinati all'esercizio della libertà attraverso libere istituzioni. Così lo storico inglese E. A. Freeman fu solo uno tra i molti a ritenere che l'Inghilterra dovesse le sue istituzioni parlamentari alle sue radici anglosassoni. Si pensava che l'organizzazione delle tribù germaniche (comitatus) esemplificasse la pratica democratica. Di conseguenza, le razze che non condividevano questo passato mancavano delle qualità spirituali necessarie per l'autogoverno. La Germania di Tacito forniva prove delle doti speciali e delle istituzioni caratteristiche degli antichi Germani, e associava il loro amore per la libertà e l'indipendenza alla schiettezza incorrotta delle loro qualità morali.
Sia i Tedeschi che i Francesi scavarono nel loro passato alla ricerca delle radici nazionali. Poco importava che, secondo lo storico Fustel de Coulanges, la predestinazione dei Francesi alla libertà risalisse non già al comitatus ma all'eredità romana e celtica; e nemmeno importava che simili teorie potessero servire di sostegno alle istituzioni liberali, oltre che al nazionalismo; il dato essenziale era - si trattasse di Germani o di Celti - che le virtù esemplificate negli antenati erano precisamente quelle predilette dalle classi medie dell' Europa ottocentesca: moralità rigorosa, duro lavoro, sete di cultura, vita familiare, tutti valori incalzati da presso dalla modernità. Il mito anglosassone rimase particolarmente potente negli Stati Uniti, dove, verso la fine dell'Ottocento, J. E. Hosmer scrisse che le nazioni europee e il Giappone non avevano fatto altro che imitare le vere libertà anglosassoni. Nel suo popolare Winning of the West (1889) Th. Roosevelt esaltava la ‟crescita della razza potente" venuta dalle foreste tedesche a conquistare il continente americano. L'espressione ‟destino manifesto" venne usata in questo contesto: la razza anglosassone doveva adempiere al proprio destino di diffondere il proprio sistema politico in tutto il mondo.
In sé, il concetto di ‛razza' derivava dall'antropologia piuttosto che dalla storia o dalla linguistica. Il termine ricevette un significato più preciso, e diede il suo contributo al razzismo, esattamente nello stesso periodo in cui andava dispiegandosi lo sviluppo della storia e della linguistica. Fu l'antropologia settecentesca a dare inizio alla classificazione delle razze. Linneo e Buffon suddivisero i popoli a seconda del colore, delle dimensioni e della forma del corpo. Si asseriva quindi che le somiglianze in tal modo scoperte costituivano appunto la ‛razza'. Ma anche questa impostazione puramente ‛scientifica' conduceva poi a giudizi sul carattere e sul temperamento degli uomini; parimenti si supponeva che l'apparenza esteriore e le misure fisiche dell'uomo simboleggiassero le qualità spirituali.
L'anatomista olandese P. Camper indagò la tipologia razziale mettendo a confronto le misure facciali e cefaliche dei Negri e delle scimmie. Tali misure stabilivano una progressione ordinata: dalla scultura greca, come forma ideale che si rivelava nelle razze europee, fino ai Negri, la più bassa delle specie umane. L'associazione di una supposta antropologia scientifica con criteri estetici si rivelò fondamentale per lo sviluppo del razzismo che, a partire dall'Ottocento, prese a elaborare ‛tipi ideali'. F. J. Gall fondò la fenologia sul principio che le predisposizioni morali e intellettuali degli uomini potevano essere determinate attraverso la configurazione dei loro crani. Le misure del cranio divennero essenziali, per la cosiddetta ‛biologia razziale', allo scopo di determinare il ‛tipo ideale'; e i nazisti, così come i razzisti italiani (per es. J. Evola), dovevano farne un grande uso.
Sebbene in un'antropologia siffatta l'osservazione scientifica fosse intrecciata con giudizi estetici e morali, durante il Settecento rimasero in primo piano i fattori ambientali. Ma quei pensatori che si preoccupavano d'esaltare lo sviluppo storico ‛organico' di un popolo avevano già negato l'importanza dei fattori ambientali. Essi ricevevano ora un potente sostegno da Kant, che si servì del concetto antropologico di razza unicamente per staccarlo dall'influenza del clima o della geografia. La purezza di una razza era essenziale e doveva essere mantenuta nonostante le circostanze esterne. Per Kant, i Negri e i Bianchi costituivano razze separate dato che non era mai accaduto che si mescolassero nel corso della storia. Kant, comunque, non postulò mai la superiorità di una razza su tutte le altre: come Herder, egli apparteneva all'illuminismo.
Una volta che l'importanza dei fattori ambientali era stata messa in dubbio in nome della purezza razziale, gli antropologi cominciarono a occuparsi sempre di più dell'origine delle razze. Alcuni credevano, seguendo il racconto della Genesi, a un'origine comune di tutte le razze (monogenisti), mentre altri ritenevano che le differenze fisiche tra gli uomini fossero troppo grandi per essere ricomprese in un unica specie: Dio doveva aver creato altre specie d'uomo oltre Adamo (poligenismo). Questa concezione fu sostenuta dapprima nel Settecento da coloro che volevano sbarazzarsi del pensiero religioso e biblico, per diventare poi, nell'Ottocento, un mezzo ulteriore cui ricorrere per distinguere una razza pura da tutte le altre. Gli antropologi, così come gli storici e i linguisti, ipotizzarono la presenza di un'essenza ereditaria, manifestantesi nelle peculiarità visibili che contrassegnano i membri di una razza.
Queste idee venivano diffuse attraverso una serie di società culturali come la Société Ethnologique di Parigi (1839), la quale proclamava che le razze dovevano essere distinte per ‟organizzazione fisica, carattere morale e intellettuale, e tradizioni storiche". La supposta identità di razza e di cultura era anche alla base del programma della Ethnological Society di Londra (1843) e della American Ethnological Society (1842). Non c'era ancora una piena accettazione del razzismo, in quanto la società inglese, data la sua preoccupazione per le razze indigene dell'impero, riteneva che l'uomo primitivo potesse esser ‛migliorato', e condannava quindi la schiavitù. Ma antropologi e linguisti avevano già preparato la strada a una corrente che, all'opposto, considerava tutte le razze straniere come occupanti una qualche posizione intermedia tra gli uomini e le scimmie. Dalla metà dell'Ottocento in poi molte società scientifiche, come l'Anthropological Society di Londra (1863), assunsero atteggiamenti nettamente razzistici verso i popoli che erano oggetto delle loro ricerche. Uomini come J. Hunt adottarono l'argomento poligenista secondo cui le suture craniche del Negro si chiudono prima di quelle dell'uomo bianco, limitando così il suo sviluppo mentale. I risultati di tali ‛ricerche' furono accolti con riconoscenza negli Stati Uniti, mentre nella stessa Inghilterra gli atteggiamenti razzistici non avevano che limitate prospettive. Ma anche in Francia, dove non mise profonde radici, il razzismo permeava però le ricerche di antropologi, storici e linguisti sulle popolazioni coloniali. Nello stesso periodo, il razzismo prendeva slancio fra i popoli europei radicandosi saldamente in una parte della popolazione colta e istruita.
3. Maturazione e diffusione dell'ideologia razzistica sino alla prima guerra mondiale
L'Essai sur l'inégalité des races humaines (1853-1855) del conte A. de Gobineau è basato sull'antropologia e la linguistica quali si erano venute sviluppando verso la metà del secolo. Gobineau vi aggiunse un'esplicita accentuazione politica e culturale: le sue teorie razziali miravano a spiegare gli sconvolgenti fenomeni sociali e politici del suo tempo. Nelle sue mani il razzismo divenne una spiegazione della decadenza dell'età moderna e, sotto questo aspetto, egli preannunciò lo sfruttamento politico che del razzismo si sarebbe fatto in tempi successivi. Gobineau temeva da un lato la formazione di un governo centralizzato e dall'altro il prepotere del volgo. Insieme, questi due fattori stavano distruggendo la vera nobiltà e libertà. La chiave per spiegare questo sviluppo stava in un mondo costituito da razze superiori e razze inferiori.
Gobineau classificò le razze nere, gialle e bianche a seconda della struttura sociale e della società che avevano prodotto. Le razze gialle si erano dimostrate abili nel commercio e nell'industria, ma incapaci di guardare al di là di siffatte conquiste materiali. Le razze nere erano incapaci di produrre società stabili ed erano sempre bisognose di controllo esterno. È evidente che Gobineau proiettava su queste razze le caratteristiche moderne, da lui disprezzate: le razze gialle erano la borghesia mentre le razze nere erano i ‛sanculotti'. Soltanto la razza bianca incarnava tutto ciò che egli riteneva nobile: una superiore spiritualità, l'amore per la libertà e un codice personale fondato sull'onore. Gobineau si servì della classificazione ‛scientifica' delle razze allo scopo di delineare un modello per l'epoca sua: la razza bianca o ariana rappresentava un'utopia, contrastante con la realtà sociale della metà dell'Ottocento.
Ed era senza dubbio un'utopia: Gobineau stesso riteneva che la mescolanza razziale fosse inevitabile. Non essendo rimasta pura, la razza ariana stava perdendo la sua antica superiorità e stava degenerando al livello di altre razze inferiori. La dominazione della borghesia, lo Stato moderno e il sorgere della democrazia erano tutti dati a sostegno di questa tesi. Le pessimistiche conclusioni di Gobineau furono omesse in molte delle successive ristampe della sua opera. L'Essai stesso ebbe una popolarità limitata e scarsa influenza, ma resta significativo come indicazione del successivo orientamento del razzismo nel quale tendevano ormai a emergere giudizi e valutazioni di natura esplicitamente non scientifica. Così il contemporaneo G. Klemm divise l'umanità in razze attive e passive. Le prime erano vigorose e mascoline mentre le seconde erano femminili e passive. Questo tema venne divulgato più tardi in Geschlecht und Charakter di O. Weininger (1903), nel quale si dava a intendere che gli Ebrei erano la razza femminile e passiva mentre l'ariano era mascolino e creativo. Il libro di Weininger divenne un punto di riferimento della successiva letteratura razziale.
Un altro contemporaneo di Gobineau, C. G. Carus, fece progredire ulteriormente il pensiero razzista verso la costruzione di una mistica razziale. Carus, come P. Camper prima di lui, si concentrò sulla ricerca dei tipi razziali ideali, che erano determinati dalla forza mistica del sole. Il tipo ariano ideale aveva una pigmentazione chiara, mentre i capelli biondi e gli occhi azzurri riflettevano la forza vitale simboleggiata dal sole. Nella delineazione di un tipo ideale siffatto si accentuavano gli elementi estetici presenti nel razzismo, che si erano andati sviluppando parallelamente con l'osservazione scientifica. Il concetto della bellezza ariana, basato in parte sui modelli greci e in parte sul simbolismo solare, ebbe una particolare importanza in Germania.
Idee del genere si dirigevano contro le razze che non partecipavano del tipo ideale. Nella seconda metà dell'Ottocento un razzismo di questa sorta venne applicato dai Tedeschi nei confronti dei Francesi e viceversa, ma fu soprattutto l'antisemitismo ad alimentare le idee razzistiche. La ragione di ciò era semplice: gli Ebrei sembravano rappresentare una cultura straniera nel cuore dell'Europa. Finché gli Ebrei erano stati costretti a vivere nei ghetti, pochi autori avevano mostrato un particolare interesse per loro, ma, con l'emancipazione ebraica all'inizio dell'Ottocento, l'atteggiamento cambiò. L'emancipazione era stata concessa sulla base del presupposto che gli Ebrei si sarebbero sbarazzati di quelle che l'illuminismo aveva considerato le loro qualità negative: la preferenza per l'attività commerciale e le superstizioni della loro religione. Essi si dovevano liberare dal giudaismo che, nella mente dei Gentili, si associava con il ghetto. Ma non appena gli Ebrei ottennero il diritto di cittadinanza e cominciarono a competere con successo con i Gentili nell'attività economica e nella vita sociale, i loro nemici li accusarono di perseverare nelle loro abitudini ‛ebraiche' malgrado l'emancipazione.
Per coloro che si opponevano all'emancipazione e si risentivano per i successi conseguiti dagli Ebrei nel mondo dei Gentili, il persistere di ghetti nell'Europa orientale costituiva la prova che mai sarebbe stato possibile superare le differenze esistenti fra gli Ebrei e gli altri popoli. Gli Ebrei del ghetto, inurbati e con un tenore di vita al limite della sussistenza, sembravano infatti offrire un contrasto sorprendente con le virtù e i tipi ideali ariani. Sia gli Ebrei del ghetto sia quelli emigrati nell'Europa occidentale tendevano a conservare, innanzi tutto, il loro abito particolare (caffettano), la barba e i cernecchi. A molti, nell'Europa centrale e occidentale, l'aspetto esteriore di tali Ebrei appariva strano e misterioso. Il pensiero razzistico aveva già posto in rilievo il simbolismo dell'aspetto esteriore.
Ma anche gli Ebrei assimilati erano visti come una quinta colonna nel mondo dei Gentili. L'accusa secondo cui gli Ebrei erano uno Stato nello Stato risale proprio agli inizi dell'emancipazione (a J. G. Fichte) e condusse, quasi inevitabilmente, a ritenere che gli Ebrei dovessero ancora una volta essere esclusi dalla vita europea. Gli Ebrei, si pensava, erano mossi dal desiderio di dominare sull'Europa in virtù della loro abilità negli affari, basata su un loro presunto inveterato materialismo. Essi avevano avuto successo in quel capitalismo finanziario che giuocò un ruolo cruciale nell'industrializzazione dell'Europa, e che era loro aperto in quanto campo di attività nuovo, non legato a vecchie tradizioni che escludessero gli Ebrei. Ma, mentre uomini come i Rothschild e i Pereire s'innalzavano a grandi fortune, tutte quelle classi della popolazione che temevano il capitalismo finanziario vedevano in tale successo la prova di una criminale cospirazione ebraica.
L'ondata di odio contro gli Ebrei trovò uno sbocco in Germania nelle sommosse antiebraiche del 1819, alle quali parteciparono quelle classi che si vedevano duramente incalzate dall'industrializzazione. Durante la rivoluzione del 1848 i ceti artigiani, prime vittime dell'industrializzazione, richiesero ancora una volta l'esclusione degli Ebrei dalla vita europea, sebbene l'opposizione all'emancipazione ebraica non fosse unicamente una loro prerogativa. I conservatori e i liberali, la classe media e l'aristocrazia, cioè tutti coloro che desideravano la stabilità economica e sociale, tendevano a biasimare gli Ebrei per la frattura ch ‛essi producevano nella vita europea. I primi socialisti come Fourier e Proudhon, a loro volta, vedevano gli Ebrei come gli sfruttatori della classe lavoratrice.
Un tale sentimento antiebraico non doveva però condurre necessariamente al razzismo poiché c'erano coloro che continuavano a credere che il ‛buon ebreo' potesse liberarsi dalle sue qualità ‛giudaiche'. Coloro invece che credevano nelle differenze razziali, e nella realtà di una cospirazione ebraica, cominciarono a patrocinare la guerra razziale. Nella seconda metà del secolo, il darwinismo dette un fondamento scientifico alle idee di guerra e di lotta e, una volta di più, gli atteggiamenti irrazionali maturati in precedenza si dimostrarono più importanti della teoria scientifica alla quale pretendevano di collegarsi. Il darwinismo sociale proclamò che la sopravvivenza dei più idonei, insieme col diritto della forza, costituiva il principio in base al quale governare la vita degli uomini e degli Stati.
La razza doveva dimostrarsi abbastanza ‛idonea' da vincere la lotta, e ciò indipendentemente dai fattori ambientali. I libri assai popolari del darwinista E. Haeckel propagarono l'idea secondo cui la storia biologica di un individuo deve ricapitolare in forma abbreviata l'evoluzione biologica dei suoi antenati (legge biogenetica). La continuità mitica con gli antenati virili del Volk veniva in tal modo integrata in una visione scientifica, darwiniana, del mondo. Il principio della sopravvivenza dei più idonei aizzava una razza contro l'altra.
In maniera abbastanza tipica, il giornalista tedesco W. Marr intitolò il suo libro Der Sieg des Judenthums über das Germanenthum (1867): gli Ebrei hanno intrapreso una guerra contro i Tedeschi e sono sul punto di riportare la vittoria finale attraverso la dominazione economica; è una guerra di razze e pertanto nessun compromesso è possibile. In libri influenti come Politische Anthropologie (1903) L. Woltmann sosteneva le guerre di conquista sul fondamento della necessità di sopravvivenza della razza; a ciò associava la tradizionale prova linguistica della superiorità ariana. Tali prove di superiorità ariana, una volta di più, s'intrecciavano con giudizi estetici, poiché solo gli ariani, diceva Woltmann, riproducevano le ‟proporzioni assolute della bellezza architettonica" secondo il paradigma greco. C'era poco da stupirsi se la ‟razza tedesca era stata scelta per dominare la terra".
Questo tema era anche al centro di Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts (1899) di H. S. Chamberlain: i Tedeschi erano i salvatori della storia mondiale e i portatori della cultura occidentale; tutte le conquiste culturali dei tempi moderni testimoniavano la fiamma del loro spirito, uno spirito temprato attraverso una lotta incessante. Gli ariani esistevano in mezzo a ‟un caos di razze", ma c'era una razza che era rimasta pura ed era la principale antagonista nella lotta senza fine per la sopravvivenza. Gli Ebrei simboleggiavano il contrario di tutto ciò che agli ariani era caro: erano incapaci di pensiero e di cultura superiore, erano caratterizzati da una ferrea volontà di potenza che mancava di qualsiasi profondità metafisica. La guerra razziale di Chamberlain era una guerra totale, che poteva terminare soltanto con lo sterminio o con la vittoria. Gli ariani avevano bisogno di un condottiero allo scopo di trionfare sugli Ebrei, e verso la fine della propria vita Chamberlain credette di averlo trovato in Hitler. Die Grundiagen des neunzehnten Jahrhunderts è un classico del pensiero razzistico; esso non ebbe solo vasta diffusione ma rappresentò la summa del razzismo ottocentesco.
L'importanza attribuita da Chamberlain ai fattori culturali e spirituali trasferiva ancora una volta il pensiero razzistico dalla scienza al mito.
Anche il popolare Rembrandt als Erzieher (1890) di J. Langbehn concorse a favorire l'adozione di una religione razziale. I Tedeschi dovevano diventare realmente creativi, il che comportava l'adozione di una religione ariana la quale, in questo caso, combinava elementi teosofici con lo swedenborgianesimo. Per Langbehn lo spirito vitale discendeva dal cosmo al Volk. Il razzismo veniva trasformato in un misticismo basato sui movimenti occultistici. Né Langbehn era solo, poiché a Monaco, dopo la fine del secolo, un intero gruppo di filosofi ‛cosmici' (tra cui L. Klages) formulò idee simili. Per loro, il sangue ariano possedeva una particolare qualità che l'univa al mondo extrasensibile e gli consentiva di riflettere il cosmo.
La concezione della guerra tra le razze come guerra della spiritualità contro il materialismo dava slancio, con il suo manicheismo, ai voli mistici. Questo tipo di razzismo ebbe maggior fortuna nelle regioni protestanti che in quelle cattoliche. La teologia cattolica presentava una ben definita visione del mondo imposta dalla propria gerarchia. Il protestantesimo aveva invece una teologia meno chiaramente definita ed era legato allo Stato secolare. Era tuttavia soltanto una questione di grado: ad esempio, la maggioranza dei cattolici e dei protestanti si conformarono alla fine alla politica razziale del nazionalsocialismo, mentre d'altro canto una posizione contraria fu assunta da ecclesiastici eminenti di entrambe le confessioni.
Coloro che vennero a contatto con questo razzismo mistico avanti la prima guerra mondiale dovevano farsene sostenitori nel dopoguerra. Tra questi Adolf Hitler fu certamente il più importante. La creazione dell'ariano non venne più discussa, da questi razzisti, in termini di poligenismo, ma fu considerata come il prodotto di una gestazione divina, una scossa elettrica prodotta dalla forza vitale del cosmo. Ci furono, però, altri razzisti che tentarono di mantenere il contatto con i fondamenti scientifici del razzismo. Il darwinismo sociale favorì l'interesse all'eugenetica; la razza pura doveva infatti riprodursi nel modo giusto, per assicurarsi la sopravvivenza nella lotta universale dell'uomo e della natura.
In Inghilterra Fr. Galton credeva che la natura stessa assicurasse la sopravvivenza dei più idonei, e che l'interferenza umana per proteggere il debole e l'infermo avrebbe portato al declino della razza. Egli usò il termine razza per descrivere le caratteristiche ereditarie: una razza che era riuscita a sopravvivere e a produrre i portatori di una cultura superiore doveva essere protetta e favorita dallo Stato. Galton fu il padre dell'eugenetica razziale, poi ulteriormente elaborata dal suo discepolo K. Pearson. L'eugenetica di Galton non era però esclusivista: coloro che presentavano qualità desiderabili erano bene accetti, qualunque fosse la loro origine. G. Vacher de Lapouge (L'Aryen. Son rôle sociale, 1890) associò l'asserita necessità di un'eugenetica con l'ideale, sostenuto da Gobineau, della superiorità ariana. Ma fu soprattutto in Germania che una siffatta eugenetica razziale divenne popolare. Sistemi mai usati prima furono escogitati per permettere agli ariani di riprodursi in condizioni ideali. Il culmine di questo sviluppo si ebbe nella Germania nazista, con il tentativo delle SS di assicurare la purezza razziale attraverso l'accoppiamento controllato di autentici e selezionati partners ariani (Lebensborn).
Programmi del genere prevedevano anche l'eutanasia, che i nazisti dovevano praticare in seguito. Divenne un luogo comune dell'eugenetica razziale il principio che, nell'interesse della sopravvivenza razziale, il malato incurabile, il pazzo o il fisicamente deforme dovessero essere sterminati. Costoro rappresentavano la degenerazione della razza superiore, degenerazione di solito associata con i matrimoni misti. I razzisti derivarono il concetto di ‛degenerazione' da psichiatri come B. A. Morel e C. Lombroso, i quali credevano che certe deformazioni fisiche fossero sintomi di una personalità degenere. Attraverso l'eugenetica, lo stereotipo ariano divenne una ‛profezia che si autoadempie': se la razza non lo rifletteva, allora le sue file dovevano essere purgate finché il tipo ideale non predominasse.
Questi sviluppi del razzismo durante la seconda metà dell'Ottocento furono importati anche negli Stati Uniti, oltreché in Europa. La fine del secolo vide l'arrivo, in America, di ondate di immigranti dall'Europa centrale e meridionale. Le teorie razziali, che erano già state applicate ai Negri americani, furono adesso ampliate per ricomprendervi tutti coloro che non erano di discendenza anglosassone. In maniera abbastanza tipica, M. Grant scrisse il suo Passing of the great race (1916) allo scopo di avvertire i suoi concittadini del fatto che la nazione stava perdendo il suo carattere nordico. Questo libro è stato considerato come una svolta negli atteggiamenti americani verso la razza (v. Gossett, 1965, p. 353) ma, come la maggior parte del pensiero razzistico americano, mancava di originalità. Grant si servì sia di Gobineau che di Chamberlain per dimostrare la sua tesi.
I principi razziali fornivano alcune giustificazioni delle restrizioni nei confronti degli immigranti non provenienti da paesi dell'Europa settentrionale: la cosa riguardava quindi sia gli Asiatici che gli Europei del centro e del sud. Anche a prescindere da qualsiasi considerazione razziale, questi immigranti venivano comunque considerati - dai sindacati - responsabili di procurare manodopera a buon mercato e - dagli uomini d'affari - di rendere possibile una concorrenza sleale. Inoltre, gli immigranti dai paesi settentrionali erano inclini a sistemarsi all'interno piuttosto che nelle popolose città della costa. Il razzismo ispirò, dunque, solo certi settori di coloro che dovevano ottenere in un primo tempo l'esclusione degli Asiatici dall'immigrazione, e poi, con il National origins act (1924), l'istituzione di un sistema di quote che discriminava a favore delle nazioni del Nord. È comunque significativo che questa legislazione fosse approvata negli Stati Uniti nello stesso periodo in cui, in Europa, il razzismo diventava un movimento di massa. Le caratteristiche discriminatorie del National origins act furono eliminate gradualmente solo dopo il 1950.
La stessa epoca che assisteva all'agitazione contro l'immigrazione di massa, vide anche l'aggravarsi della forzata separazione tra Bianchi e Negri nel Sud. La separazione fisica tra le razze era la trasformazione più rivoluzionaria occorsa durante la ricostruzione dopo la guerra civile (1861-1865); rigorosa nel Sud, essa cominciò a interessare anche le città del Nord, attraverso restrizioni poste ai Negri in materia di alloggio. Le speranze di una completa emancipazione si infransero, giacché la frontiera del colore continuava a vivere nelle menti degli individui di ciascuna razza.
Dopo di allora un torrente di letteratura fondata su tutti i luoghi comuni del razzismo fu rovesciato contro i Negri. Le stesse accuse scagliate contro la ‛razza inferiore' ebraica in Europa venivano dirette anche contro i Negri. L'aspetto esteriore, le misure del cranio e la supposta mancanza di moralità ebbero la loro parte. Perfino le differenze di capigliatura e di odore, di cui gli antisemiti si servivano talvolta per documentare le differenze razziali, furono usate contro i Negri. La paura delle unioni miste conduceva al linciaggio dei negri sospetti di aver violentato donne bianche, proprio come in Europa i razzisti dovevano accusare gli Ebrei di stupro di donne ariane e i nazionalsocialisti tedeschi essere ossessionati da una simile ‛vergogna razziale' (Rassenschande). Gli Ebrei e i Negri erano dotati di una mascolinità aggressiva, che attivava le frustrazioni sessuali dei loro nemici. Tali razze inferiori, infatti, non potevano innalzarsi fino al vero amore; nel loro materialismo ogni forma di amore si trasformava in lussuria. L'appello ai timori e alle frustrazioni sessuali fu una delle armi principali di tutta la propaganda razzista. Con i loro atteggiamenti verso i Negri, i Bianchi nordamericani esemplificarono una politica che era nei desideri dei razzisti europei, ma che in Europa dovette attendere il proprio momento fino a dopo la prima guerra mondiale.
In Francia il cattolicesimo frappose ostacoli al pieno sviluppo delle dottrine razziali, specialmente tra le classi medie e superiori. L'antisemitismo era stato un fenomeno di sinistra piuttosto che di destra sin dai tempi dei primi socialisti. L'ebreo era il simbolo dello sfruttatore della classe lavoratrice, idea che doveva perdurare ancora durante l'affare Dreyfus. É. Drumont, il cui France juive (1886) rese popolare l'antisemitismo, mise in rilievo questo aspetto della supposta cospirazione ebraica per dominare la Francia. Egli scriveva sullo sfondo del fallimento della Compagnia del Canale di Panama, in cui erano coinvolti degli Ebrei.
Gli antidreyfusiani come Drumont e M. Barrès parlarono della razza francese come contrapposta alla razza ebraica, ma furono anche attenti a rendere verbalmente omaggio alla religione ebraica. Il giudaismo non doveva essere toccato, anche se gli Ebrei moderni avevano perduto ogni caratteristica religiosa nella loro spinta verso il potere economico e politico. Essi sostenevano che l'ebreo usava le dottrine marxiste della guerra di classe allo scopo di distruggere il tessuto della nazione. Come fautori di un socialismo nazionale, essi desideravano un paternalismo che comportasse una più equa distribuzione della ricchezza. I lavoratori erano l'‛anima della Francia', e il capitalismo finanziario che li opprimeva e disuniva faceva parte dell'universale cospirazione ebraica. In Germania E. Dühring in Die Judenfrage (1880) sostenne idee analoghe e patrocinò un'economia socialista basata sul principio dell'autosufficienza nazionale. Ma, abbastanza tipicamente, il suo socialismo si combinava con un esplicito razzismo, che guardava agli antichi dei germanici, che dovevano infondere nei Tedeschi il senso dell'unità nazionale e il coraggio per eliminare gli Ebrei. Un simile appello al misticismo razziale, di regola, mancava in Francia. In Europa tutti i fautori di un socialismo nazionale guardavano ai lavoratori come all'anima della nazione o almeno come a una sua parte significativa. I lavoratori venivano però considerati nella stessa luce degli artigiani medievali, che erano orgogliosi della loro arte e avevano le virtù del duro lavoro, della moderazione e della fedeltà alla gerarchia. Il concetto di un proletariato industriale, si asseriva, era un'invenzione ebraica.
L'operaio veniva incluso nella stessa categoria del contadino, che il razzismo aveva già esaltato per aver preservato i propri legami con le radici storiche della razza. I contadini avevano resistito al mutamento e avevano conservato una presunta purezza; adesso, l'operaio doveva fare altrettanto. Un siffatto socialismo nazionale era fortissimo in Francia avanti la prima guerra mondiale: in Germania e nell'Europa centrale l'epoca del suo trionfo doveva venire dopo il 1918.
L'Action française non può essere definita razzista. Ch. Maurras, il suo spirito guida, odiava gli Ebrei, i Tedeschi e gli Inglesi, ma i soliti argomenti razzisti sono assenti dalla sua concezione. La sua Francia ideale era cattolica e monarchica, e non concedeva spazio ad alcuna religione secolare. In realtà, il principale contributo francese al razzismo durante la seconda metà del sec. XIX furono i Protocolli dei savi Anziani di Sion, un falso fabbricato nel mezzo dell'affare Dreyfus. Questi Protocolli erano spacciati per il verbale di una riunione segreta dei capi dell'ebraismo internazionale nel corso della quale si sarebbe programmata la conquista del mondo attraverso l'‛astuzia e la forza'. L'effettiva fabbricazione dei Protocolli avvenne a Parigi per ordine del capo della Ochrana russa. Come membro della destra russa, egli aveva accettato in pieno le idee razziste, che dalla Germania erano emigrate verso Oriente. La stesura del testo fu però dovuta a dei Francesi (v. Cohn, 1967, p. 103).
Questo ‛documento' sembrò confermare le teorie della cospirazione, che erano diventate parte integrante del pensiero razziale e dovevano poi essere accettate da tutti i razzisti dopo la prima guerra mondiale. Negli Stati Uniti, per esempio, l'industriale H. Ford si adoperò per la diffusione dei Protocolli a partire dal 1920. L'antisemitismo divenne allora una forza significativa in quella nazione, sebbene da sempre esso fosse un elemento della lotta contro l'immigrazione incontrollata e, come in Europa, servisse a dar voce alla sempre maggiore ostilità delle regioni agrarie contro la crescita delle città. Negli anni venti gli Ebrei finirono per essere esclusi da molti aspetti della vita sociale ed economica americana. Questa discriminazione fu liquidata dopo la seconda guerra mondiale, e ciò avvenne in modo assai più completo di quanto non avvenisse con la discriminazione antinegra; in ciò ebbe parte la reazione al genocidio nazista, che incise sulla discriminazione antiebraica ma non su quella antinegra.
L'Italia costituì un'area di ristagno del pensiero razzista. Il cattolicesimo da un canto e il nazionalismo umanistico esemplificato da G. Mazzini dall'altro posero forti barriere allo sviluppo del razzismo. Certamente, l'antisemitismo cattolico esisteva in Italia come in Francia, ma non arrivò a formare una tradizione razzista.
La più efficace alleanza tra il razzismo e il nazionalismo si realizzò nell'Europa centrale e orientale. In molte nazioni, come l'Ungheria, la Romania e la Polonia, gli Ebrei costituivano il settore più ‛visibile' della classe media commerciale, e tutti i fattori sopra discussi cui si richiamavano i fautori di un socialismo nazionale potevano entrare in gioco. La presenza di una cultura dei ghetti urbani incoraggiava poi la credenza nelle differenze razziali. Per di più, era bruscamente sopravvenuta in alcune nazioni, come per esempio in Germania, la rivoluzione industriale, e le idee razziste contribuivano a mantenere una coesione nazionale che la lotta di classe sembrava sul punto di distruggere. Inoltre, tutte queste nazioni avevano territori irredenti da rivendicare. Il nazionalismo era una fortezza assediata all'interno e all'esterno, e il razzismo poteva essere adoperato per giustificare l'esclusività e la superiorità etnica.
Un siffatto nazionalismo si risolveva, in pratica, in continui tentativi di annullare l'emancipazione ebraica. In Germania sorse, durante i due ultimi decenni dell'Ottocento, tutta una serie di gruppi e di partiti politici antisemiti. Alcuni, come il Partito cristiano-sociale di A. Stoecker, che ebbe una certa importanza tra il 1878 e il 1890, erano conservatori e basavano il proprio antisemitismo sull'ortodossia protestante. Ma altri, come la Lega contadina dell'Assia (1887-1894) di O. Boeckel e le varie leghe antisemite fondate da uomini come l'infaticabile Th. Fritsch, erano di orientamento socialnazionale e razzista. Il culmine fu raggiunto nel 1893, quando i gruppi uniti dell'antisemitismo raccolsero qualcosa come 116.000 voti, dopo di che cominciò il loro rapido declino ed essi passarono il proprio tempo a litigare tra loro.
Più importante fu l'alleanza del Partito conservatore tedesco con le forze antisemite (Programma di Tivoli, 1892). Sebbene i conservatori pensassero inizialmente che occorreva escludere gli Ebrei perché la Germania era uno Stato cristiano, un'influente fazione del partito divenne razzista attraverso i suoi legami con il Bund der Landwirte (Associazione dei grandi proprietari terrieri), che aveva diffuso il razzismo per molti anni. Sino alla prima guerra mondiale i conservatori non fecero appello alla violenza; tranne che nella Russia zarista, dove ai pogrom faceva ricorso di quando in quando la politica governativa, gli appelli alla violenza si limitavano a gruppi periferici.
4. Da ideologia a movimento di massa. Il razzismo e i fascismi
Prima del 1918 il razzismo trovò un terreno favorevole anche in diverse piccole sette, che si facevano guerra l'un l'altra. Queste sette continuavano la tradizione mistica piuttosto che quella ‛scientifica' del razzismo: si interessavano all'ariano come creatura del sole, ai suoi legami col cosmo, e traevano il proprio tipo ideale da fantasie del genere anziché dall'antropologia o dalla linguistica. Lanz von Liebenfels, per esempio, destinò la sua rivista, che vendeva per le strade di Vienna, espressamente alla razza bionda al titolo ‟Ostara" (dal nome della dea germanica della primavera) seguiva infatti la dicitura ‟Zeitschrift für Blonde". E a Vienna dovette leggerla anche Hitler, il cui razzismo proveniva da fonti di questo tipo. Esso si basava sulla paura del misterioso e dell'ignoto; come ci racconta in Mein Kampf, Hitler divenne infatti un antisemita dopo aver visto gli Ebrei dell'Europa orientale nei loro strani abiti per le strade di Vienna. Lo scontro di culture, cui abbiamo accennato sopra, ebbe una parte notevole nel fornire all'incolto e ingenuo provinciale una visione del mondo. La reazione di Hitler non fu diversa da quella di Fritsch o di molti altri uomini della seconda metà dell'Ottocento, che si sentivano chiamati dalle differenze nell'aspetto esteriore a intraprendere una guerra razziale in nome dello spirito tedesco. Hitler entrò in contatto con questo tipo di razzismo avanti la prima guerra mondiale e, fino alla morte, esso rivestì un'importanza fondamentale nelle sue concezioni.
La fine della prima guerra mondiale vide la realizzazione attiva del razzismo in Europa. Sebbene le concezioni razzistiche fossero state applicate a popolazioni indigene fuori dell'Europa e avessero dato frutti negli Stati Uniti, fu proprio in Europa che il genocidio entrò nella storia come elemento della politica statale. Il pensiero razzista in se stesso non cambiava, rimaneva statico. Quando tra i razzisti sorsero controversie nel periodo tra le due guerre, esse si svolsero sempre entro il quadro delle concezioni passate. Così H. F. K. Günther, il maggiore teorico nazista del razzismo, metteva l'accento, per esempio, sulle differenze fisiche tra la razza ariana e quella ebraica, e compilò una lista dei gesti e dei tratti tipicamente ‛ebraici'. Il suo avversario L. F. Clauss (Die nordische Seele, 1932) sosteneva invece che non tanto l'aspetto esteriore era essenziale quanto le ‛qualità interiori' della razza. Clauss tentava di aggirare la difficoltà costituita dal fatto che non tutti gli ariani erano biondi, snelli e statuari. Ma questo non rappresentò mai un problema, in quanto la maggior parte dei razzisti ricorreva al concetto di ‛tipo ideale'. Ciò significava che, se tutti gli ariani possedevano alcune qualità ideali, non dovevano però presentarle tutte. Per contro, gli Ebrei e i Negri presentavano tutte le presunte ripugnanti qualità fisiche e mentali della propria razza.
Sebbene il pensiero razzista non mutasse in maniera significativa, dopo il 1918 parecchi nuovi fattori contribuirono a fornirgli una giustificazione. La psicologia cominciava a porre in risalto le differenze razziali: non la psicologia di Freud ma, per esempio, quella associata con Jung in Europa e con W. MacDougall negli Stati Uniti. MacDougall, per esempio, sosteneva che l'istinto gregario era debole nei popoli nordici e forte in quelli mediterranei. Anche prescindendo da MacDougall, un'intera scuola di psicologi americani impiegava adesso i test d'intelligenza per dimostrare le proprie tesi razziste. La psicologia di Jung tendeva a sconfinare in un simbolismo mistico; e l'accento posto su archetipi immutabili assumeva facilmente connotazioni razziali. Fu Jung ad assumersi la direzione del più importante periodico di psicologia sotto il regime nazista. Molti scienziati erano inclini a distinguere tra il laboratorio, dove rimanevano fedeli al metodo scientifico, e il mondo esterno, in cui rendevano omaggio a ogni sorta di concezioni irrazionali. La distinzione non poteva funzionare, e l'irrazionalismo con cui essi guardavano alla sfera politica e sociale portò ben presto a una fisica ariana, a una medicina ariana, a una biologia ariana.
Il successo della rivoluzione bolscevica aggiunse un'importante dimensione alla dinamica del pensiero razzista. I profughi della destra russa diffusero nell'Europa occidentale i Protocolli dei savi Anziani di Sion, e il bolscevismo fu considerato come un esempio del successo della cospirazione mondiale ebraica. Gli Ebrei erano sempre stati accusati di infrangere la stabilità del mondo dei Gentili, e adesso la cospirazione ebraico-comunista divenne un luogo comune del pensiero razzista.
Tuttavia, tra le novità del razzismo dopo la guerra, l'elemento cruciale fu rappresentato dalla sua crescita come movimento di massa. La cosa si verificò tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. Ciò che M. Grant aveva sostenuto a un livello accademico, adesso Th. L. Stoddard lo divulgava per tutti gli Stati Uniti attraverso qualcosa come 22 libri e numerosi articoli. La battaglia per salvare la razza nordica doveva essere combattuta. Il Ku Klux Klan, che assunse su di sé questo compito, cominciò a progredire rapidamente, e nel 1923 i membri della setta venivano calcolati tra i tre e i sei milioni. Più importante fu la penetrazione delle idee razziste nell'establishment, assediato dai problemi dell'immigrazione e dalla pressione degli Stati del Sud. Il National origins act del 1924 fu, almeno in parte, il risultato dello slancio preso dal razzismo dopo la guerra. Ma, diversamente dall'Europa, non si costituì nessuno specifico movimento di massa razzista che tentasse di conquistare il potere politico. Il razzismo fu in larga misura integrato nella struttura bipartitica, sebbene in ciascun partito esistessero oppositori verso concezioni siffatte. Sinora, non c'è stato spazio per una politica razziale separata e diretta contro l'establishment.
Fu in Europa che il razzismo come movimento di massa tentò realmente di conquistare il potere. L'antropologia e la linguistica continuarono a svolgere un certo ruolo, ma quello che venne alla ribalta fu l'elemento mistico del razzismo. Esso si prestava meglio al simbolismo associato con la propaganda e le riunioni di massa. Hitler credeva in una ‛scienza segreta' che era la vera conoscenza; Himmler, per esempio, credeva nel ‛karma' e pensava d'essere la reincarnazione di Enrico il Leone (v. Mosse, 1964, p. 453).
Come movimento di massa il razzismo condivise comuni fondamenti con il vecchio socialismo nazionale. Entro la mistica del Volk tutti i membri erano uguali. Il liberalismo era disgregatore quanto il marxismo, e il parlamento era una forma superata di governo borghese (v. Schmitt, 1923). Il razzismo faceva proprio l'ideale, che si era sviluppato per tutto l'Ottocento, dell'eroe come condottiero politico. Da Th. Carlyle a R. Wagner, tali eroi esemplificavano nella propria persona la virilità del loro popolo. Per Wagner simili condottieri partecipavano del ‛mito' del Volk che continuava nel presente le forze vitali derivanti dal remoto passato germanico. Egli ridefinì il concetto di mito, che era stato applicato alle leggende degli antichi e ai costumi dei popoli primitivi. Il ‛mito' assurse così al rango di principio metastorico, nordico ed eterno, che dava all'uomo le sue radici. Wagner divulgò questa visione del mondo ponendo i suoi antichi eroi germanici, padri della razza, in uno scenario impressionante e spettacolare che faceva appello al romanticismo delle classi medie tedesche. Fu H. S. Chamberlain che agganciò il ‛mito' alla politica della guerra razziale, ma il bisogno di un mito siffatto era diffuso specialmente nella Germania degli anni venti. A. Rosenberg prese in considerazione diversi titoli prima di chiamare il suo libro Der Mythus des 20. Jahrhunderts (1928). Qui il ‛mito' diventava fondamentale per quella religione della razza che Rosenberg opponeva a un cristianesimo ritardatario. Dal ‛mito' di un passato immutabile il razzismo tedesco ricevette una colorazione particolare.
La giusta guida della razza si esprimeva in un capo che la rappresentasse, riunendo nella sua persona tutte le qualità associate col ‛mito' appassionato della superiorità razziale. In teoria c'era uguaglianza tra le persone, ma in pratica si stabiliva la disuguaglianza, dovuta alla gerachia delle funzioni che ciascun membro della razza adempiva su ordine del capo. Il modello del confronto di Cesare col popolo, da cui Gobineau era ossessionato, divenne l'ideale del pensiero politico razzista. Le riunioni di massa naziste (e quelle di tutti i movimenti simili nell'Europa orientale e centrale) simboleggiavano questo modello politico e divennero in realtà lo scenario di una liturgia che alla fine soppiantò le istituzioni del governo rappresentativo. Le folle di persone che si muovevano all'unisono facevano un netto contrasto con la solitudine del capo la cui figura si stagliava contro la fiamma sacra. Il nazionalsocialismo, infine, introdusse un ciclo di nuove feste nazionali basate sul mitico passato razziale, sul simbolismo solare e sugli eroi caduti. Come movimento di massa, il razzismo si appropriò per i suoi scopi della tradizionale liturgia cristiana: il responsorio cristiano si trasformò negli scambi corali tra la massa e il capo; la ‛confessione di fede' razzista era solennemente recitata. Hitler stesso faceva dipendere i suoi successi in pace e in guerra dal ‛miracolo della Divina Provvidenza'. (v. Mosse, 1974).
Dal canto suo, il paternalismo sociale, come si esplicava ad esempio nel movimento Kraft durch Freude, che organizzava il tempo libero dei lavoratori, provvedeva a fornire i riti politici. Ciò soddisfaceva molti lavoratori e s'intonava con la presunta uguaglianza di status che il razzismo concedeva, contribuendo così a mascherare la regolamentazione dittatoriale del lavoro.
La visione razzistica del mondo aveva anche un altro vantaggio. I razzisti credevano che i problemi economici si sarebbero automaticamente risolti una volta che la razza fosse giunta al potere. Il nazionalsocialismo poteva perciò perseguire una politica economica pragmatica, che doveva ben presto tradire gli interessi di quelle classi medie le quali avevano dato al movimento il proprio appoggio. Un'eccezione, a questo proposito, fu costituita dalla politica agraria. La figura del contadino fu, infatti, glorificata dal razzismo in opposizione all'urbanesimo e al modernismo. Le idee romantiche sulle virtù del lavoro agricolo ebbero un ruolo importante nello sviluppo del razzismo. Così, Hitler stabilì per legge l'ereditarietà dei poderi (Reichserbhofgesetz) e seguì una politica di facilitazioni creditizie per consentire agli agricoltori di sbarazzarsi dei debiti. Malgrado ciò, la migrazione dei contadini verso le città continuò con un ritmo sempre più accelerato.
Una volta al potere, la distanza tra la teoria e la pratica poteva essere superata attraverso il controllo imposto dalla dittatura e il pieno ricorso al paternalismo e alla religione politicizzata. Ma prima ancora che i movimenti razzisti conquistassero il potere, l'attivismo assunse un'importanza cruciale nel mantenere lo slancio iniziale. Che si trattasse del nazionalsocialismo in Germania, o delle Guardie di ferro in Romania o degli Ustascia in Croazia, un attivismo siffatto significava impegnarsi nella guerra civile. Mentre i razzisti dell'Ottocento tendevano a limitarsi alla teoria, nel dopoguerra i capi erano impegnati nel vivo della politica del proprio tempo. L'attivismo che essi esplicavano contro i loro nemici conduceva adesso a un tipo di estremismo dal quale i primi razzisti erano per lo più rifuggiti.
I nazisti delle SA cantavano apertamente del sangue ebraico che doveva gocciolare dal coltello, e i capi dei movimenti razzisti in altre nazioni richiedevano lo sterminio piuttosto che l'esclusione degli Ebrei. La ripresa dei pogrom in Romania, nel breve periodo in cui le Guardie di ferro parteciparono al potere (1940-1941), ed eccessi analoghi praticati dal fascismo razzista in Ungheria e in Croazia mostrarono con chiarezza il predominio crescente della violenza razzista.
L'intensificarsi della violenza condusse anche a una sempre maggiore ‛disumanizzazione' del nemico. La strada era stata preparata dagli atteggiamenti razzisti verso le razze primitive, che venivano ritenute più vicine alle scimmie che all'uomo. In maniera abbastanza tipica D. Eckart, che fu il mentore di Hitler nel periodo del suo ingresso nella ‛vita politica dopo la prima guerra mondiale, proclamava che nessun popolo della terra avrebbe lasciato gli Ebrei in vita se avesse potuto vedere ciò che erano e ciò che volevano. Hitler accettò pienamente - e non solo retoricamente, come Eckart - questo punto di vista, e sentenziò anch'egli che il tipo umano inferiore era più vicino alle scimmie che alle razze superiori. Allo scopo di incoraggiare i suoi uomini al genocidio, Himmler paragonava gli Ebrei a cimici e topi, animali nocivi che dovevano essere sterminati. Alla documentazione provvedeva la propaganda di massa, che mostrava le ‛tipiche' facce ebraiche accompagnate da didascalie indicanti la scarsa rassomiglianza dei volti così ritratti con quelli degli esseri umani. La schematizzazione inerente a tutto il pensiero razzista giungeva così alle sue estreme conseguenze: gli stereotipi prendevano il posto degli uomini e delle donne reali.
Svolgimenti analoghi sono rintracciabili, dopo la prima guerra mondiale, anche tra molti conservatori, che tentarono di utilizzare il razzismo allo scopo di trasformarsi in un partito politico di massa. I conservatori però, in Germania come altrove, non desideravano la violenza aperta: malgrado tutta la loro, talvolta violenta, propaganda antisemitica, essi chiedevano soltanto l'esclusione degli Ebrei dalla vita nazionale.
La richiesta di passare alla violenza aperta proveniva in larga misura dai movimenti socialisti nazionalisti che attiravano una larga parte delle classi inferiori, insieme con altri settori della popolazione. La Legione arcangelo Michele di C. Z. Codreanu (1927) con le sue Guardie di ferro fu un movimento contadino che attirava però anche i lavoratori dell'industria. Come la maggior parte dei movimenti simili nell'Europa orientale sottosviluppata, anch'esso metteva l'accento sulla natura collettiva di un cristianesimo nazionale e mistico, e vi associava la credenza nella cospirazione ebraico-comunista. La spietatezza delle Guardie di ferro trovò un esatto riscontro in Ungheria nel movimento razzista delle Croci frecciate di F. Szàlasy (1937), tra i cui membri figurava un gran numero di lavoratori dell'industria (43%). Il movimento nazionalistico degli Ustascia, nel breve periodo dello Stato croato indipendente (1941-1944), massacrò più di mezzo milione di Serbi e di Ebrei nel modo più brutale e primitivo. In Slovacchia il partito di A. Hlinka promulgò uno dei più severi codici razziali e antiebraici. Modesta fu l'opposizione in questo partito, pur largamente clericale e cattolico.
Nelle nazioni dell'Europa orientale la presunta minaccia del bolscevismo giuocò un ruolo importante nel rafforzamento dello slancio razzista. Essa fece presa tra le classi inferiori proprio in quella parte dell'Europa in cui non esistevano forti partiti socialisti; e anzi nella maggior parte di questi paesi non esistevano in generale partiti politici strutturati. Il fascismo razzista, quindi, divenne un mezzo di mobilitazione delle classi inferiori proprio nel momento in cui per la prima volta esse facevano il loro ingresso come forza nella vita politica. Nell'Europa centrale, dove esistevano forti partiti socialisti e comunisti, il fascismo tendeva a diventare un movimento delle classi medie. Cionondimeno, il nazionalsocialismo hitleriano aveva guadagnato le sue prime adesioni su larga scala tra i lavoratori dell'Austria e della Boemia (v. Bracher, 1969, p. 59). Qui non fu la minaccia bolscevica a giuocare un ruolo decisivo, ma la concorrenza rappresentata da elementi slavi come i Cechi.
In Germania, dove il nazismo fu un fenomeno delle classi medie e la ‛rispettabilità' aveva una grande importanza, il programma nazista ufficiale non chiedeva nient'altro che l'esclusione degli Ebrei dalla vita nazionale. Tale rispettabilità si associava poi in realtà alla guerra civile che le SA combattevano nelle strade. La combinazione ebbe successo. Lo slancio fu mantenuto e le classi medie che anelavano all'ordine si aggrapparono alla ostentata moderazione di Hitler nella speranza che avrebbe alla fine prevalso. In realtà, dopo la presa del potere le SA furono eliminate come forza autonoma nel movimento (1934). Il nazionalsocialismo pose in risalto le virtù della classe media, che il razzismo aveva esaltato nell'Ottocento. Ma questa rispettabilità si dimostrò soltanto una tattica mirante a suscitare un clima di indifferenza o perfino di sostegno a quel programma di genocidio che Hitler aveva in mente sin dall'inizio. Una politica di guerra razziale totale, se voleva avere successo in un paese permeato di valori borghesi, doveva d'altra parte essere attuata da un movimento che aspirasse all'appoggio delle classi medie, doveva presentarsi in modo diverso dai pogrom delle Guardie di ferro o dai linciaggi sporadici degli Stati Uniti. Simili azioni fanatiche, dirette contro individui singoli, erano ormai superate. Il nazionalsocialismo invece operava una spersonalizzazione del nemico, dopo di che poteva dirigere i suoi attacchi non più contro esseri umani, ma contro un principio del male che aveva incidentalmente assunto forma umana (v. nazionalsocialismo).
Le conseguenze del razzismo si manifestarono pienamente nel modo di attuazione del genocidio, modo contraddistinto da una sistematicità burocratica che spogliava le vittime di ogni loro caratteristica individuale. Inoltre, la tattica di Hitler richiedeva un'intensificazione graduale delle pressioni contro gli Ebrei ed evitava l'azione drastica e spettacolare. Nel frattempo, la propaganda faceva sì che la popolazione si mantenesse neutrale, o addirittura appoggiasse misure che confinavano col genocidio. La prima azione nazista di violenza su larga scala contro gli Ebrei ebbe luogo soltanto il 10 novembre del 1938, cinque anni dopo la conquista del potere, con il saccheggio di negozi e di sinagoghe. In quell'occasione, il 63% di un piccolo campione di membri del partito espresse indignazione; ma nel 1942, cioè in piena guerra, soltanto il 26% di un campione analogo dimostrò un qualche interesse per gli Ebrei, mentre il 69% si professò indifferente (v. Müller-Claudius, 1948, pp. 162-166).
Le tappe più importanti nella preparazione del genocidio sono facilmente individuabili. Essenziali furono le ‛leggi di Norimberga' (1935), in quanto non solo legalizzarono la separazione degli Ebrei dai Gentili, ma chiarirono in modo esplicito chi dovesse esser considerato ebreo, ciò che il pensiero razzista precedente non aveva definito con sufficiente precisione giuridica. In base a esse chiunque fosse interamente o anche solo per tre quarti di discendenza ebraica era ritenuto legalmente ebreo. Chi aveva due nonni ebrei veniva considerato ‛mezzo ebreo'. Tali Mischunge, cui non era concesso di unirsi né con Ebrei né con ariani, erano quindi condannati all'estinzione per mancanza di discendenza. Le ‛leggi di Norimberga' rimasero tipiche dell'impostazione giuridica del problema ebraico, impostazione che almeno in parte (in quanto, cioè, percorreva binari tradizionali) incontrò una generale accettazione. Esse definirono anche con chiarezza chi dovesse esser considerato ariano: bisognava che fossero di razza ariana entrambi i nonni. Per essere ammesso nell'élite razziale delle SS era però necessario risalire fino a un'epoca precedente all'emancipazione ebraica (1750).
Alla fase giuridica dell'azione contro gli Ebrei seguì l'arianizzazione dell'economia e la spinta all'emigrazione. Una volta di più, fu la burocrazia a tradurre in pratica questo programma. Alle prime violenze massicce si arrivò nel novembre del 1938; da allora in poi furono pubblicamente discusse misure sempre più dure, e gli Ebrei cominciarono a riempire i campi di concentramento. Inoltre, l'annessione dell'Austria (aprile 1938) con i suoi 200.000 Ebrei rendeva imperativa la necessità di risolvere la questione ebraica ‟in un modo o nell'altro". Abbastanza ovvia era l'insoddisfazione con cui si guardava all'emigrazione: era troppo lenta e non portava abbastanza denaro nelle casse del Reich. La guerra, in ogni caso, doveva segnarne la fine.
Il programma di eutanasia fu una prova generale del genocidio. Il primo settembre del 1939 Hitler ordinò l'uccisione di tutti i sofferenti di malattie inguaribili. Erano incluse in quest'ordine le persone affette da deficienza mentale o da pazzia incurabile: criteri questi che si prestavano ai maggiori abusi. Fino all'agosto del 1941 furono così massacrate circa 70.000 persone. Era, questa, eugenetica razziale applicata, e godeva dell'appoggio di rispettabili medici e psichiatri in nome della sopravvivenza della razza. In seguito alla protesta dell'episcopato cattolico e all'inquietudine diffusasi nella popolazione (l'eutanasia era difficile da tenere segreta), il programma fu ufficialmente interrotto nel 1941; in realtà esso continuò, anche se su scala molto ridotta.
Lo scoppio della guerra e le vittorie militari naziste fecero maturare il momento della ‛soluzione finale' della questione ebraica. Essa era stata preparata da lungo tempo; ora la guerra forniva uno schermo dietro al quale, si pensava, era possibile tradurla in pratica. Inoltre, le vittorie militari avevano portato altri milioni di Ebrei sotto il controllo nazista. Il 31luglio del 1941 H. Goering affidò al Sicherheitsdienst di R. Heydrich la preparazione e l'esecuzione del genocidio.
Il primo passo fu ancora una volta l'isolamento degli Ebrei, conseguito questa volta non per via giuridica, ma mediante la loro concentrazione, nell'Europa orientale, in ghetti di nuova istituzione. Nell'Europa occidentale il campo di transito prese spesso il posto del ghetto. Da questi luoghi di raccolta gli Ebrei venivano deportati nei campi di sterminio.
L'esecuzione stessa dei massacri avveniva nel modo più impersonale possibile. Certamente, in principio furono impiegati plotoni d'esecuzione ma, ben presto, si fece ricorso al gas, in carri mobili appositamente attrezzati (1941). Infine, venne istituita la camera a gas (1942), accolta con sollievo da coloro che erano coinvolti nella soluzione finale, dato ch'essa evitava ai carnefici il contatto diretto con le proprie vittime. Adesso R. Hess, il comandante di Auschwitz, poteva controllare il lavoro delle camere a gas pensando alla sua confortevole vita di famiglia. Egli ci racconta di non aver mai istituito un nesso qualsiasi tra l'esistenza della sua famiglia e i milioni di donne e bambini che mandava alla morte (v. Hess, 1963, pp. 133-134). Una simile schizofrenia morale era la logica conseguenza del razzismo: da un lato l'esaltazione della vita della classe media e dall'altro il massacro di uomini e donne ormai spogliati della loro umanità.
Le vittime erano preparate alla sottomissione dalle guardie, che ricorrevano alla guerra psicologica: umiliazione costante, incoraggiamento alla rivalità e all'odio tra le vittime stesse e mantenimento di un atteggiamento di soggezione mediante la concessione di favori che potevano significare la sopravvivenza. I nazisti tentarono di ridurre gli Ebrei allo stereotipo dell'ideologia razzista. Questa tattica fallì: i costanti tentativi di trasformare il razzismo in una profezia che si autoadempie non produssero nè un ideale ariano né uno stereotipo ebraico. Persino le armi del terrore moderno si dimostrarono incapaci di trasformare le chimere in realtà.
I nazisti fecero ogni sforzo per tenere nascosti i massacri in massa sia alle vittime che alla popolazione. In ciò non ebbero pieno successo, sebbene sia tuttora oggetto di disputa la misura in cui riuscirono a raggiungere quest'obiettivo. A quell'epoca Hitler pensava che la propaganda razzista non avesse ancora preparato la gente ad affrontare le conseguenze finali: il massacro di almeno 5.100.000 Ebrei (v. Hilberg, 1961, p. 767).
Il genocidio degli Ebrei fu accompagnato dall'applicazione di una politica diversa nei confronti dei popoli slavi. Questi ultimi dovevano essere mantenuti nel loro stato di primitivismo e analfabetismo, sprovvisti di qualsiasi cultura. I Russi e gli altri popoli dell'Europa orientale erano destinati a essere gli schiavi della razza superiore. Si applicarono a questo riguardo le teorie razziste sui popoli primitivi e ancora una volta, attraverso l'uso della forza (l'esecuzione capitale di preti e insegnanti), il mito tentò di diventare realtà.
I nazisti cercarono appoggi alla loro politica razziale nei governi dell'Europa orientale, che (ad eccezione dell'Ungheria) erano saliti al potere in seguito alle vittorie tedesche. La Germania insisteva sulla deportazione degli Ebrei come capitale prova di fedeltà, e le deportazioni continuarono anche quando interferivano con le operazioni militari. La guerra razziale aveva altrettanta importanza - e per Hitler un'importanza anche maggiore - che la guerra militare.
I dittatori conservatori, tuttavia, indietreggiarono o tergiversarono di fronte alle richieste naziste di deportazione degli Ebrei. In Romania il maresciallo Antonescu dapprima dette l'ordine di procedere a massacri e deportazioni, ma poi tornò sui suoi passi, cercando di mitigarne gli effetti. L'ammiraglio Horthy, in Ungheria, oppose resistenza alla pressione nazista fino a quando il suo paese non fu occupato. Allo stesso modo, in Occidente, il maresciallo Pétain consegnò ai nazisti gli Ebrei stranieri profughi in Francia, ma tentò di proteggere gli Ebrei francesi dalla deportazione. Le dittature reazionarie debbono essere attentamente distinte dal razzismo fascista anche prima della seconda guerra mondiale. A uomini come Dollfuss in Austria o Franco in Spagna potevano anche non piacere gli Ebrei; tuttavia per loro, come per i loro colleghi saliti al potere durante la guerra, il razzismo rappresentava qualcosa ch'era difficile accettare: si scontrava col cattolicesimo sul quale in molti casi si basava la loro ideologia e, cosa più importante, in quanto movimento capace di mobilitare le masse, minacciava i loro regimi conservatori.
In Occidente la resistenza fu più netta in quanto il razzismo non aveva mai messo radici profonde prima dell'instaurazione del predominio nazista su tutti i movimenti fascisti. Fascisti come i rexisti belgi e perfino i nazionalsocialisti olandesi erano ambivalenti nei confronti della questione ebraica. I razzisti francesi non furono mai più che un movimento politico periferico, per lo più ristretto a intellettuali come M. Rébatet (Les décombres, 1942) e R. Brasillach. Il movimento fascista di J. Doriot, il PPF (Parti Populaire Français), non solo si astenne, fino allo scoppio della guerra, dal proclamare una politica razziale ma, fino alla vittoria nazista sulla Francia, per esso era più importante l'antibolscevismo. Nell'Europa occidentale il fascismo aveva preso come modello l'Italia, e il fascismo italiano non fu razzista fino al 1938. Quando Mussolini adottò infine una politica razzista, ciò si verificò in parte perché cercava di dare nuovo slancio al suo regime ormai logoro, e in parte anche per le pressioni dei suoi nuovi alleati nazisti. Ad ogni modo, i fascisti italiani dovevano ora andare a cercare una tradizione razzista autoctona, di cui non c'erano che scarse tracce. La maggior parte degli scrittori razzisti italiani, come per es. G. Preziosi, si limitarono semplicemente ad adattare il razzismo straniero al passato romano dell'Italia. Dal canto suo Mussolini riscoprì Gobineau e restò impressionato dal compendio razzista di J. Evola (v., 1941), che tendeva a sostituire l'‛ariano mediterraneo' all'‛ariano nordico'. In realtà Evola tentò di stabilire una differenza tra un razzismo materialistico e biologico da un lato e un ‛razzismo spirituale', vicino a quello di F. L. Clauss, dall'altro. La razza per lui era una ‛idea platonica' che conduceva a quel tipo di atteggiamento aristocratico già lodato dal Gobineau. Anche se Evola non simpatizzava con lo slancio popolare del fascismo, per Mussolini un simile concetto di ‛razzismo spirituale' aveva il vantaggio della flessibilità, e conferiva al contempo una nuova dimensione al ‛nuovo tipo di uomo' che, a quanto si asseriva, il fascismo doveva creare. Il razzismo dei capi fascisti era frutto di opportunismo, e anche un antisemita di lunga data come Farinacci propagandava il pensiero razzista probabilmente senza credervi. Quando, anche per opera sua, il razzismo divenne una componente della politica del governo, lo slogan di Mussolini fu ‟discriminazione piuttosto che persecuzione" e, malgrado tutte le avversità che colpirono gli Ebrei italiani, la politica del genocidio fu realizzata soltanto sotto l'occupazione tedesca. L'opinione pubblica italiana, soprattutto, non accettò mai le idee razzistiche.
Comunque, non appena il fascismo italiano divenne il partner più debole nell'alleanza dell'Asse e Mussolini stesso ebbe adottato una politica razziale, tutto il fascismo europeo divenne razzista. A eccezione dell'Italia, i movimenti fascisti durante la guerra collaborarono alla ‛soluzione finale', e senza l'ambivalenza e le esitazioni dei dittatori reazionari.
Le nazioni che combatterono contro il nazionalsocialismo nella seconda guerra mondiale erano unite nel condannare il razzismo. L'Inghilterra aveva sempre stornato i propri impulsi razzisti verso le popolazioni indigene dell'Impero. In patria, la British Union of Fascists (1932-1940) di sir O. Mosley non era mai riuscita a sfondare sul piano politico, nonostante avesse adottato il razzismo allo scopo di dare dinamica al movimento. In Russia, sebbene il vecchio antisemitismo affiorasse ogni tanto durante la guerra, la politica sovietica ufficiale lo condannava. Solo negli Stati Uniti continuava a sussistere il razzismo antinegro malgrado la condanna del razzismo nazista. Ma qui pesavano fortemente i problemi del passato.
5. Dopo la seconda guerra mondiale
Il razzismo come elemento della politica di governo cadde largamente in discredito dopo la seconda guerra mondiale. Un ‛eccezione è stata rappresentata dal Sudafrica, dove il razzismo è stato sancito e applicato ufficialmente. Il partito nazionalista era stato fondato nel 1914 allo scopo di far risorgere le tradizioni boere dell'Afrikanerdom. Durante gli anni venti le politiche discriminatorie contro i Negri furono estese all'intera nazione. Gli Afrikaner trionfarono sugli orientamenti liberali della provincia anglofona di Città del Capo. Nel corso della seconda guerra mondiale la separazione tra le razze fu sostenuta strenuamente dalla Chiesa protestante olandese del Sudafrica, la quale - non diversamente da molti cosiddetti ‛protestanti tedeschi' nel periodo nazista - concepiva la diversità di razza come frutto di un decreto divino. A partire dal 1948 il Partito nazionalista ha fatto approvare una serie di leggi che proibiscono ogni sorta di mescolanza razziale, e la popolazione negra è stata concentrata in territori separati (apartheid).
Altrove, dopo la seconda guerra mondiale, i propositi razzisti sono stati ripudiati (anche se la parola ‛razza' è rimasta d'uso frequente). Negli Stati Uniti, sia la Corte suprema che il governo stesso hanno affrontato il problema della discriminazione dei Negri. Il diritto al voto di tutti i cittadini era stato garantito sin dal 1870 con un emendamento costituzionale (il quindicesimo), che però è stato reso effettivo solo durante gli anni sessanta attraverso la legislazione e la campagna nel Sud per la registrazione degli aventi diritto al voto. Nello stesso tempo i giovani attivisti del movimento per i diritti civili del Nord hanno aiutato i Negri del Sud a infrangere le barriere tra Negri e Bianchi nei servizi pubblici, nei ristoranti e nei trasporti. L'integrazione è diventata la parola d'ordine, anche se, contro un sistema inveterato di separazione razziale, si è fatta strada solo lentamente.
I Negri hanno cominciato, con una certa impazienza, a organizzarsi all'interno delle loro comunità. Questi tentativi compiuti negli anni sessanta hanno un precedente in organizzazioni più antiche, come la Universal Negro Improvement Association di M. Garvey negli anni venti. Garvey pensava che ai fini di un'efficace azione di massa i Negri dovessero diventare un gruppo unito e fornito di coscienza razziale. Negli anni sessanta sono sorte diverse organizzazioni che hanno tentato di dare ai Negri una nuova coscienza della loro eredità afroamericana e del colore della loro pelle. L'accento posto sull'orgoglio e sul ‛potere nero' da leaders come Malcom X, E. Cleaver del Black Panther Party o E. Muhammad dei Black Muslims ha forse condotto all'affermazione di posizioni razziste? Molti negri hanno rivendicato la propria identità come un modo per competere con la società bianca e forzarne le barriere. Altri hanno guardato al marxismo come fonte d'ispirazione e la maggior parte dei gruppi del ‛potere nero' ha aderito incondizionatamente alle lotte sostenute dalle diverse razze del Terzo Mondo contro le grandi potenze. Se la violenza del linguaggio ha spesso simboleggiato la violenta lotta che è stata necessaria per combattere contro il razzismo bianco su tutti i fronti, il ‛potere nero' non è stato però concepito nei termini di una visione razziale del mondo.
Il pregiudizio sopravvive ancora tra molti bianchi come elemento di una lunga tradizione razzista che ai Negri è estranea. I ‛rispettabili' White Citizens Councils hanno riaffermato la propria opposizione all'integrazione, e gruppi estremisti come il piccolo National States Rights Party hanno sfruttato i Protocolli dei savi Anziani di Sion contemporaneamente contro gli Ebrei e contro i Negri. Uomini come l'ex governatore dell'Alabama G. Wallace hanno dato voce, oltreché all'opposizione contro l'integrazione, allo scontento del mondo agrario e provinciale contro l'Est urbanizzato.
Al grosso problema della sopravvivenza del razzismo non si risponde additando l'esistenza di simili esigui gruppetti negli Stati Uniti o in Europa. Piuttosto, ci dobbiamo chiedere se il razzismo, anche nei casi in cui sia stato ufficialmente ripudiato, non abbia continuato a determinare gli atteggiamenti di molti uomini nei loro rapporti reciproci. Non manca qualche prova della sopravvivenza di un razzismo non limitato a gruppi estremisti. Durante la guerra degli Algerini per l'indipendenza, alcuni coloni francesi adottarono atteggiamenti razzisti verso gli Arabi. I Rhodesiani, sollecitati dalle nazioni bianche e nere a concedere potere politico alla propria maggioranza negra, hanno trovato rifugio nelle concezioni razziste. Inoltre, l'Egitto di Nasser ha fatto ricorso, nella lotta contro Israele, a documenti come i Protocolli dei savi Anziani di Sion e a ex propagandisti nazisti. Resta però dubbio che il fenomeno abbia messo radici, dato che l'Islàm lascia ben poco spazio a concezioni razziste. Anche l'America Latina è stata contagiata dal razzismo, specie l'Argentina, che poteva vantare un violento movimento antiebraico, basato sui luoghi comuni dell'ideologia razzista (Tacuara). Possiamo aggiungere che, tra il 1945 e il 1964, almeno ventuno nuove edizioni del Mein Kampf di Hitler sono apparse negli Stati Uniti, in Francia, Spagna, Messico, Grecia, Libano e Giappone (cfr. ‟The Wiener library bulletin", 1965, XIX, 2, p. 23). Dopo la seconda guerra mondiale, la letteratura razzista ha continuato a trovare editori e lettori.
Cosa resta da dire del razzismo in Europa? I Francesi hanno dimostrato la sua sopravvivenza durante la guerra algerina per l'indipendenza, quando l'antisemitismo razzista forniva materia per una quantità di libelli e scritte murali. Inoltre, nel 1969 la città di Orlèans fu testimone di un'improvvisa sommossa popolare contro i locali commercianti ebraici, sommossa che prese lo spunto dalle leggende della contaminazione sessuale e dai Protocolli dei savi Anziani di Sion (v. Morin, 1969). Le ansie della vita moderna hanno fatto rivivere un'ideologia da molti ritenuta morta ma che, in realtà, era solo assopita sotto la superficie. Nelle regioni rurali arretrate e nelle piccole città della Germania si usa ancora la parola ‛ebreo' nel suo vecchio significato, anche se il vecchio razzismo è limitato nel complesso a piccoli gruppi periferici. Il Partito nazionale tedesco, che registrò alcuni temporanei successi elettorali sul finire degli anni sessanta, era conservatore piuttosto che razzista. Comunque, nessun movimento razzista di massa è emerso dopo la seconda guerra mondiale. È piuttosto la sopravvivenza del razzismo come religione secolare e visione del mondo, al di fuori di qualsiasi immediata cornice politica, che è in discussione.
Non possediamo statistiche attendibili circa la capacità di penetrazione degli atteggiamenti razzisti. Là dove il razzismo aveva trovato un terreno fertile nei secc. XIX e XX, tali atteggiamenti sembravano più diffusi. Tuttavia in Francia, che pure non aveva in passato favorito i movimenti razzisti, il razzismo è affiorato dopo la guerra. La Germania - la nazione che ha portato il razzismo al suo trionfo - non ha visto il suo risveglio, sebbene molti dei vecchi atteggiamenti razzisti continuino a sussistere, in attesa forse di un'epoca di crisi per riemergere. L'Europa orientale, essendo diventata comunista, ha represso gli atteggiamenti razzisti (che, peraltro, con molta probabilità sopravvivono). Anche l'Italia, che non ha avuto, in passato, una vera e propria tradizione razzista, è rimasta relativamente immune dal razzismo dopo la seconda guerra mondiale. Gli atteggiamenti razzisti si sono rivelati più pronunciati in quei paesi che, dopo la guerra, hanno avuto problemi con le minoranze.
Negli Stati Uniti il razzismo - ridotto in gran parte dell'Europa a un'esistenza sotterranea - ha determinato, seppure a livello subconscio, l'atteggiamento di larghi strati della popolazione sia al Nord che al Sud. Il Sudafrica e la Rhodesia, come abbiamo visto, si sono battuti per mantenere la supremazia bianca. La Gran Bretagna, che non aveva una radicata tradizione razzista, ha conosciuto un'ondata di razzismo in seguito all'immigrazione dall'India occidentale e dal Pakistan. Questo tipo di razzismo trova le sue radici nei problemi sociali associati alla concorrenza per l'occupazione, gli alloggi e lo status sociale. Cionondimeno, è in genere considerato sconveniente esprimere pubblicamente opinioni razziste. La moralità della classe media, che era stata sua alleata in passato, ha respinto il razzismo dopo l'esperienza nazista. Rimane però il fatto che gli atteggiamenti umani non mutano tanto rapidamente e che una visione del mondo è più facile conservarla anziché gettarla nel mucchio dei rifiuti della storia.
Lo stereotipo ha continuato a informare la mentalità di molti: è accaduto di nuovo che la struttura corporea e l'aspetto esteriore siano associati alla vera moralità e agli ideali razziali in campo estetico. Le leggendarie radici ‛storiche' hanno continuato a formare una parte vitale del nazionalismo moderno. Accade ancora che gli uomini guardino con ansia e timore alle differenze esistenti al di fuori della propria comunità e cerchino rifugio dalla crisi del modernismo nella sicurezza del simbolismo e della superiorità razziali. Un fattore di sopravvivenza può essere anche il ricordo di un razzismo che era servito a mobilitare le folle come forza politica; il razzismo era stato infatti associato a una democrazia che si contrapponeva a una presunta artificiosità e angustia del sistema parlamentare. La verità è che il razzismo diffuse la propria carica di aggressività in un mondo la cui devozione agli ideali dell'indipendenza nazionale e dell'autodeterminazione era solo apparente.
Il razzismo è definito dalla storia che lo ha prodotto. Dai suoi inizi sul terreno scientifico e storiografico nel Settecento esso è diventato, verso la metà dell'Ottocento, una visione del mondo pienamente sviluppata. I razzisti hanno celebrato il proprio trionfo nel periodo tra le due guerre mondiali, spacciandosi come difensori dei valori tradizionali. Chi può escludere che, ove tali valori (per es. la moralità o la nazionalità) siano in pericolo, il razzismo si erga ancora una volta a loro protettore? Nè può destare meraviglia che neppure gli orrori che il razzismo ha scatenato sull'umanità abbiano distrutto gli atteggiamenti da esso creati: la verità è che un movimento di tale potenza e influenza lascia la sua impronta sulla storia per molte generazioni.
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