AGILULFO, re dei Longobardi
Non longobardo di sangue, perché della stirpe dei Turingi, certo si era unito ai Longobardi quando avevano invaso l'Italia, e nelle loro schiere aveva guadagnato grande fama e raggiunto alti posti di comando, perché lo troviamo duca di Torino e cognato di Autari quando, il 5 sett. 590, questo re morì.
Il regno che Alboino aveva fondato nella penisola attraversava allora durissimi frangenti. I gravi dissensi improvvisamente scoppiati fra l'esarca Romano ed i comandanti delle truppe franche inviate al di qua delle Alpi in suo aiuto dal re Childeberto II, in conformità con gli accordi stipulati con l'imperatore Maurizio, avevano fatto fallire la grande controffensiva bizantina che, sferrata nel 590 in concomitanza con la ribellione ed il passaggio al servizio dell'impero di quasi tutti i duchi longobardi dell'Italia settentrionale, aveva costretto Autari a rinchiudersi tra le mura di Pavia. Autari aveva già avviato trattative di pace con i Franchi. Ma la situazione del trono, rimasto a una donna, pur intelligente ed energica qual era Teodelinda, la regina vedova, appariva sempre estremamente precaria.
A. si assunse il compito di risollevarne le sorti quando vi ascese per aver sposato, al principio del novembre 590, Teodelinda, ed esser stato levato re dai Longobardi, raccoltisi in assemblea a Milano, nel maggio 591. La tradizione aulica longobarda conservataci da Paolo Diacono, ma senza dubbio risalente alla perduta Historiola che dei propri tempi aveva redatto l'abate Secondo di Non, amico devoto e fido consigliere di Teodelinda, presenta il matrimonio come voluto dalla regina, accogliendo la designazione che i "prudentes", con i quali si era consultata, le avevano fatto di A. come l'uomo più adatto a reggere il regno per le sue doti così di prode guerriero come di prestanza fisica. Non è però da escludere che l'iniziativa fosse invece partita dallo stesso A. ed abbia trovato l'appoggio di altri duchi legati come lui alle antiche tradizioni germaniche ed ariane di fronte ad una regina di fede cattolica, tanto più che essa, a quanto risulta dagli studi del Bognetti, si era affidata, dopo la morte di Autari, all'opera di un ministro di stirpe romana, Paolo, dandogli pieni poteri. Nell'uno e nell'altro caso ebbe certo un gran peso la circostanza che A., per aver sposato in prime nozze una sorella di Autari, era legato da stretti vincoli di parentela col re defunto.
Nell'ambito interno del regno fondamentale era il problema dei rapporti del re con i duchi longobardi, peraltro strettamente connesso con le vicende della guerra contro i Bizantini in conseguenza delle numerose defezioni di duchi, che l'oro e le lusinghe di Costantinopoli avevano indotto a mettersi agli stipendi dell'imperatore. Nell'ambito esterno dominava il problema bellico, nel quale il fattore franco costituiva uno degli elementi determinanti. La pace con i Franchi fu una delle prime preoccupazioni di A., il quale trovava la via aperta dalle trattative che Autari aveva intavolato, e che Teodelinda, subito dopo la sua morte e certo per consiglio di Paolo, aveva ripreso. Notizia di accordi negoziati dal vescovo, Agnello, e dal duca, Evino, di Trento, si hanno già per il primo anno di regno di A.; e se la stipulazione di veri e propri trattati di pace duratura ("pax perpetua") è attestata solo dopo che, nel 596,a Childeberto II erano successi i figli Teodeberto II nell'Austrasia e Teoderico II nella Borgogna - e precisamente con Teoderico II forse subito dopo la successione, con Teodeberto II nel 604 -, il fatto che dal 591 era cessata ogni forma di collaborazione politico-militare dei Franchi con i Bizantini è la prova evidente dell'esito positivo di una continua ed intensa attività diplomatica svolta in questo senso da A. non appena salito al trono. La stipulazione del 604 ebbe particolare rilievo. Fu sigillata dal fidanzamento del bimbo nato due anni prima ad A. da Teodelinda, Adaloaldo, con la figlia di Teodeberto II; ed A., per dare notizia ufficiale al suo popolo di entrambi questi felici eventi, scelse un'occasione di grande solennità: il giorno in cui, nel luglio di quell'anno, i Longobardi, da lui convocati nell'antico circo romano di Milano, elevarono Adaloaldo a loro re, come collega del padre. La "pacis concordia cum Francis" fu successivamente rinnovata negli ultimi anni di regno di A., molto probabilmente in diretta conseguenza del mutamento intervenuto nella situazione interna dei regni franchi quando, nel 612, Teodeberto II, catturato e spogliato dei propri domini dal fratello Teoderico II, perì di morte violenta. Ma se la pace fu allora confermata, non si parlò più delle nozze preannunciate a Milano nel 604. Rimaneva dunque acquisito, comunque, il risultato essenziale della politica perseguita da A. in questo settore: l'aver definitivamente frustrato tutti gli sforzi sino allora diretti dall'impero ad ottenere l'alleanza dei re franchi contro i re longobardi, e l'aver fatto dei primi, da nemici, amici impegnati, se non altro, a mantenere una neutralità benevola.
A. mostrò la sua capacità di sfruttare prontamente le possibilità offerte dalla situazione esterna anche nel trattare con gli Avari, che costituivano allora una minaccia particolarmente sentita dall'impero ai propri confini dall'Istria alla Tracia. I Longobardi erano buoni amici degli Avari fin dagli ultimi tempi della loro residenza in Pannonia. Alboino se ne era assicurato l'aiuto con un "foedus perpetuum", quando si accingeva a sferrare contro i Gepidi la guerra che nel 567 ne abbatté per sempre la potenza; e l'anno dopo, presa la decisione di condurre il suo popolo alla conquista dell'Italia, aveva concluso un ulteriore trattato, cedendo la Pannonia, a condizione che i Longobardi vi fossero riammessi a riavere le proprie terre se in un qualunque tempo, entro un termine di duecento anni, vi avessero fatto ritorno, e che per uguale durata di tempo gli Avari si tenessero pronti ad accorrere in loro aiuto in Italia. A. stipulò un primo accordo, "pax", probabilmente intorno al 593; ed intorno al 596 l'iniziativa di una nuova "pax" partì dal can degli Avari, che inviò un'apposita ambasceria al re longobardo a Milano. Certo in forza di tali accordi, intorno al 601 A. mandò operai specializzati al can, perché questi li adibisse alla costruzione delle navi da usare nelle sue imprese di guerra contro i Bizantini nella Tracia. Con gli operai A. mandò anche un'ambasceria, che stipulò col can una "pax perpetua", indubbiamente a solenne conferma degli impegni di mutua assistenza in precedenza già assunti. Infatti allora non solo Avari e Slavi a essi soggetti si unirono ai Longobardi nell'invasione dell'Istria; ma l'ambasceria regia reduce dalla sua missione fu accompagnata da un inviato del can, il quale poi si recò nelle Gallie per informare i re franchi che se essi volevano aver pace con gli Avari dovevano conservarla anche con i Longobardi. A. evidentemente intendeva giovarsi dell'alleanza avara anche nei confronti dei Franchi perché rispettassero l'obbligo della neutralità benevola. Era una carta assai efficace: la Turingia aveva sofferto ripetute incursioni degli Avari, e l'ultima di esse era stata all'incirca contemporanea della "pax" stipulata dal can col re longobardo e della "pax perpetua" stipulata da A. con Teoderico II re di Borgogna, intorno al 596. E appare indubbiamente significativo il fatto che contingenti di Slavi forniti dal can partecipassero alla campagna condotta da A. contro i Bizantini nel 603.
Il problema bellico, una volta eliminata l'incognita della difesa del confine alpino contro invasioni provenienti da ovest e da nord, veniva ricondotto alle operazioni che avevano per obbiettivo la riconquista del terreno perduto nell'Italia settentrionale durante la fase culminante della controffensiva bizantina e delle defezioni ducali, operazioni per le quali A. era in grado non solo di concentrare tutte le forze a sua disposizione, ma anche di contare, nel caso, sul concorso degli Avari. Il re cominciò dall'affrontare i duchi ribelli ed ebbe rapidamente ragione di loro. Già nel 592 il bilancio della guerra, sotto questo Aspetto, si chiudeva in pieno attivo: vinto ed ucciso il duca dell'isola di S. Giulio nel lago d'Orta; per due volte vinto il duca di Bergamo, Gaidulfo; vinto e catturato il duca di Treviso, Ulfari; ripresi i territori dei duchi di Piacenza, di Parma e di Reggio, dei quali ignoriamo i nomi e l'ultima sorte. Alla stessa data, riprese ai Bizantini Modena e Altino, A. poteva dire di aver annullato tutti i guadagni politico-territoriali conseguiti dall'esarca Romano nella fase culminante della sua controffensiva del 590 contro Autari. Gli scacchi delle forze imperiali nell' Italia settentrionale erano indubbiamente dovuti anche al fatto che l'esarca non si trovava allora a Ravenna. Romano era impegnato a ristabilire la linea di comunicazione tra Ravenna e Roma in più punti infranta dall'attacco che contro di essa e contro Roma aveva sferrato nel 591-592 il duca di Spoleto Ariulfo - presumibilmente d'intesa col re - e che aveva determinato la caduta di località d'importanza strategica essenziale, quali Luceoli (presso Cagli), Perugia, Todi, Amelia, Orte, Bomarzo, Narni e Sutri. L'esarca pagò la loro riconquista con le perdite sofferte nella regione padana, mentre nell'Italia meridionale il duca di Benevento, Arechi I, dopo essersi messo per breve tempo al soldo dell'impero, tornava a mostrarsi ostile. D'altra parte non la vittoriosa controffensiva bizantina nella valle del Tevere, ma i sospetti, suscitati dall'atteggiamento di Ariulfo e di Arechi I, che l'uno stesse per passare, tramite Gregorio Magno, agli stipendi dell'imperatore, e l'altro, fosse propenso a defezionare di nuovo, indussero A. a condurre il suo esercito, nel 593-594, a porre il campo sotto Roma. E l'esercito riportò a nord il re non appena, al principio del 594, il papa, nelle trattative intavolate con lui, prese l'ardita decisione, per salvare Roma, d'impegnarsi perché l'impero pagasse al sovrano longobardo un tributo annuo di 500 libbre d'oro, e fece anticipare dal tesoro della Chiesa il primo versamento.
Dopo la puntata su Roma A., sotto l'influenza anche delle calde esortazioni di pace in cui non cessava di prodigarsi Gregorio Magno, lasciò che l'attività diplomatica andasse a mano a mano prevalendo su quella bellica. Morto nel 596 l'esarca Romano, deciso avversario di ogni accordo, più propenso a trattare si mostrò Callinico, che nel 597 ne prese il posto a Ravenna. Il re dovette però fronteggiare una ripresa della ribellione nella valle padana, che di nuovo soffocò rapidamente mettendone a morte i capi: il duca di Verona, Zangrulfo; il duca di Bergamo, Gaidulfo, che, alla sua terza ribellione, non ebbe questa volta grazia, ed un Warnecauso, che fu ucciso presso Pavia. Nell'autunno del 598 venne finalmente conclusa tra A. e Callinico una tregua della durata di un anno, nella quale, tra l'altro, fu confermato l'onere, a carico dell'erario imperiale, di corrispondere al re longobardo un tributo annuo di 500 libbre d'oro. La tregua fu poi prorogata sino al marzo 601; allo spirare della proroga, le ostilità furono riaperte dall'esarca, che attaccò Parma e ne trasse prigionieri a Ravenna il genero di A., Godescalco, la moglie, figlia del re, ed i figli, mentre, indubbiamente d'intesa con lui, si ribellavano i duchi di Trento, Gaidoaldo, e del Friuli, Gisulfo II. La reazione di A. fu immediata e decisa. Padova, vinta la tenace resistenza del suo presidio, venne espugnata, data alle fiamme e rasa al suolo per ordine del re, il quale lasciò tuttavia i soldati che l'avevano difesa liberi di raggiungere Ravenna. L'Istria fu invasa e devastata col concorso di contingenti di Avari e di Slavi. Nel 602 fu presa la fortezza di Monselice. Nel 603 il re assunse il comando diretto delle operazioni. Partito nel luglio da Milano, assediò, col concorso di contingenti slavi inviatigli dal can degli Avari, Cremona, che espugnò il 21 agosto e fece radere al suolo; il 13 settembre entrava in Mantova, dopo averne battuto in breccia le mura con gli arieti, ma lasciò libero il presidio di raggiungere Ravenna. La travolgente avanzata ebbe le sue immediate ripercussioni sul tratto corrispondente della linea difensiva dei Bizantini sul Po, che fu sgombrata senza combattere. Fu così definitivamente abbandonata ai Longobardi l'importante testa di ponte di Brescello, a sud-ovest di Mantova, che gli imperiali ancora tenevano sulla riva meridionale del Po, incuneata nella parte ormai perduta dell'Emilia, e per la quale tanto si era combattuto al tempo di Autari. E certo in rapporto con le vittorie di A. sui Bizantini va posto il ritorno, avvenuto all'incirca in questo tempo, dei duchi di Trento e del Friuli alla pace col re.
D'altra parte le sconfitte bizantine vanno messe in diretto rapporto con la grave crisi che aveva colpito l'alto comando imperiale nella penisola per effetto della caduta di Maurizio, ucciso e spogliato del trono a Costantinopoli nel novembre 602 da Foca. Il nuovo imperatore aveva inviato a Ravenna un altro esarca, vecchia conoscenza dell'Italia, perché era quello stesso Smaragdo che vi aveva inaugurato nel 584 la serie degli esarchi, rimanendo nella carica fino al 589. Smaragdo dovette ricorrere alla violenza per rimuovere dal suo posto Callinico; trattò con A., gli rimandò il genero con la moglie, i figli e tutti i beni, e stipulò una delle solite tregue, con scadenza all'1 apr. 605. Al suo spirare i Longobardi tornarono all'offensiva, ma questa volta nell'Italia centrale. Dei loro progressi conosciamo con certezza solo la presa di Orvieto e di Bagnoregio; ma secondo ogni probabilità l'occupazione della Tuscia era già stata iniziata nelle precedenti riprese belliche del regno di A. e raggiunse allora quella linea, foci del Mignone nel Tirreno-Tevere all'altezza della confluenza col torrente Vezza, che fino al regno di Desiderio segnò il confine tra la parte conquistata, e perciò detta Tuscia Langobardorum, e la parte meridionale rimasta all'Impero, e perciò detta Tuscia Romana.
Furono questi d'altronde gli ultimi progressi della conquista dovuti ad Agilulfo. Evidentemente, se i Bizantini non erano in grado di cimentarsi a risollevare le sorti della guerra, neppure il re riteneva conveniente continuare nello sforzo bellico. Il novembre 605 vide un'altra tregua stipulata per un anno da Smaragdo, che dovette inoltre sottostare al pagamento della cospicua somma di 12.000 solidi d'oro. La tregua fu poi prorogata per tre anni, dopo i quali A. intavolò trattative direttamente con Costantinopoli, dove mandò un suo notaio, Stabliciano, che vi strinse una nuova tregua annuale, e ritornò accompagnato da inviati di Foca, latori di doni al re. Si era ormai al 610, l'anno in cui Foca subì la stessa sorte da lui inflitta a Maurizio, in quanto il 5 ottobre Eraclio lo uccideva impadronendosi del trono imperiale. Ma né A. giudicò conveniente profittare della nuova gravissima crisi interna dell'impero; né Eraclio, impegnato contro Slavi, Avari e Persiani, era in condizioni di affrontare altresì una ripresa della guerra contro i Longobardi. A. poté quindi ottenere dal nuovo imperatore due ulteriori proroghe della tregua, ciascuna della durata di un anno. Ed è da ritenere che le sue armi ancora posavano quando egli venne a morte.
All'interno, le maggiori difficoltà provenivano dai duchi. A. riuscì a far prevalere sulla loro la propria volontà usando misure di deciso rigore, ma mostrandosi anche, quando riteneva fosse più utile, clemente. Ai casi dei duchi ribelli uccisi già ricordati va aggiunto quello di Maurizione, posto al comando di Perugia nel breve periodo dell'occupazione longobarda del 592, passato al soldo dell'esarca Romano, da questo lasciato nella stessa città con le sue funzioni militari, e catturato e giustiziato dal re durante la marcia su Roma del 593. Ma A. per ben due volte non aveva neppure destituito il duca di Bergamo Gaidulfo per due volte ribelle, che soltanto alla terza recidiva aveva trovato la morte. Così non aveva punito Gisulfo II della sua defezione nel Friuli da Autari, e con lui recidivo si era comportato come col duca ribelle di Trento, Gaidoaldo, accettando nel 603 le profferte di pace di entrambi. Ed appunto nell'informarci di quest'ultimo episodio Paolo Diacono usa, a indicare la natura dei rapporti dei due duchi col re, desumendolo certo dal contemporaneo Secondo di Non, un termine assai significativo: "societas".
I duchi longobardi, dunque, almeno i più potenti, si consideravano "socii" del loro sovrano, al quale riconoscevano perciò soltanto la qualità di una specie di "primus inter pares". Più degli altri legati al proprio particolarismo erano i duchi di Spoleto e di Benevento che, in possesso di vasti domini, traevano inoltre larghi vantaggi dalla loro peculiare posizione, dovuta non solo alla maggior lontananza dalla residenza del re, ma anche alla mancata continuità territoriale dei due ducati con il resto dell'Italia longobarda centro-settentrionale più facilmente accessibile al re.
A. mostrò sempre chiaro il proposito, anche quando aveva motivi fondati o sospetti per considerarli ribelli, di non trattare Ariulfo ed Arechi alla stessa stregua degli altri duchi. Si appagò di aver nuovamente avocato all'autorità regia, con la campagna contro Roma del 593-594,l a prerogativa di negoziare per un accordo col papa e con l'esarca; e conchiusa con Callinico la prima tregua del 598, esercitò su Ariulfo e su Arechi pressioni, mediante suoi inviati, al solo scopo che firmassero anch'essi la tregua. A., comportandosi così, finiva praticamente con l'ammettere il diritto dei due duchi a chiedergli particolari riguardi. D'altro canto, all'occupazione della Tuscia settentrionale e centrale non fu estraneo il proposito del re di prevenirne la conquista da parte del duca di Spoleto. È da ritenere che ad analoga cautela si sia attenuto A. nei confronti del duca del Friuli.
Paolo Diacono narra diffusamente, come avvenuta quasi in coincidenza con l'avvento di Eraclio al trono imperiale, di una feroce incursione condotta alla testa d'ingenti forze nel Friuli dal can degli Avari che, travolta la resistenza di Gisulfo II, caduto sul campo, mise a ferro e a fuoco e a sacco l'intero ducato, fece strage degli uomini atti alle armi, entrò nella stessa Cividale per tradimento della vedova e si ritrasse trascinando con sé, nella massa dei prigionieri, destinati ad essere uccisi, se uomini, o ad essere ridotti schiavi, se donne, i quattro figli di Gisulfo II, Cacone, Tasone, Rodoaldo e Grimoaldo. Lo stridente contrasto fra l'impresa del principe àvaro e l'alleanza che lo legava al re longobardo; la mancanza di una qualsiasi reazione da parte di quest'ultimo; il fatto che il can ebbe cura di non trasformare l'incursione, pur riuscitagli pienamente, in un'occupazione duratura, sono altrettanti motivi concorrenti a lasciar ammettere una sua segreta intesa con Agilulfo. Gisulfo II, da giovane, vivente ancora il padre Grasulfo I e quando re era ancora Autari, aveva fatto atto di sottomissione all'esarca Romano nel 590. Ad A. si era ribellato intendendosi certo con l'esarca Callinico quando questi aveva ripreso le ostilità nel 601. Nulla di strano che giudicasse l'avvento di Eraclio al posto di Foca come un'occasione da cogliere per nuove trame con i Bizantini. Si sarebbe ripetuto il caso del duca di Bergamo, Gaidulfo. A., che anche al duca del Friuli per due volte non aveva inflitto sanzioni, assai probabilmente calcolò di poter prevenire una sua terza ribellione ricorrendo agli alleati Avari senza scoprirsi direttamente, preoccupazione facilmente spiegabile se si pensa che Gisulfo II, dopo tutto, era il pronipote di Alboino.
Di un esercizio positivo da parte di A. dell'autorità regia in materia di nomine ducali abbiamo notizia, da Paolo Diacono, per un solo caso: l'invio di Arechi come successore del primo duca di Benevento, Zottone, morto nel 591.
Di recente ne ha negato l'attendibilità il Bognetti, prospettando l'ipotesi che la nomina fosse invece venuta dall'imperatore, in quanto Arechi era uno dei capi longobardi fatti transfughi dal suo oro. L'ipotesi, pur suggestiva, lascia tuttavia almeno dubbiosi quando si pensi che Paolo Diacono può anche qui aver attinto o da Secondo di Non, contemporaneo ed intimo di A. e di Teodelinda, o da tradizioni tramandate nel Friuli ed a lui ben note, perché egli stesso usciva da famiglia residente in quel ducato, e da quell'alta nobiltà usciva Arechi. Se la notizia è fededegna, tanto più grave portata va attribuita alla defezione di cui si rese colpevole Arechi appena giunto sul posto, e tanto più significativa va giudicata la tolleranza del re nei suoi riguardi. Ed anche in questo caso la spiegazione del contegno di A. è suggerita dal ricordo di Alboino: Arechi aveva infatti stretti rapporti col nipote del primo duca longobardo in Italia, Gisulfo, primo duca del Friuli e come tale primo di questo nome, perché era un suo consanguineo ed era stato l'aio dei suoi figli.
Cosa certa è, comunque, che A. del suo potere in questo settore usò non di rado in senso negativo, in quanto spesso evitò che i duchi per qualunque motivo scomparsi nei territori tornati ad obbedirgli avessero successori (in Emilia, per es., cessano di essere residenze ducali città come Piacenza e Reggio, e, probabilmente, anche Parma); e si adoperò a contenere entro i limiti di sicurezza il numero degli insediamenti di duchi nei territori di recente conquista (in tutta la Tuscia longobarda ancora nel sec. VIII è attestata con precisione l'esistenza di due soli duchi, a Lucca ed a Chiusi). In tal modo veniva sempre più estesa l'area sulla quale l'autorità sovrana poteva valersi esclusivamente dei propri organi esecutivi diretti quali erano i gastaldi regi. A. non poté tuttavia eliminare i motivi di debolezza per l'istituto monarchico connessi col persistere dei maggiori ducati periferici: Trento ed il Friuli nell'Italia longobarda nord-orientale, Spoleto e Benevento in quella centro-meridionale.
Sull'opera di governo svolta da A. le fonti non conservano notizie che permettano di fissarne i particolari nel campo economico-amministrativo. Offrono in compenso elementi che ne lasciano intravedere un aspetto della più grande importanza, sia per i suoi successivi sviluppi nell'ambito longobardo, sia per i suoi nessi con il pensiero del re longobardo su di un problema interno che egli ebbe il merito di considerare non come a sé stante, ma nei suoi addentellati con i problemi esterni: la politica da seguire nei riguardi del clero e del laicato delle popolazioni assoggettate di stirpe non longobarda e di fede cristiana non osservata secondo la confessione ariana, tenendo insieme presenti i riflessi di tale politica sui rapporti con l'Italia bizantina e con la Chiesa di Roma.
Già Alboino aveva indubbiamente tratto largo profitto dall'appassionata resistenza che nell'Italia settentrionale, quando egli vi aveva posto piede, e nell'Istria vescovi e clero, a cominciare dal patriarca di Aquileia, ancora opponevano agli ordini delle autorità imperiali ed alle ingiunzioni della Chiesa di Roma perché accettassero la condanna delle dottrine cristologiche dette "dei Tre Capitoli". I ripetuti tentativi di schiacciare l'opposizione, ricorrendo anche a misure di violenza, avevano suscitato risentimenti e timori tali, che la conquista longobarda era potuta apparire a molti dei dissidenti come un male minore, impressione che la tolleranza praticamente dimostrata verso di loro dai nuovi padroni avvalorava certamente. Ne è prova la petizione che proprio agli inizi del regno di A. ben dieci vescovi "tricapitolini" dell'Italia longobarda nord-orientale ebbero modo di far giungere a Costantinopoli. I vescovi denunciavano a Maurizio, con parole accese di sdegno, i maltrattamenti usati dagli esarchi ai patriarchi di Aquileia profughi a Grado, perché si rifiutavano di abbandonare le dottrine condannate; ed alle loro aspirazioni di un pronto ritorno, non appena definitivamente sconfitti i Longobardi, sotto il dominio imperiale, ponevano un limite preciso: l'assicurazione da parte dell'imperatore che egli, quando li avesse riavuti come suoi sudditi, li avrebbe ammessi alla sua presenza per un diretto e libero dibattito sulla materia religiosa oggetto del dissidio. Maurizio si era talmente preoccupato di questo atteggiamento e delle sue ripercussioni sui territori dell'impero limitrofi al regno longobardo, che aveva ingiunto allo stesso Gregorio Magno di mostrarsi tollerante nei confronti dei dissidenti finché fossero perdurate le incertezze della situazione italiana; ed ancora nel 599 analoghi ordini impartiva all'esarca Callinico. Evidentemente né quei vescovi delle terre occupate né l'imperatore avrebbero agito così se la linea di condotta presa da A. non fosse stata tale da incoraggiare i "tricapitolini" e da suggerire a Maurizio le maggiori cautele. Ancora più eloquente fu quanto avvenne nel 606-607, quando, morto a Grado il patriarca di Aquileia Severo, l'esarca Smaragdo, certo eseguendo gli ordini di Foca, ritornò alla maniera forte per imporre come suo successore un fautore della condanna dei "Tre Capitoli", Candidiano. Ad Aquileia, che era terra di dominio longobardo, sul lembo meridionale del ducato del Friuli, di fronte, si può dire, a Grado, si riunirono allora i "tricapitolini" e lì si diedero, nello scismatico Giovanni, un altro patriarca. È esplicitamente attestato che in ciò essi ebbero il consenso e la protezione di A. e del duca Gisulfo II. Ed al re longobardo il patriarca scismatico, non appena consacrato, indirizzò un caldo appello, incitandolo ad operare non solo in difesa e per l'incremento di quella che i "tricapitolini" proclamavano essere la vera "fides catholica", ma anche ad intervenire, quando fosse morto Candidiano, addirittura a Grado, per impedire che i suoi abitanti fossero costretti a subire la consacrazione di un nuovo patriarca sotto l'incubo di un più duro infierire da parte dei "Graeci". Si auspicava dunque che tutto il patriarcato aquileiese tornasse a raccogliersi sotto un unico metropolita, ma in condizioni tali da presupporre l'estendersi della conquista longobarda anche alle parti rimaste all'Impero. Anche in quest'auspicio si deve innegabilmente vedere un riflesso della politica adottata da A. verso i cattolici dissidenti e un chiaro indizio degli obbiettivi che con essa il re si proponeva di raggiungere.
A. dedicò le sue attenzioni anche ai "tricapitolini" di quella che era stata l'antica archidiocesi di Milano. Il suo titolare, Lorenzo, aveva aderito già da un ventennio alla condanna dei "Tre Capitoli", ma era fuggito a Genova, insieme con una parte del clero milanese, al momento dell'invasione. Quando il suo successore, Costanzo, eletto e consacrato a Genova, nel 593 fece alla sua volta atto solenne di adesione alla condanna, alcuni vescovi della sua giurisdizione metropolitana rimasti nei territori occupati, in un convegno tenuto a Brescia, decisero di staccarsi da lui se non avesse sottostato all'intimazione, che essi gli mandavano, di sconfessare, con lettera scritta e sotto vincolo di giuramento, la condanna. All'intimazione si unirono i "cives" di Brescia. Né questi ultimi né quei vescovi avrebbero certo potuto agire con tanta libertà se non avessero avuto dalla loro parte il re. Il quale, dal proprio canto, alla morte di Costanzo, non esitò nel 600 ad esercitare sue dirette pressioni sui profughi, prospettando, in una lettera ad essi diretta, la possibilità che in Milano stessa si provvedesse alla successione. È questo un altro episodio che, anche tenendo conto che a Genova ancora si poté procedere all'elezione ed alla consacrazione del nuovo arcivescovo, getta sull'atteggiamento di A. tanto maggior luce in quanto appunto Milano era la sua residenza prediletta.
Ma un simile atteggiamento può essere compreso a pieno solo se inquadrato nel clima politico-spirituale che egli aveva trovato dominante alla corte quando aveva sposato Teodelinda. La regina, cattolica e devota, era tuttavia assai sensibile a quelle suggestioni dell'alto clero "tricapitolino" che avevano guadagnato anche il suo fido e ascoltato consigliere Secondo di Non.
Certo esponente del laicato romano "tricapitolino" era quel Paolo in cui Teodelinda riponeva così illimitata fiducia da lasciargli in sostanza, durante il breve periodo della sua vedovanza, addirittura la direzione del governo. A., che aveva una sensibilità non tanto religiosa quanto, e ben più spiccata, politica, non soltanto non reagì alle idee della consorte e dei suoi amici romani, ma apprezzò subito tutti i vantaggi che ne sarebbero potuti derivare se gli fosse riuscito di usarne come una delle carte del suo gioco di re all'interno ed all'estero. Si assicurò l'assoluta fedeltà di Paolo mantenendolo al proprio fianco come ministro, e lo stesso fece con suo figlio Pietro. Si assicurò la fedeltà inoltre dell'episcopato e del clero cattolico-scismatico dell'Italia longobarda settentrionale e mirò a guadagnarsi le simpatie di quelli delle adiacenti zone dell'Italia bizantina per preparare il terreno alla conquista, mostrandosi rispettoso delle loro dottrine e pronto a difenderli anche contro le imposizioni imperiali. Assecondò lo zelo con cui Teodelinda faceva erigere basiliche, insigne tra le altre quella di S. Giovanni Battista a Monza; esaudì le preghiere da lei ripetutamente rivoltegli perché fossero restituite molte delle proprietà confiscate nei periodi più duri della conquista alle Chiese non ariane ed ai loro presuli, e ne fossero elargite di nuove, in modo che quei vescovi, in migliorate condizioni economiche e sociali, potessero risollevarsi ad un livello più degno della loro dignità. A. calcolava quindi di dare anche agli elementi più rappresentativi della popolazione italico-romana un interesse proprio a divenire validi sostenitori del trono. Gli stessi intenti guidarono certo A. a soddisfare la richiesta della consorte che il figlio nato nel 602 dalle loro nozze, Adaloaldo, il giorno di Pasqua (7 aprile) dell'anno dopo ricevesse, con grande gioia di Gregorio Magno, il battesimo secondo il rito cattolico a Monza, nella basilica appunto di S. Giovanni Battista. Il re non ostacolò in alcun modo l'intensa attività svolta per la conversione dei Longobardi nell'Italia settentrionale, si può dire sotto il patronato di Teodelinda, da missionari "tricapitolini", tra i quali fu quell'Agrippino che fu consacrato vescovo di Como, diocesi suffraganea dell'arcivescovo di Milano di stretta osservanza cattolica profugo a Genova, dal patriarca scismatico di Aquileia. Negli ultimi anni di regno A., se aveva ormai rinunciato alla conquista condotta con le armi dei suoi guerrieri, non aveva però altresì rinunciato all'idea di attirare a sé le popolazioni anche dell'Italia non ancora occupata dai Longobardi valendosi delle armi spirituali che il movimento tricapitolino gli poteva offrire, col patrocinarne la causa presso la stessa Chiesa di Roma. Per incitamento suo e di Teodelinda un grande santo irlandese, Colombano, che dalla munificenza della coppia regale aveva avuto in dono, nel 612, il terreno su cui fondare un monastero - e fu quello di Bobbio, tra i più insigni dell'alto Medio Evo - scrisse al papa Bonifazio IV (morto l'8 maggio 615) una lunga lettera in nome dei due sovrani, per esortarlo in termini caldissimi a indire un nuovo concilio che riesaminasse tutta l'annosa controversia e decidesse definitivamente se la condanna dei "Tre Capitoli" era o no fondata. La lettera di s. Colombano fu l'ultimo atto della politica svolta da A. in questo settore. Nel pensiero del re doveva portare al suo coronamento; nella realtà non poteva avere, e non ebbe, alcun seguito concreto, perché chiedeva quanto difficilmente un papa avrebbe mai accettato.
È indubbio che alla politica pro-tricapitolina concorsero principalmente suggerimenti i quali, data la loro natura, non potevano provenire se non da consiglieri romani, primi tra essi Paolo e suo figlio Pietro, e Secondo di Non, l'abate che a Teodelinda esprimeva i suoi dubbi sulla validità delle decisioni del V concilio ecumenico, e che dei re longobardi fu il primo storiografo aulico in quella Historiola di cui conosciamo l'esistenza solo perché Paolo Diacono la usò, citandola, fra le sue fonti. Non meno indubbiamente tale politica e l'influenza di chi la suggeriva infusero in A. la convinzione che era necessario dare al suo potere di re un fondamento il quale non fosse legato soltanto alle concezioni germaniche, ma si riconnettesse anche con quelle romano-bizantine della sovranità. Ne è indizio il fatto stesso che egli, come residenza regia, preferì a Pavia, dove l'avevano fissata i suoi predecessori, quella Milano, dove i Longobardi lo avevano levato re sei mesi dopo le sue nozze con Teodelinda, che era stata residenza preferita degli imperatori in Occidente del sec. IV e sede di arcivescovi cattolici. Significato ancor più eloquente ebbe il fatto che non a Pavia, ma a Milano, e nell'antico circo romano della città, A. convocò in assemblea i Longobardi, i quali, nel luglio 604, presenti gli ambasciatori di Teodeberto II, acclamarono loro re, a fianco del padre, il bimbo Adabaldo, ed ai quali egli diede l'annunzio ufficiale della "pax perpetua" stipulata con i Franchi e del fidanzamento di Adaloaldo con una figlia dello ste6so re Teodeberto.
Giustamente il Bognetti richiama per questo evento l'uso degli imperatori di presentarsi, non appena saliti al trono, al popolo raccolto per acclamare il nuovo sovrano nell'ippodromo di Costantinopoli. Né va trascurato che evidentemente un romano, e non un longobardo, era il notaio regio Stabliciano, che fu il primo ambasciatore inviato da A. a Costantinopoli, non appena vi si fu insediato nell'ottobre 610 Foca, per trattare accordi di pace direttamente con l'imperatore.
A. è fra i re longobardi di più alto rilievo. Aveva restaurato le fortune del trono all'esterno vincendo i Bizantini e negoziando con loro tregue, che avevano praticamente reso stabili i confini raggiunti dalle riconquiste e dalle conquiste del re, e che rimasero nella sostanza immutati per oltre trent'anni. All'interno aveva posto un freno al centrifughismo ducale e si era inoltre inoltrato su vie nuove nei riguardi dell'elemento cattolico italico-romano. Ma appunto queste vie nuove importavano rischi non lievi. L'influenza presa nella condotta dei pubblici affari da consiglieri romani; le concessioni elargite a Chiese ed a vescovi non ariani; le crescenti conversioni al cattolicesimo, sia pure "tricapitolino", di Longobardi mossi da sincerità di sentimenti o dal calcolo dei vantaggi che potevano ritrarre dall'entrare nelle grazie di Teodelinda, e quindi del suo regale consorte, costituivano un complesso di fatti che non potevano lasciare indifferenti i Longobardi ancora pagani, o, se cristiani, ancora legati all'arianesimo, ed erano la grande maggioranza. Si andavano profilando i motivi di una crisi che, per essere prevenuta o dominata, esigeva un sovrano di qualità almeno pari a quelle di Agilulfo. Ma la crisi scoppiò soltanto dieci anni dopo la sua morte, e fu quella che travolse Adaloaldo e, con lui, Teodelinda.
Della morte di A. ignoriamo la data precisa. Può essere posta o al principio del novembre 615 o nel maggio 616, a seconda che si considerino computati o dalle nozze con Teodelinda o dalla sua successiva proclamazione a re i venticinque anni di regno attribuitigli dalle fonti.
A., quando sposò Teodelinda, aveva già una figlia, certo natagli dalla sorella di Autari, con la quale aveva contratto un precedente matrimonio, e della quale ignoriamo il nome e la sorte, come ignoriamo il nome della loro creatura, che però conosciamo come moglie del Godescalco catturato a Parma insieme con lei e con i figli dai soldati di Callinico nel 601, morta di parto subito dopo la liberazione ed il ritorno a Parma da Ravenna alla fine del 603. A. ebbe da Teodelinda, oltre ad Adaloaldo, anche una figlia, Gundeperga, nata assai probabilmente prima di Adaloaldo, intorno al 601, la quale fu poi consorte successivamente di due sovrani longobardi, Arioaldo (625 o 626-636) e Rotari (636-656).
Fonti e Bibl.: Origo gentis Langobardorum, cap. 6; Historia Langobardorum codicis Gothani, cap. 6; Pauli Diaconi Historia Langobardorum, III, 30, 35;IV, 1-41, 47; Pauli Continuatio tertia, cap. 7, a cura di G. Waitz, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, pp. 5, 10, 110, 113 s., 116-133, 136, 207; Gregorii I Registrum epistolarum, I, 16-16b; IV, 2, 4, 33, 37; V, 34, 36; VI, 63; VII, 42; IX, 11, 44, 66, 66 s., 67, 195; X, 16; XI, 6, 21, 31, XIII, 36; XIV, 7, 12, 13, a cura di P. Ewald-L. M. Hartmann, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, I-II, Berolini 1891-1899, pp. 16-23, 234-236, 268 s., 273, 314 s., 319, 439, 490; II, pp.48 s., 70-72, 85-88, 184, 251, 266, 282, 301, 399, 425-426, 431-433; Id., Homiliarum in Ezechielem II, Praefatio e Homilia X, 24, in Migne, Patr. Lat., LXXVI, coll. 934 e 1072; lettera di Giovanni patriarca di Aquileia ad A., a cura di W. Gundlach, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, III, Berolini 1892, p. 693; lettera di Colombano ad A., in S. Columbani Opera, a cura di G. S. M. Walker, Dublini 1957, ep. V, pp. 36-56; Ionae Vita Columbani..., I, 30; II, 24, a cura di B. Krusch, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Merovingicarum, IV, Hannoverae et Lipsiae 1902, pp. 106 ss., 147; Continuatio Hauniensis Prosperi Aquitani, a cura di R. Cessi, in Arch. muratoriano, XXII (1922), p. 640; Chronicarum quae dicuntur Fredegarii Scholastici, l. IV, 13, 31, 34, 45, a cura di B. Krusch, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Merovingicarum, II, Hannoverae 1888, pp. 127, 132-134, 143 s.; Agnelli Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, capp. 101, 106, a cura di O. Holder-Egger, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Iralicarum, Hannoverae 1878, pp. 344, 348; Andreae Bergomatis Historia, cap. 1, a cura di G. Waitz, ibid., p. 222; Chronica Patriarcharum Gradensium, cap. 3, a cura di G. Waitz, ibid., p.394; Gesta abbatum Fontanellensium, cap. 3, a cura di S. Loewenfeld, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Germanicarum in usum schol., Hannoverae 1886, p. 12; Flodoardi De Christi triumphis apud Italiana, XIV, 18, in Migne, Patr. Lat., CXXXV, col. 880; Wettini De vita atque virtutibus beati Galli, I, 3 e 8, Walahfridi Strabonis Vita S. Galli, I, 3 e 8 s., a cura di B. Krusch, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Merovingicarum, IV, Hannoverae 1902, pp. 259, 261, 287, 290 s.; cataloghi dei re Longobardi a cura di G. Waitz, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, pp. 6, 195, 486, 491, 502, 504, 506 s., 521 s. Regesti: L. Bethmann-O. Holder-Egger, Langobard. Regesten, in Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, III, 2 (1878), pp. 231-235. Diplomi: Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio, I, Roma 1918, a cura di C. Cipolla, in Fonti per la Storia d'Italia, LII, doce. III-IV, pp. 84-91; J. Weise, Italien und die Langobardenherrscher von 568 bis 628, Halle 1887, pp. 145-254; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II, 1, Gotha 1900, pp. 98-116, 164-170, 197-207; II, 2, ibid. 1903, pp. 19, 44; Th. Hodgkin, Italy and her invaders, V-VI, Oxford 1916, pp. 281-287, 344-373, 381-388, 413-434, 447 s., 481 s.; 107-147; G. Romano-A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia, Milano 1940, pp. 281 s., 301-307; N. Grimaldi, S. Colombano e A., in Arch. stor. per le prov. parmensi, XXX (1930), pp. 79-115; C. G. Mor, S. Colombano e la politica ecclesiastica di A., in Bollett. stor. piacentino, XXVIII (1933), pp. 49-58; G. P. Bognetti, S. Maria "Foris Portas" di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in G. P. Bognetti, G. Chierici, A. De Capitani D'Arzago, S. Maria di Castelseprio, Milano 1948, pp. 103-289 e passim;Id., I ministri romani dei re longobardi e un'opinione di A. Manzoni, in Arch. stor. lombardo, LXXV-LXXVI (1948-1949), pp. 10-24; Id., Milano longobarda, in Storia di Milano, II, Milano 1954, pp. 104 s., 109-149, 159 s. Il Bognetti si occupa in Arch. stor. lombardo, LXXXI-LXXXII (1956), della corona del tesoro di Monza attribuita ad A., asportata dai Francesi nel 1797, poi distrutta.