CLEFI (Cleb, Clep, Clip, Cleps, Cleph, Clebus, Cleffo, Claffo), re dei Longobardi
Appartenente alla stirpe di Beleos, una delle grandi famiglie da cui i Longobardi avrebbero tratto in seguito un loro sovrano, dopo la morte di Alboino venne acclamato re dalla frazione che era insorta contro il colpo di Stato compiuto da Elmichi sul finire della primavera del 572.
La tragica fine di Alboino e il colpo di Stato, che avevano troncato a mezzo l'opera avviata dal gran re, l'unica persona capace, in quel momento, di costruire in salda compagine il nuovo Stato barbarico sorto nella penisola italiana, non erano stati eventi improvvisi; essi rappresentavano piuttosto la logica conseguenza di gravi tensioni interne e di irriducibili antagonismi fra i gruppi di potere. Gli invasori non rappresentavano un complesso etnicamente omogeneo. Con i gruppi predominanti - quello dei Longobardi e quello del Gepidi, dai primi vinti ed assimilati - erano scesi in Italia consistenti aliquote di altre genti, che si erano loro unite, more Germanico, per partecipare alla spedizione: Sassoni, Svevi, Turingi, Norici e Pannonici. A questa massa si erano aggiunti i Goti ancora presenti in Italia, che in parte erano stati incorporati nell'esercito imperiale.
Analoga mancanza di coesione presentava la struttura militare degli invasori, l'exercitus Langobardorum, articolato in gruppi di combattimento, "farae", di varia consistenza numerica, caratterizzati dalla grande mobilità e dalla larga autonomia operativa. I guerrieri, che componevano le "farae", marciavano con le loro famiglie e con i loro beni, ed esprimevano i loro capi, chiamati, con termini presi dall'organizzazione militare bizantina, "duces", "comites", "centenarii" e "decani". Secondo quanto riferisce Mario di Avenches, Alboino "in fara Italiam occupavit": a mano a mano che la conquista procedeva, cioè, a seconda delle necessità il re poneva a presidio di distretti militari o di zone strategicamente importanti, singole "farae" o singoli raggruppamenti di "farae". Ciascun gruppo etnico e ciascun nucleo combattente, era dunque portato naturalmente a condurre una propria politica, non sempre subordinata a quella tracciata dal sovrano, e a seguire il proprio particolare tornaconto, che non sempre coincideva, come è ovvio, con gli interessi del popolo longobardo. Accentuavano queste tendenze centrifughe l'inclinazione di capi e di gregari a piegarsi agli allettamenti in danaro e in onori, che potevano venir loro offerti dalle autorità imperiali della penisola, e la facilità con cui venivano quindi a patti con le locali autorità bizantine.
Nella stessa direzione politica e militare mancavano l'accordo e l'identità di vedute. Sottomessa la maggior parte della pianura padana ed iniziata l'invasione dell'Italia centrale, forse già prima della conquista di Pavia dovevano esser sorti dissensi fra i capi circa l'opportunità di proseguire nel confronto armato contro i Bizantini. La tesi, che fosse giunto il momento di cessare la lotta e di trattare con gli Imperiali, trovava autorevoli sostenitori proprio negli ambienti di corte e traeva forza sia dall'inimicizia che - espressione dei rancori e della volontà di rivincita dei Gepidi - la stessa Rosamunda nutriva nei confronti del consorte, sia dall'opposizione di gruppi di potere e di alti funzionari, ostili ad un sovrano che apparteneva ad una dinastia non nazionale, quella dei Gausii.
Tali contraddizioni, sfruttate sapientemente dall'oro e dalla diplomazia bizantina, sfociarono in un colpo di Stato col quale gli esponenti dell'opposizione, lo spatario Elmichi ed il cubicolario Peredeo, tentarono con l'appoggio del Gepidi e delle autorità imperiali di impadronirsi del potere e di imprimere un nuovo corso alla politica longobarda. Eliminato Alboino, Elmichi si proclamò re e si affrettò a legittimare la sua usurpazione sposando Rosamunda. I promotori della congiura avevano tuttavia sottovalutato lo spirito d'indipendenza degli "exercitales" longobardi e la profondità della loro devozione al sovrano assassinato: fin dal primo momento Elmichi si scontrò contro la dura reazione di una parte del popolo, decisa a non accettare passivamente il fatto compiuto.
Certo esponente della fazione ostile ad ogni accordo con i Bizantini, con ogni probabilità elevato al trono dall'esercito ancora riunito sotto le mura di Pavia, C. si assunse il pesante compito di risollevare le sorti della monarchia e dell'impresa italiana, che apparivano irrimediabilm.ente compromesse dalla repentina scomparsa di Alboino. Non era impresa facile. Si trattava di una ardua successione, sia per la statura politica e militare del predecessore, sia per le condizioni generali del popolo longobardo, su cui agivano forze e tensioni contrastanti, fra loro strettamente interdipendenti. Nell'ambito interno, pregiudiziale era il problema dell'eliminazione di Elmichi; ad esso subordinati erano sia quello dei rapporti fra il potere regio e le diverse etnie, sia quello dei rapporti fra il potere regio e i duchi longobardi, ambedue strettamente connessi - come i recenti avvenimenti avevano dimostrato - con le vicende della guerra contro i Bizantini. Nell'ambito esterno dorninava il problema bellico, nel quale l'incognita franca rappresentava, dopo gli accordi stretti con l'Impero intorno al 571, uno degli elementi determinanti. Ponendo i presupposti di un'alleanza politico-militare, il trattato di pace, che Giustino II aveva formalmente stipulato con gli inviati a Costantinopeli di Sigeberto I, re dei Franchi d'Austrasia, il franco Warmario e l'alverniate Firmino, rappresentava infatti una minaccia per la sicurezza e l'indipendenza del regno dei Longobardi in Italia.
C. agì con prontezza e decisa determinazione nell'uno e nell'altro senso. Appoggiato dall'esercito di Pavia e, in un secondo tempo (come sembra doversi dedurre dalle brevi notizie che in proposito Agnello Ravennate inserisce, desumendole da fonti più antiche, nel suo Liber pontificalis), anche da una parte di quello di Verona, cominciò con l'affrontare i propri avversari interni. Ne ebbe rapidamente ragione: già nell'agosto il confronto si chiudeva a suo vantaggio. Respinto Elmichi da Pavia, dove si era portato nel tentativo di farsi riconoscere, C. locostrinse a rinchiudersi in Verona, in cui d'altra parte era insorta la fazione ostile all'usurpatore. Assediato, incapace di controllare più a lungo la città in rivolta, Elmichi preferì abbandonare la partita. Si accordò col praefectus praetorio Italiae Longino per passare, col suo esercito, al servizio dell'Impero; quindi, dopo essersi impadronito del tesoro regio ed aver saccheggiato il palazzo che era stato di Teodorico, a bordo di una nave bizantina discese l'Adige e il Po sino a Ravenna, ponendosi sotto la protezione delle armi bizantine. Portava con sé la moglie Rosamunda e la figlia di Alboino e di Clodosvinta, Albsuinda, ancora bambina. Nella città adriatica lo raggiunsero i Gepidi e quei longobardi - probabilmente una parte dell'esercito di Verona - che avevano parteggiato per lui.
Che dietro l'assassinio di Alboino ed il colpo di Stato di Elmichi vi fossero i Bizantini è provato da una serie di dati di fatto. Secondo quanto afferma Agnello Ravennate, il praefectus praetorio Longino accolse "honorifice" i fuggiaschi, ed offrì protezione a loro e ai loro seguaci. Quando Elmichi e Rosamunda ebbero concluso tragicamente la loro avventura a Ravenna, fu ancora Longino che si occupò del tesoro longobardo e di Albsuinda, inviandoli a Costantinopoli: la principessa bambina rappresentava un pegno prezioso per Bisanzio, dato che, come figlia di Alboino, poteva avanzare diritti indiscutibili sul trono longobardo. A nome del suo esercito e del Gepidi, Elmichi aveva stipulato un accordo per mettersi al servizio dell'Impero: lo afferma esplicitamente Mario di Avenches ("... cum partem [sic] exercitus Ravennae rei publicae se tradidit") e lo dimostra la presenza in Siria, attestata dalle fonti per il 575, di un forte contingente di guerrieri longobardi agli stipendi dei Bizantini: in esso è da vedere con ogni probabilità, come pensa lo Schmidt (p. 582), proprio quella "partem exercitus" che aveva seguito a Ravenna Elmichi.
Tolti di mezzo gli autori del colpo di Stato, C. si volse ad eliminare quanti, tra i capi longobardi, avevano in qualche modo appoggiato i suoi avversari o si erano in qualche modo rifiutati di riconoscere la sua autorità e di seguire la sua politica. Tra l'agosto e il novembre non solo distrusse l'ambiente, in cui aveva potuto maturare la congiura, ma estese l'epurazione alle gerarchie minori dell'esercito e alle minori dignità di corte, ai simpatizzanti delle nuove leve dell'opposizione interna. La metodicità e la spietatezza con cui fu condotta a termine l'opera di repressione trovarono attonita eco nelle cronache coeve: "plures seniores et mer diocres ab ipso interfecti sunt", annota Mario di Avenches; mentre il più tardo Paolo Diacono sottolinea il fatto che chi non volle sottomettersi fu costretto ad abbandonare il territorio del regno. Tanta durezza ha una sua spiegazione. C. temeva che i Bizantini dessero inizio ad un'offensiva con l'appoggio dei Franchi e della dissidenza interna: voleva pertanto, prima della ripresa delle ostilità, liberarsi di ogni possibile avversario, eliminare chiunque avesse avuto la capacità di approfittare, da solo o con altri, di un possibile disordine interno provocato dallo stato di guerra per ribellarsi contro di lui. Assicuratosi in tal modo il potere, sul finire di novembre venne riconosciuto re, a Pavia, da tutti i Longobardi.
Il problema bellico, una volta eliminata l'opposizione interna e riunito l'intero popolo sotto la sua autorità, venne da C. ricondotto alle operazioni militari che avevano come obiettivo sia la difesa del confine alpino contro attacchi o invasioni provenienti da occidente e da settentrione sia la prosecuzione della conquista nell'Italia settentrionale e in quella centrale. Per tali operazioni il nuovo re fu in grado di concentrare tutte le forze a sua disposizione. Nei diciotto mesi del suo breve regno l'occupazione della penisola venne portata avanti violentemente e con decisione: la presenza e l'attività militare dei Longobardi nella Tuscia suburbicaria, nella Valeria, nel territorio di Norcia, nel Piceno, nel Sannio e nelle zone settentrionali della Campania tra il 572 ed il 574 sono attestate senza possibilità di dubbio dalle fonti a noi note. Per quanto riguardava il confine occidentale del regno, C. tnirò ad assicurarsi, con una serie di spedizioni militari, il possesso delle grandi vie di comunicazione e dei valichi, che collegavano la pianura padana alla Gallia sudorientale: la valle di Susa, con i passi del Moncenisio e del Monginevro, e la Valle d'Aosta, con i passi del Piccolo e del Gran San Bernardo.
Secondo quanto riferisce lo Pseudo-Fredegario, era stato appena proclamato re quando, nell'estate del 572, lanciò i suoi guerrieri in un'incursione contro i territori di dominio franco al di là delle Alpi: affrontati da un esercito burgundo condotto dal "patricius" Amato, i Longobardi lo annientarono in una sanguinosa battaglia campale, nella quale trovò la morte lo stesso Amato. Quindi, sottoposta a saccheggio la regione, rientrarono in Italia "onerati praeda". L'anno successivo una seconda incursione, compiuta da un grosso contingente longobardo che era penetrato in territorio franco attraverso il Monginevro e che era disceso lungo la valle della Durance, venne bloccato a "Mustiae Calmes", località d'incerta identificazione, ma da porsi nei pressi di Embrun (Hautes-Alpes), da Eunio Mummolo, il successore di Amato nella carica di "patricius". Lo scontro fu violentissimo: pochi i longobardi che riuscirono a scampare alla morte o alla prigionia. Tra le file dei Burgundi si batterono validamente i vescovi Salonio di Embrun e Sagittario di Gap, i quali, come riferisce sdegnato Gregorio di Tours, "galea et lurica saeculari armati, multos manibus propriis, quod peius est, interfecisse referuntur". Subito dopo, una nuova puntata offensiva venne diretta contro la Gallia sudorientale: un consistente corpo d'esercito, formato da guerrieri sassoni, penetrò in profondità, giungendo sino ad Estaublon, centro della valle dell'Asse a una ventina di chilometri a sud di Digne. Posti lì i loro accampamenti, gli invasori cominciarono a scorrere la regione "diripientes praedas, captivos abducentes". Furono affrontati da Mummolo, che, attaccata battaglia, non riuscì a cogliere la vittoria. Fu perciò costretto a intavolare trattative: promise ai Sassoni che li avrebbe lasciati tornare al di là delle Alpi senza ulteriori ostacoli, a patto che si impegnassero a staccarsi dai Longobardi e a trasferirsi in blocco nelle Gallie "ad subiectionem regum solaciumque Francorum". Su queste basi venne stipulata una tregua, "pax", e i Sassoni poterono ritirarsi; ma l'anno successivo, in esecuzione dell'accordo, abbandonarono con le loro donne, i loro figli e tutti i loro beni l'Italia e, attraverso il territorio di dominio burgundo, entrarono in quello dei Franchi d'Austrasia, diretti alle loro antiche sedi, che avevano abbandonato per seguire Alboino.
L'episodio, assai grave, trova la sua probabile spiegazione non tanto - come in genere ha ritenuto la letteratura storica - in dissensi scoppiati tra Sassoni e Longobardi circa le norme che dovevano regolare i loro rapporti reciproci nelle terre di recente occupate in Italia, quanto piuttosto nella svolta della politica franca, di cui il trattato di pace concluso due anni avanti con l'Impero era stata la prima conseguenza. I Sassoni erano infatti tributari dei re franchi d'Austrasia, e col beneplacito del loro sovrano avevano potuto partecipare alla spedizione d'Italia. Richiamandoli alle loro antiche sedi, nei suoi domini, Sigeberto I aveva dunque inteso significare che levava ai Longobardi l'appoggio e l'amicizia che aveva, a suo tempo, concesso ad Alboino.
A C. deve essere attribuito anche il piano organico di attacchi che tra il 574 e il 575 vennero portati contro il Vallese, contro la Gallia sudorientale e contro la Provenza, attacchi che miravano alla conquista di una serie di centri di notevole importanza strategica e commerciale: Saint-Maurice, la romana Agaunum, nell'alta valle del Rodano; Grenoble, nella valle dell'Isère; Embrun, sulla Durance; Valence, sul medio corso del Rodano; Avignone. Non poté vederlo attuato.
Venne infatti assassinato "a puero de suo obsequio" sul finire della primavera o agli inizi dell'estate del 574, insieme con la sua consorte, Masane. Lasciava un figlio maschio, Autari, ancora in tenera età, che gli sarebbe succeduto come re dei Longobardi; ed almeno due figlie, di cui le fonti non ci hanno tramandato il nome.
C. aveva dato prova di possedere capacità di prim'ordine come uomo politico e come guerriero. Aveva affrontato con energia e chiarezza di idee una situazione che sembrava irrimediabilmente compromessa e l'aveva saputa volgere a vantaggio dell'impresa italiana avviata da Alboino. La stessa violenza, con cui aveva colpito quanti avevano sostenuto, in modo più o meno aperto, gli autori del colpo di Stato; le stesse secessioni dei Gepidi e dei Sassoni passati gli uni al servizio dell'Impero, tornati gli altri sotto i loro antichi sovrani, nei luoghi del loro antico insediamento, avevano in realtà avuto come effetto quello di riunire in una più omogenea compagine il nuovo Stato germanico, che si andava formando nella penisola italiana. C. aveva in tal modo salvato l'indipendenza del suo popolo; aveva permesso a quest'ultimo di superare la crisi della libertà seguita all'assassinio del suo predecessore lanciandolo nella guerra di conquista contro i territori italiani rimasti ancora sotto il dominio bizantino. Aveva saputo valutare i pericoli insiti in un'intesa dei Franchi con l'Impero e aveva cercato di prevenirli con una ben organizzata azione militare in difesa dei confini occidentali del regno. Tutte queste considerazioni rendono ragionevole l'ipotesi che dietro l'assassinio di C. vi possa essere stata la mano di Bisanzio, che aveva inteso in tal modo eliminare un re longobardo, tenace assertore della libertà del suo popolo e irriducibile nemico dell'Impero.
Delle due figlie di C., una sposò un capo turingo, il duca di Torino Agilufo, poi quarto re dei Longobardi in Italia; l'altra fu data in matrimonio a un nobile, Ansul, che morì assassinato in circostanze misteriose presso Verona, durante le feste celebrate in occasione del matrimonio di Autari con Teodelinda.
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