MANFREDI, re di Sicilia
Nacque nel 1232, figlio naturale dell'imperatore Federico II (primo di questo nome come re di Sicilia); l'identificazione della madre con Bianca, figlia della marchesa Bianca Lancia, è frutto di una tradizione posteriore, non unanimemente accettata. Federico II, che aveva già avuto da lei la figlia Costanza, la sposò, probabilmente nel 1248, legittimando così M., anche se la Curia non riconobbe mai questa legittimazione.
M. ricevette un'educazione accurata e dai colti esponenti della corte paterna fu istruito in teologia e filosofia. Nella sua giovinezza, sotto il nome di M. Lancia, godette di una certa libertà di movimento e per breve tempo (tra il 1245 e il 1247) studiò alle Università di Parigi e di Bologna. In quel periodo egli sembra essere stato fatto prigioniero dal marchese Azzo (VII) d'Este e avere stretto amicizia col cardinale Ottaviano degli Ubaldini.
Nel febbraio 1248 sfuggì, con Federico II, alla grave sconfitta di Vittoria. A fine dicembre 1248 (o all'inizio del 1249) sposò Beatrice, figlia del conte Amedeo IV di Savoia, marchesa di Saluzzo, vedova, con la quale era fidanzato già dal 21 apr. 1247. L'alleanza matrimoniale imperiale con i potenti conti di Savoia - che tramite le loro nipoti, le "quatre reines" della casa dei conti di Provenza, erano imparentati con le corti inglese e francese - costituì un elemento importante della politica imperiale in Italia. M. fu investito della Lombardia occidentale e del Regno di Arles e la sua signoria costituì quindi un anello di congiunzione tra l'Italia e l'Impero tedesco, che era sotto il dominio del suo fratellastro Corrado IV. Tommaso di Savoia assunse il vicariato generale per la Lombardia occidentale, il Piemonte e la Savoia e quindi la reggenza per Manfredi.
All'insediamento di M. non si arrivò mai perché egli accompagnò l'imperatore nel suo viaggio di ritorno verso la Puglia. Il 13 dic. 1250 M. fu presente, a Castel Fiorentino, all'improvvisa morte di Federico II che egli comunicò subito a Corrado IV; fece poi trasportare il defunto a Palermo per la solenne sepoltura nel duomo (25 febbr. 1251). Secondo il testamento dell'imperatore M. si trovava al terzo posto per la successione nel Regno di Sicilia, dopo i suoi fratelli Corrado IV ed Enrico e i loro eredi. Per concessione imperiale, confermata dal testamento di Federico II, M. ricevette il Principato di Taranto e le contee di Tricarico, Montescaglioso e Gravina, dalla fonte del Bradano (presso il castello di Lagopesole) sino a Polignano a Mare e da lì sino a Porta Roseti (Roseto Capo Spulico) e anche la signoria di Monte Sant'Angelo, tradizionalmente assegnata alle regine di Sicilia. Egli era quindi il barone più potente nel Regno e disponeva di feudi strategici per il dominio della Puglia, divenuta sotto Federico II regione centrale del Regno. L'imperatore, inoltre, aveva nominato M., in assenza di Corrado IV, reggente (balius) in Italia e nel Regno di Sicilia.
La morte di Federico provocò tumulti nel Regno di Sicilia, gravato economicamente da pesanti oneri; i ribelli furono sostenuti da papa Innocenzo IV con privilegi. Il diciottenne M. assunse allora la reggenza con inattesa energia; lasciò al fratello Enrico l'amministrazione della Sicilia e della Calabria, mentre egli stesso, col marchese Bertoldo di Hohenburg, represse i tumulti in Puglia. Non ebbe però successo in Terra di Lavoro, contro Capua e Napoli. Nell'estate 1251 intraprese trattative con Innocenzo IV, che però non portarono a nulla.
Nell'autunno 1251 M. tornò in Puglia per organizzare la traversata di suo fratello Corrado IV, che ai primi di gennaio 1252 fu accolto a Siponto con onori regali. I due allora sottomisero definitivamente il Regno: Capua e Napoli capitolarono, i conti di Caserta e Aquino si arresero. I rapporti tra Corrado e M. peggiorarono però rapidamente, probabilmente a causa di attriti con gli ambiziosi Lancia, parenti di M., che Corrado IV espropriò dei beni e bandì dal Regno. Quando essi si rifugiarono presso la sorella di M., Costanza, moglie dell'imperatore di Nicea Giovanni Vatatzes, egli pretese che venissero scacciati. La posizione di M. fu indebolita dalla revoca dell'Honor di Monte Sant'Angelo e dal ridimensionamento del Principato di Taranto, mentre Corrado favoriva Bertoldo di Hohenburg e i suoi tedeschi. Per questo molti baroni locali spinsero M. a opporsi al fratello. Quando Corrado morì improvvisamente presso Lavello il 21 maggio 1254 alla vigilia della sua campagna in Italia, corse voce che M., che si trovava presso di lui, lo avesse fatto avvelenare.
Prima di morire, Corrado IV aveva nominato reggente per suo figlio Corradino non M., bensì Bertoldo di Hohenburg, ma M. costrinse quest'ultimo in breve tempo a cedergli la reggenza; sotto la pressione dei suoi seguaci, però, dovette trovare un accordo con Innocenzo IV. Il 27 sett. 1254 il papa, in quanto signore feudale del Regno, confermò M. come principe di Taranto (dandogli la contea di Montescaglioso in cambio di Andria) e gli assegnò il vicariato del Regno, esclusi gli Abruzzi, la Terra di Lavoro e l'isola di Sicilia; in luogo delle rendite del Regno M. ricevette solo un modesto appannaggio annuo. Egli, tuttavia, vide tutelata la sua posizione come reggente e il suo diritto alla successione al trono dopo Corradino. Anche per il papa questo risultato fu un compromesso, perché dovette accettare la posizione dell'odiato Svevo.
Quando Innocenzo IV l'11 ott. 1254 giunse nel Regno, a Ceprano, per tenere una Dieta a Capua, M. funse da strator e prestò anche il giuramento di fedeltà. I rapporti tra i due peggiorarono presto perché il papa, in quanto signore feudale del Regno, ne avocò a sé il governo e con la diretta concessione di innumerevoli privilegi indebolì la posizione del suo vicario. Questo ferì l'orgoglio di M. che, come Svevo, recava anche sul sigillo le sue origini imperiali ("Friderici filius", Regesta Imperii, V, 1, 4635, dicembre 1250) e reclamava la preminenza sulla nobiltà del Regno. Si giunse alla rottura quando i seguaci di M. - certamente con la sua approvazione - uccisero, fra Teano e Capua, Borrello d'Anglona, con il quale M. aveva una contesa sulla contea di Lesina, e che lo aveva offeso. Anziché discolparsi personalmente davanti al tribunale del papa, M. fuggì e, con una avventurosa cavalcata attraverso l'Appennino, il 2 novembre raggiunse Lucera inseguito dai suoi nemici. I Saraceni, fedeli amici di suo padre, lo accolsero con entusiasmo e gli consegnarono il tesoro reale. In possesso di quella cittadella sveva e delle sue temibili truppe, egli conquistò Foggia il 2 dicembre e costrinse i suoi nemici, il legato papale e Bertoldo di Hohenburg, a ritirarsi dalla Capitanata.
Innocenzo IV morì a Napoli il 7 dicembre e - mentre il suo debole successore Alessandro IV il 25 marzo 1255 lanciava la scomunica contro M., i suoi parenti e i suoi seguaci e si adoperava inutilmente per riattivare la candidatura al trono di Edmondo d'Inghilterra - Corradino, il 25 apr. 1255, riconobbe come suo reggente M. che proseguì la sottomissione del Regno. Nell'accordo del 20 ag. 1255 egli costrinse il legato Ottaviano degli Ubaldini e Bertoldo di Hohenburg ad abbandonare definitivamente la Puglia con il loro esercito crociato. Le truppe di M. scacciarono nel 1255 il governatore della Sicilia e della Calabria, Pietro Ruffo, conte di Catanzaro, che si era schierato dalla parte del papa. Il magnate siciliano Enrico de Abate nel 1256 conquistò Palermo e prese prigioniero il capo delle truppe pontificie, Rufino. M. aveva così in suo potere la maggior parte del Regno.
Già il 2 febbr. 1256 nella Dieta di Barletta M. poté regolare i conti con i suoi nemici: Pietro Ruffo, fuggito in esilio, fu condannato a morte e ucciso nel 1257 a Terracina per ordine di M.; suo nipote Giordano Ruffo fu accecato e morì per le ferite; Bertoldo di Hohenburg, che si era arreso a M., fu condannato al carcere a vita e comunque morì poco dopo. Del rigore di M. furono vittime anche Marino da Eboli con suo figlio Riccardo, Domenico Francesco, Tommaso da Oria, Ruggero di Morra - che fu accecato - e altri. La fama di M. divenne pertanto così inquietante che nel 1257 Riccardo di Cornovaglia mise in guardia dagli assassini di M. non solo la Curia, ma anche la corte inglese, con le quali M. manteneva rapporti. A Barletta M. ricompensò, inoltre, parenti e alleati: Galvano Lancia divenne gran maresciallo e conte del Principato di Salerno, suo fratello Federico Lancia ebbe confermata la contea di Squillace e divenne vicario per la Sicilia e la Calabria. Nei mesi successivi caddero anche le ultime resistenze al dominio di Manfredi. Nel 1257 naufragò definitivamente la candidatura inglese al trono, che comportava costi troppo elevati.
All'inizio del 1258 M. intraprese il grande viaggio verso la Sicilia che nel 1257 aveva dovuto interrompere, forse a causa di una malattia. In quel tempo si diffuse la voce che Corradino era morto; M., secondo la diffusa opinione all'origine di tale voce, ne approfittò per realizzare le sue aspirazioni al trono. L'incoronazione di M. a re di Sicilia ebbe luogo domenica 11 ag. 1258, nel duomo di Palermo. Con la scelta della chiesa - tradizionale sede delle incoronazioni e anche luogo di sepoltura dei sovrani di Sicilia - M. dimostrò la continuità e la legittimità del suo regno anche con una cerimonia di tipo tradizionale. La sacra unzione di M., ancora colpito da scomunica, fu compiuta dall'arcivescovo Rainaldo di Agrigento che celebrò anche la messa dell'incoronazione; fu incoronato dagli arcivescovi Cesario di Salerno, Anselmo di Acerenza e Benvenuto di Monreale, assistenti furono l'arcivescovo di Sorrento e l'abate Riccardo di Montecassino. Tutti questi furono scomunicati dal papa il 10 apr. 1259, come anche i più stretti consiglieri di M., il conte Riccardo di Caserta, Tommaso d'Aquino conte di Acerra, Federico e Galvano Lancia. Poiché non tutti i nobili e gli ecclesiastici avevano risposto alla chiamata all'incoronazione e molti anche a Palermo cercarono di sottrarsi alla partecipazione, fu chiaro che, nonostante il giuramento di fedeltà e i sigilli apposti all'atto di incoronazione, M. per una vasta cerchia era un usurpatore sicché il Regno era diviso.
Dopo la definitiva rottura col papa e con Corradino, M. per rafforzare il suo potere in Italia intensificò il sostegno che già da tempo accordava ai ghibellini. Rinnovò i suoi buoni rapporti con Brancaleone Andalò, nel maggio 1257 nuovamente eletto senatore di Roma; Siena e i ghibellini fiorentini esiliati ricevettero il suo aiuto e, nel luglio 1258, M. appoggiò il tentativo di colpo di Stato ghibellino a Firenze di Ottaviano degli Ubaldini. Nel 1258 inviò truppe in Toscana e alla fine dell'anno Giordano Agliano, suo parente, vicario generale della Toscana, si insediò a Siena. Dal 1257 M. sostenne militarmente con successo Fermo e Jesi. Nel 1258 stanziò truppe a Piacenza, a disposizione del suo parente Ubertino de Andito, e rafforzò gli antichi rapporti col marchese Oberto Pelavicino che nel 1258 confermò vicario generale imperiale in Lombardia.
Le città marinare di Genova (luglio 1257) e Venezia (settembre) strinsero con lui accordi con i quali assicuravano il loro aiuto a M. in cambio di numerosi privilegi commerciali e nuovi insediamenti nel Regno; Venezia gli restituì gioielli del valore di 25.000 lire d'argento che Bertoldo di Hohenburg aveva depositato lì e Genova gli consegnò un trono che a suo tempo Federico II aveva lasciato in pegno. M. entrò così in possesso di preziose insegne del potere. Il capolavoro diplomatico che gli permise di accordarsi contemporaneamente con le due città rivali gli costò però il sostegno di Pisa.
M. fu anche patrono della grande lega ghibellina dell'Italia settentrionale realizzata l'11 giugno 1259 tra nobili e Comuni da Pelavicino che in settembre sconfisse il nemico di M., Ezzelino da Romano, morto poi per le ferite. Il 4 sett. 1260, grazie alle truppe di M., Siena inflisse ai guelfi fiorentini a Montaperti una sconfitta così dura che essi dovettero abbandonare la città ai loro nemici ghibellini. Conseguentemente anche in Toscana si formò una lega ghibellina. La Marca di Ancona era ancora ampiamente nelle mani degli Svevi. Roma manteneva buoni rapporti con M. anche dopo la morte di Brancaleone; nell'estate 1260 seguaci di M. uccisero a Roma gli inviati di Corradino presso la Curia, che intendevano contestare la posizione di Manfredi. Il loro capo fu ricompensato per questo con la contea di Catanzaro. Alla fine del 1260 M. fu finalmente eletto dai suoi seguaci senatore di Roma, ma non riuscì comunque a prendere possesso della città.
Nel Regno di Sicilia M. governò con rinforzata autorità. Già nell'autunno 1258 durante un'assemblea a Barletta, in forza del diritto personale, egli procedette alla concessione di numerosi feudi. Alla Dieta di Foggia dell'aprile 1259 stabilì nuove leggi e riformò l'amministrazione che, pur rimanendo fedele ai principî stabiliti da Federico II, fu modernizzata e resa più severa nei dettagli. Così fu regolamentato ex novo l'obbligo da parte dei funzionari di tenere libri contabili e presentare rendiconti da consegnare all'ufficio del maestro razionale allora appositamente creato. Furono allora richiesti i resoconti contabili che non erano stati presentati. Con la riforma dell'amministrazione finanziaria i camerari divennero in tutto il Regno "secreti", con ridotte competenze giurisdizionali. In pari tempo si iniziò una parziale verifica della titolarità dei feudi e degli obblighi connessi. Furono compilati un nuovo ordinamento della Cancelleria e nuovi regolamenti per i funzionari. L'archivio della corte fu portato a Melfi. Il consiglio dei familiares fu legato più strettamente al governo.
M. promosse anche lo sviluppo economico; su richiesta del suo familiare Giovanni da Procida concesse a Salerno il privilegio di tenere una fiera e di ampliare il porto. Diede impulso anche allo sviluppo di Palermo e di altre città. Nonostante l'impegno per l'efficienza e il controllo, M. si sforzò di mantenere la continuità con i suoi predecessori: i privilegi concessi da suo padre furono confermati, tutelati i diritti ereditari, anche ecclesiastici; corruzione e abusi furono eliminati, per quanto era possibile. A garanzia della continuità M. conservò i leali e fidati collaboratori di suo padre, ai quali aggiunse i suoi parenti materni che, nonostante l'avidità, non erano privi di competenza ed esperienza. Accanto ai Lancia si trovavano elementi locali, come i Maletta, i Capece, i Filangieri, i Dragona, i Rebursa.
Alla gran corte, la cerchia più ristretta dei funzionari, appartenevano: il giudice di gran corte Tommaso Gentili; il cancelliere Gualtiero di Ocra; il gran camerario Manfredi Maletta, successore del saraceno Giovanni Moro, che aveva pagato il suo tradimento con la vita; il gran maresciallo Galvano Lancia, che fu per un certo tempo anche capitano generale della parte settentrionale del Regno; il siniscalco Bartolomeo Simplex; il coppiere Giordano Agliano; l'ammiraglio Philippe Chinard di Cipro; e il maestro razionale Iozzolino de Marra, esponente dei banchieri e mercanti di Barletta e Ravello. Giudici di gran corte furono, fra gli altri, Niccolò di Trani, Riccardo di Brindisi, Jacopo di Avellino, Giovanni di Caserta e Andrea di Capua; ai notai appartenevano i magistri Niccolò de Rocca il Vecchio, Pietro de Prece e Jacopo de Tocco, che esercitò anche l'ufficio di giudice di gran corte. Al gruppo dei familiares appartenevano, oltre a quelli già ricordati, anche il medico e magister Giovanni da Procida, Goffredo di Cosenza, Gervasio di Martina e Francesco Simplex. Tramite l'unione tra grandi feudi e alte cariche i seguaci e parenti di M. favorirono il processo di feudalizzazione e oligarchizzazione del Regno. Gli stessi nemici di M. dovettero riconoscere - nonostante le lamentele per la pesante pressione fiscale - che egli governò il Regno con giustizia e mantenne la pace interna.
Fu inoltre incoraggiata la continuazione della brillante cultura di corte: le grandiose feste in occasione delle Diete avevano funzione non solo di divertimento, ma anche di integrazione tra la popolazione del Regno. Lo stesso M. si dedicò alla poesia lirica e alla musica, come anche suo zio Galvano Lancia e a corte, tra gli altri poeti d'occasione, soggiornarono anche numerosi artisti tedeschi. Dai tempi della sua giovinezza M., in abito verde, praticò anche la caccia. Lagopesole e gli altri castelli pugliesi erano i luoghi preferiti per questo intrattenimento regale.
M. uguagliò suo padre anche per l'interesse alla scienza. Rielaborò l'opera di Federico De arte venandi cum avibus aggiungendo integrazioni personali, non certo di grande importanza, perché evidentemente tempo e mezzi non bastavano per la prosecuzione delle ricerche ornitologiche con l'ampiezza di un tempo. Le integrazioni di M. sono edite nel De arte venandi cum avibus, di Federico II, a cura di C.A Willemsen, Leipzig 1942.
Nel 1255, nel corso di una malattia che mise a rischio la sua vita, tradusse dall'ebraico lo scritto pseudoaristotelico Liber de pomo (Nardi - Mazzantini). Come Federico II, M. ebbe fama di poliglotta ma rimane questione aperta, per esempio, quanto conoscesse l'arabo, visto che per i suoi rapporti con i Saraceni di Lucera nel 1254 ebbe comunque bisogno di un interprete. I suoi interessi erano estesi e comprendevano, oltre la matematica e le scienze naturali, anche la filosofia, la teologia, l'astronomia e, non ultima, l'astrologia.
Il desiderio di sapere lo spinse nel 1261 a una disputa col dotto Pietro di Ibernia sulla questione della finalità della natura. Nel 1258 o 1259 egli fece riaprire l'Università di Napoli. Presso la corte erano attivi traduttori come Bartolomeo da Messina, che tradusse molte opere soprattutto aristoteliche e pseudoaristoteliche, tra cui un trattato di ippiatria, e Stefano da Messina che tradusse lo scritto astronomico Centiloquium Hermetis. Dai fondi della biblioteca di corte, accresciuti in questo modo, l'Università di Parigi e forse anche quella di Bologna ricevettero libri in dono.
Della produzione libraria nell'ambito della corte di M. sono testimoni molti manoscritti miniati, tra i quali la cosiddetta Bibbia di Manfredi, l'operetta di Pietro da Eboli De balneis Puteolanis, presumibilmente il manoscritto sopravvissuto del Liber de pomo e soprattutto l'opera in due volumi di Federico II De arte venandi cum avibus (Biblioteca apost. Vaticana, Pal. lat., 1071, riprodotto in facsimile in De arte venandi cum avibus. Ms. Pal. Lat. 1071, a cura di C.A. Willemsen, Graz 1969).
L'opera storiografica del cosiddetto Niccolò de Jamsilla (la cronaca dalla ascesa di M. sino al 1258), nasce anch'essa nell'ambito della cultura di corte. Djemal ed-Din, ambasciatore del sultano egiziano, rimase così impressionato della cultura di M. che giunse a dedicargli un suo trattatello di logica.
Dopo la Dieta di Foggia del 1259 M. assoggettò con una breve campagna militare estiva la città dell'Aquila, come sempre ribelle, e nell'estate 1260 Erice che, dopo l'uccisione del capitano generale di Sicilia Federico Maletta, parente di M., si era ribellata con l'aiuto del papa. Il Regno era così pacificato. Le città che si erano ribellate agli Svevi ai tempi della reggenza - per avere, con privilegi papali, maggiore autonomia e tasse più basse - si sottomisero adesso al re; gli strati sociali più elevati di queste città colsero l'occasione per una ascesa sociale con l'acquisizione di cariche amministrative e di status nobiliare, come i Rufolo e i Della Marra. I vescovi e abati che erano rimasti nel Regno per la maggior parte accordarono alla fine il loro sostegno a M., anche se non sempre di loro spontanea volontà, ma spesso per opportunismo e con la segreta preoccupazione di sanzioni papali.
Fra il 1249 e il 1257 morì Beatrice, moglie di M., che nel 1249 gli aveva dato la figlia Costanza. Egli sposò quindi Elena, figlia di Michele degli Angeli, despota dell'Epiro, probabilmente all'inizio del 1258 (non come si ritenne a lungo il 2 giugno 1259) in quanto Elena fu incoronata certamente insieme con lui; portò in dote Corfù, Durazzo, Avlona e Butrinto sulla costa orientale dell'Adriatico, che M. aveva già occupato. Dal matrimonio nacquero Beatrice, Enrico, Federico e Azzolino. M. ebbe anche una figlia naturale, Flordelis. La figlia Costanza il 13 giugno 1262 sposò l'erede al trono aragonese Pietro; le nozze erano state concordate tra M. e Giacomo I d'Aragona il 28 luglio 1260, nonostante le proteste del papa.
Con questi matrimoni M. aveva esteso la sua politica dall'Italia al Mediterraneo che, dopo la separazione del Regno dall'Impero, era diventato il campo di azione favorito della politica siciliana. Nel 1259 M. sostenne il suocero nella guerra contro il nuovo signore di Nicea, Michele VIII Paleologo, ma i suoi 400 cavalieri non poterono impedire la disfatta del despota a Pelagonia. Questo cambiamento di alleanza significò la rottura con l'antico alleato e Michele VIII nel 1262 rimandò indietro in Sicilia la sorella di M., Costanza, vedova del suo predecessore.
M. ebbe buoni rapporti col mondo arabo: con gli Assassini in Siria e con l'Egitto, anche dopo il colpo di Stato dei Mamelucchi. L'emiro di Tunisi continuò a pagare il tributo.
Ai successi di M. la Curia aveva ben poco da opporre, e quando il 25 maggio 1261 Alessandro IV morì a Viterbo M. era al culmine della sua potenza. Il suo successore Urbano IV, eletto il 29 agosto, si propose di definire i rapporti nel Regno di Sicilia con l'esclusione di M., prima della realizzazione della crociata. M. nell'autunno propose al papa negoziati che furono rifiutati nonostante la mediazione dell'imperatore di Costantinopoli Baldovino II che, dopo la sua cacciata, si era avvicinato a Manfredi. Il 6 apr. 1262 M. fu convocato per il 1 agosto dal papa per essere sottoposto a un processo per eresia davanti alla Curia. M. reagì il 18 giugno con l'offerta di versare una tantum alla Curia, per il suo riconoscimento come re, l'enorme somma di 300.000 onze d'oro e 10.000 onze d'oro l'anno come tributo feudale, ma ottenne solo un rinvio del processo all'11 novembre. Questo gli diede comunque il tempo, dopo la partenza di sua figlia Costanza il 28 aprile per il matrimonio in Aragona, per combattere in Sicilia la rivolta di Giovanni de Coclearia. Questo eremita dell'Etna si spacciava per Federico II ed era sostenuto dal marchese di Catanzaro Pietro (II) Ruffo e da Urbano IV. M. catturò lo pseudo Federico e lo fece impiccare a Catania nell'estate 1262. Nel frattempo il papa dal marzo 1262 era in trattative col conte Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, per l'investitura feudale del Regno di Sicilia. Luigi IX, che aveva già rifiutato questa offerta per uno dei suoi figli, era contrario al progetto per motivi sia giuridici, sia pratici: riteneva dubbio il modo di procedere del papa e sperava evidentemente nel sostegno di M. per la crociata. Egli, come Giacomo d'Aragona, fece pressione su Urbano IV per costringerlo a intraprendere trattative con M. il quale alla fine di novembre 1262 giunse a Orvieto. Le trattative però naufragarono subito per l'inaccettabile e irrealizzabile richiesta del papa di far tornare gli esiliati e restituire loro i beni espropriati. M. tornò in Puglia e il 29 marzo 1263 il papa gli rinnovò la scomunica.
Luigi IX alla fine fece cadere l'opposizione alle trattative di suo fratello perché la Curia sostenne - mentendo - che M. era responsabile del fallimento delle trattative. Al papa servirono ancora due anni di dura lotta perché Carlo d'Angiò sottoscrivesse l'accordo per la sua investitura del Regno di Sicilia: divenne allora inevitabile che la questione del trono siciliano fosse decisa sul campo.
Le scarse fonti in proposito non registrano nulla a proposito dell'attività di M. in quel critico anno 1263: mentre le sue truppe nelle Marche difendevano la loro posizione, sembra che egli abbia proseguito la sua azione di governo. All'inizio di agosto fallì la sua candidatura all'ufficio di senatore di Roma; i Romani scelsero Carlo d'Angiò, a cui procurarono un'importante testa di ponte che egli fece dapprima governare da un vicario. In novembre M. fondò, ai piedi del Gargano, Manfredonia, al posto dell'insalubre Siponto.
In vista dell'incombente arrivo di Carlo d'Angiò, nel 1264 M. prese energiche misure a difesa del suo dominio. In primavera con la flotta diede il suo sostegno a Marsiglia che si era ribellata, senza successo, a Carlo. In aprile convocò una Dieta a Napoli. Per verificare gli obblighi feudali e passare in rassegna la disponibilità militare della nobiltà fu stabilito un nuovo catalogo dei feudi. Allo stesso tempo M. aprì l'offensiva contro Roma e Orvieto, dove risiedeva il papa, e anche contro Perugia, operazioni che furono un totale disastro. L'offensiva contro Roma rimase bloccata nel sud della Campagna. La spedizione contro Orvieto attraverso il Ducato di Spoleto fallì perché il comandante Percivalle Doria annegò nella Nera e le truppe pontificie costrinsero il suo esercito, ormai senza guida, a ripiegare verso Rieti. Solo la guerricciola condotta da Pietro di Vico, con soldati tedeschi, nel nord della Campagna portò a M. qualche successo. Egli si limitò quindi a protestare, nel luglio, contro le trattative della Curia con Carlo d'Angiò e la calunniosa predicazione della crociata. Urbano IV però non si sentiva più sicuro a Orvieto e si affrettò a Perugia, dove giunse già ammalato e dove morì il 2 ottobre. M. ordinò nuovamente un'intensa vigilanza sulle vie di comunicazione terrestri e marittime per Roma.
Papa Clemente IV, eletto il 6 febbr. 1265, portò a conclusione le trattative con Carlo d'Angiò, che quindi sbarcò a Ostia con una piccola flotta, senza che le forze navali di M. riuscissero a intercettarlo, ed entrò in Roma il 20 o il 21 maggio 1265. Nell'inverno giunse il suo esercito, senza che i ghibellini, che stavano abbandonando M., ne ostacolassero seriamente la marcia. Il 6 genn. 1266 Carlo d'Angiò fu incoronato re di Sicilia e il 20 gennaio si mise in marcia per conquistare il Regno.
Prima dell'arrivo di Carlo, M. aveva fatto alla Curia ancora una proposta per un'intesa che però era stata respinta dal papa. Senza risultati rimase anche un tentativo di M. di ottenere ancora una volta il favore dei Romani. In un manifesto fortemente retorico del 24 maggio li incitava a scacciare Carlo come vicario e prometteva la restaurazione della Repubblica e il diritto di elezione e incoronazione dell'imperatore, negando ogni pretesa ecclesiastica a parteciparvi. Reclamò per sé la corona imperiale, come discendente di imperatori. Nel giugno 1265 M. prese altre iniziative militari: organizzò una Dieta a Benevento e mobilitò le sue truppe. In luglio mosse contro Roma passando per Carsoli, ma dovette fermarsi davanti a Tivoli, che non riuscì a conquistare. In agosto interruppe a sorpresa la concomitante spedizione nel Ducato di Spoleto e tornò in Puglia. Ora M. passò alle azioni di difesa: fece presidiare i confini del Regno, preparare i castelli alla difesa e reclutare mercenari in Germania e nel bacino del Mediterraneo. Ma la fedeltà dei suoi sudditi e dei suoi alleati, nonostante il grande impiego di mezzi, cominciava a sgretolarsi.
La strategia difensiva di M. prevedeva evidentemente di ritardare l'avanzata di Carlo e logorare le sue forze in marcia attraverso il territorio di confine scarso di risorse a causa dell'inverno, e quindi sconfiggerlo in uno scontro decisivo. All'inizio del 1266 rafforzò in modo consistente le guarnigioni nelle cittadelle di Rocca d'Arce e San Germano e si acquartierò con il grosso dell'esercito a Capua, fortificata da poco. Così sbarrò la più importante strada di ingresso nel Regno, difendendo allo stesso tempo anche l'importante porto di Napoli e tenendo sotto controllo l'irrequieta Terra di Lavoro. Questa strategia fallì, perché le fortezze di confine caddero dopo una breve resistenza e le truppe di M., battute, dovettero ritirarsi. Carlo conquistò San Germano il 12 febbraio, poi imboccò non la strada per Capua, ma quella per Benevento, per tagliare fuori dalla Puglia il nemico. M. lo aveva senza dubbio previsto, perché spostò le sue truppe per la via Appia verso Benevento che egli raggiunse prima di Carlo. Quando quest'ultimo, a tappe forzate, si avvicinò a Benevento il 26 febbr. 1266, M. lo costrinse al combattimento davanti alla città. Lo svolgimento della battaglia fu sfavorevole a M.: quando gli assalti dei suoi primi due schieramenti furono battuti, egli stesso si gettò nella battaglia, senza dubbio non per cercare una morte eroica, come vuole la leggenda, ma per imprimere una svolta al culmine del terzo assalto. Ma i baroni del Regno e le loro truppe gli rifiutarono di seguirlo cosicché M. si gettò da solo nel combattimento e cadde.
Solo il terzo giorno dopo la sconfitta il suo corpo depredato fu ritrovato, riconosciuto dai suoi parenti presi prigionieri e sepolto dal vincitore senza cerimonie religiose sotto un cumulo di sassi presso il ponte verso Benevento. L'arcivescovo di Cosenza, per ordine di papa Clemente IV, lo fece più tardi riesumare e seppellire in un luogo sconosciuto sulla sponda del Liri per distruggere ogni premessa a una memoria legata al luogo. La moglie Elena non riuscì a fuggire in Epiro e, catturata da Carlo con i figli ancora piccoli, morì in seguito in prigione, come anche, decenni dopo, due dei suoi figli; mentre il terzo riuscì a fuggire. Beatrice fu liberata dopo i Vespri siciliani del 1284.
M., caduto, fu riconosciuto per la sua bellezza. Era di media statura, biondo, con un bel viso, pelle bianca, guance rosse, occhi stellanti (cfr. Malaspina, 3, 13, che lo accosta alla bellezza di Davide, descritta in 1 Re, 16, 12); è nota la decrizione di Dante: "Biondo era e bello e di gentile aspetto" (Purg., III, 107). Una sua raffigurazione (non certo un ritratto) è contenuta nel già ricordato codice vaticano del De arte venandi cum avibus (c. 5v): un giovane falconiere con un profilo finemente delineato sotto i capelli biondi con una veste verde sotto il mantello rosso.
Meno univoca è la descrizione del suo carattere. Per i suoi partigiani, come il cosiddetto Jamsilla, era il vero erede delle virtù e dei meriti paterni. Amabile, cavalleresco e coraggioso, magnanimo e tollerante, egli mirava non al conflitto, ma al confronto politico. Dotato intellettualmente e artisticamente, coltivò interessi di vario genere e governò da sovrano abile e giusto. Per Dante (De vulgari eloquentia, 1, 12) M. incarna l'ideale dell'uomo che si perfeziona con la formazione culturale. Gli stessi avversari non gli potettero negare il rispetto anche quando favorirono la légende noire. Un anonimo chierico (Cronica pontificum) lo descrive come meschino, presuntuoso, vigliacco e avido di gloria; sempre pieno di piani grandiosi, non ne portava a compimento nessuno; magnanimità e valore erano solo una simulazione. I nemici di M. lo calunniarono chiamandolo sultano di Lucera, epicureo, adultero, assassino di suo padre e del nipote che gli era stato affidato; con l'accusa di libertinaggio e stregoneria costruirono la caricatura di un sovrano moralmente corrotto.
Anche il giudizio moderno su M. è controverso: da una parte egli è considerato un debole epigono, certamente simpatico, valoroso e colto, ma debole, indeciso e non dotato come comandante militare e come politico e la sua usurpazione è ritenuta tradimento della casa sveva. Dall'altra egli appare il nobile giovinetto svevo trasfigurato, nel suo declino, in una tragica figura luminosa, oppure l'energico innovatore del suo Regno, prefigurazione dello Stato nazionale italiano.
La scarsità delle fonti non consente un'interpretazione unitaria. Certamente M. fu umanamente attraente anche se non privo di durezze; la sua mancanza di scrupoli rientra nel quadro della consuetudine dell'epoca. Egli realizzò energicamente la sua ascesa con abilità militare e capacità diplomatica. La prontezza al compromesso nasceva certamente non solo dal calcolo tattico, ma anche dalla convinzione che senza pace, la prosperità e la cultura non sopravvivono. Come reggente e come re si adoperò per la giustizia e l'ordine; condusse la sua politica estera con prudenza e abilità. Alla fine soccombette, prematuramente, a una preponderante coalizione tra il potere ecclesiastico, il denaro dei guelfi e le armi francesi al comando del più abile condottiero di quei tempi.
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