MANFREDI, RE DI SICILIA
M. nacque nel 1232, figlio naturale dell'imperatore Federico II e di una figlia della contessa Bianca Lancia a cui una tradizione posteriore ha attribuito il nome materno di Bianca. Federico sposò la madre di M. che già gli aveva dato una figlia, Costanza, in una data imprecisata (probabilmente nel 1248) poco prima di morire. M. fu quindi legittimato, sebbene la Curia non l'abbia mai riconosciuto. Egli ricevette un'educazione accurata: secondo le sue stesse parole la teologia e la filosofia gli furono insegnate dagli studiosi della corte di suo padre. Avendo portato durante la giovinezza il nome di M. Lancia, poté godere probabilmente di una certa libertà di movimento e fu in condizione di proseguire i suoi studi per un breve periodo (1245-1247) nelle Università di Parigi e di Bologna, alle quali in seguito donò come sovrano alcune traduzioni di Aristotele. A quel tempo sembra essere stato anche prigioniero per un breve periodo del marchese d'Este. La sua amicizia con il cardinale Ottaviano Ubaldini (v.) ebbe inizio in questi stessi anni.
Allora nulla lasciava presagire la successione di M. nel Regno di Sicilia. Nel febbraio del 1248 subì insieme a Federico la catastrofica sconfitta di Vittoria (v.); alla fine di dicembre (o al principio del 1249) si unì in matrimonio a Vercelli con Beatrice, figlia del conte Amedeo IV di Savoia e vedova del marchese di Saluzzo, con la quale era fidanzato dal 21 aprile 1247. L'alleanza matrimoniale della casa imperiale con i potenti conti di Savoia, imparentati tramite le loro quattro nipoti ‒ le "quatre reines" della casa comitale di Provenza ‒ con le corti inglese e francese, rappresentò un elemento importante della politica italiana dell'imperatore. A M. furono infeudati la Lombardia occidentale e il Regno di Arles, e di conseguenza il suo dominio divenne l'anello di congiunzione fra l'Italia governata dall'imperatore e il Regno di Germania sotto il dominio del fratellastro Corrado. Il vicariato generale per la Lombardia occidentale, il Piemonte e la Savoia, quindi la reggenza per conto di M., fu assegnato a Tommaso di Savoia.
Comunque non si arrivò all'insediamento di M., in quanto egli accompagnò l'imperatore che ritornava in Puglia. Quando Federico II il 13 dicembre 1250 morì inaspettatamente a Castelfiorentino, M. era presente. Informò subito Corrado IV della morte del padre, poi dispose affinché il defunto fosse traslato a Palermo per essere sepolto nella cattedrale (25 febbraio 1251). Secondo il testamento dell'imperatore, nella successione del Regno di Sicilia M. seguiva al terzo posto i suoi fratelli Corrado IV ed Enrico e i loro eredi. Con la donazione stabilita da Federico II e confermata dal suo testamento M. aveva ottenuto il principato di Taranto con le contee di Tricarico, Montescaglioso e Gravina, dalla fonte del Bradano, presso il castello di Lagopesole, fino a Polignano a Mare e da qui fino a Porta Roseti (Roseto Capo Spulico), insieme al dominio di Monte S. Angelo, che da lungo tempo faceva parte del dotario delle regine di Sicilia. Di conseguenza M. era il barone più potente del Regno e disponeva di feudi d'importanza strategica per il dominio sulla Puglia, che sotto Federico II era diventata la regione centrale del Regno. Ma soprattutto l'imperatore aveva nominato M. luogotenente (balius) in Italia e nel Regno di Sicilia durante l'assenza di Corrado IV.
La morte di Federico provocò non solo in Italia ma anche nel Regno di Sicilia, che risentiva dell'onere economico delle guerre, un grande movimento di rivolta, energicamente sostenuto dal trionfante papa Innocenzo IV che concesse privilegi ai ribelli. Ma il diciottenne M. prese con fermezza le redini della reggenza. Affidò l'amministrazione della Calabria e della Puglia a suo fratello Enrico. Riuscì a soffocare le ribellioni scoppiate in Puglia insieme al margravio Bertoldo di Hohenburg, tuttavia fallì il suo obiettivo nella Terra di Lavoro, dove si scontrò con la resistenza di Capua e di Napoli. Quindi nell'estate del 1251 avviò trattative con Innocenzo IV che però naufragarono. Nell'autunno dello stesso anno M. rientrò in Puglia per organizzare la traversata di suo fratello Corrado IV, che giunse a Siponto il 6 gennaio 1252 e fu accolto da M. con gli onori dovuti al suo rango regale. Insieme i due figli dello Svevo sottomisero il Regno: Napoli e Capua capitolarono, i conti di Caserta e di Aquino, imparentati tra loro, si arresero. Ma la buona intesa fra Corrado e M. si guastò rapidamente. L'ambizione dei Lancia, parenti di M., svolse probabilmente un ruolo importante; infatti Corrado IV giudicò un tradimento la designazione di Manfredi Lancia a podestà di Milano e colse quest'occasione per espropriare i Lancia e bandirli dal Regno. Quando essi si rifugiarono dalla sorella di M., Costanza, moglie dell'imperatore di Nicea Giovanni Vatatze, Corrado pretese che gli fossero consegnati. I diritti dello stesso M. furono limitati, poiché gli fu tolto l'Honor Montis S. Angeli e il principato di Taranto fu ridimensionato. Per questo motivo, ma anche perché Corrado favorì il margravio Bertoldo di Hohenburg e i suoi uomini tedeschi, molti baroni incitarono M. all'opposizione contro il fratello. Quando Corrado, prima di iniziare la sua campagna italiana, il 21 maggio del 1254 morì presso Lavello, si sparse immediatamente la voce che M., presente nell'accampamento del fratello, l'avesse fatto avvelenare.
Prima di morire Corrado IV aveva nominato vicario di suo figlio Corradino non M. bensì il margravio Bertoldo, ma, in seguito al fallimento delle trattative con il papa, M. poté costringerlo a cedergli la reggenza. Tuttavia Innocenzo IV, a sua volta, obbligò M., i cui sostenitori in parte erano già passati al fianco della Curia, a scendere a patti. Il 27 settembre 1254 il papa, in veste di supremo signore feudale del Regno, confermò M. come principe di Taranto ‒ sostituendo la contea di Montescaglioso con Andria ‒ e gli assegnò il vicariato del Regno. Il suo territorio era comunque diminuito degli Abruzzi, della Terra di Lavoro e della Sicilia insulare; inoltre le competenze di M. furono ridimensionate, e invece di essere risarcito con le entrate del Regno ebbe un modesto appannaggio annuale. In ogni caso M. aveva mantenuto la sua posizione di reggente e di successore presuntivo al trono dopo Corradino. Anche per Innocenzo IV quest'accordo rappresentava un compromesso, in quanto equivaleva ad accettare la posizione dell'odiato Svevo. Quando l'11 ottobre 1254 il papa fece il suo ingresso nel Regno a Ceprano per presenziare a una dieta a Capua, M. prestò il servizio di stratore ‒ tenendo le briglie della cavalcatura di Innocenzo IV in atto d'omaggio ‒ e il giuramento di fedeltà. Ma i rapporti fra i due si guastarono subito, poiché il papa come signore supremo del Regno esercitava direttamente il governo e scalzò la posizione del suo vicario concedendo personalmente innumerevoli privilegi. Questa esautorazione danneggiava anche la reputazione di M., il quale come figlio dello Svevo ‒ con la titolatura di divi augusti imperatoris Friderici filius e la corrispondente iscrizione sul sigillo (Regesta Imperii, V, nr. 4635, dicembre 1250) ‒ rivendicava il diritto di preminenza sulla nobiltà del Regno. Si giunse alla rottura definitiva allorché M. incontrò fra Teano e Capua il suo nemico mortale Borello d'Anglona, che l'aveva offeso e con il quale si era disputato la contea di Lesina. Il seguito di M. uccise Borello, certamente non senza il consenso del principe. Invece di discolparsi di fronte al tribunale del papa M. si diede alla fuga e dopo un'avventurosa cavalcata autunnale sull'Appennino, percorrendo strade secondarie e facendosi largo fra i suoi nemici, raggiunse Lucera il 2 novembre 1254. I saraceni, i fideles di suo padre, lo accolsero con entusiasmo e gli consegnarono il tesoro reale. In questo modo M. riuscì ad avere il sopravvento nell'aperta battaglia che si scatenò per la conquista del potere nel Regno di Sicilia. Potendo contare su questa cittadella sveva e sulle sue temute truppe, il 2 dicembre espugnò Foggia e costrinse i suoi avversari, il legato pontificio e Bertoldo di Hohenburg, a ritirarsi dalla Capitanata. Pochi giorni dopo, il 7 dicembre 1254, Innocenzo IV moriva a Napoli.
Mentre il suo debole successore Alessandro IV si adoperava invano per promuovere la candidatura al trono di Edmondo d'Inghilterra, M. proseguì nell'assoggettamento del Regno. Il 20 aprile 1255 Corradino lo riconobbe come suo vicario, senza curarsi della scomunica che il papa aveva pronunciato contro M., i suoi parenti e i suoi sostenitori. La nuova crociata papale sotto il comando del legato cardinale Ottaviano Ubaldini e del margravio di Hohenburg andò incontro al fallimento ed entrambi abbandonarono la Puglia dopo aver concluso un accordo il 20 agosto 1255. Agli occhi della Curia il cardinale ghibellino, che apparteneva a una casata imparentata con i Lancia, apparve come un traditore. L'ambizioso governatore della Curia in Sicilia e Calabria, Pietro Ruffo, conte di Catanzaro, fu scacciato dalle truppe di Manfredi. Il magnate della Sicilia occidentale Enrico de Abate conquistò Palermo nel 1256 e prese prigioniero il comandante delle truppe pontificie Rufino. Quindi M. aveva ormai sotto il suo controllo gran parte del Regno.
Già il 2 febbraio 1256 M. poté tenere una dieta a Barletta, in cui regolò i conti con i suoi avversari. Pietro Ruffo, che era fuggito in esilio, fu condannato a morte e ucciso a Terracina nel 1257 per ordine di Manfredi. Suo nipote Giordano Ruffo fu accecato e morì in seguito alle ferite. A Bertoldo di Hohenburg, che si era sottomesso a M., toccò in sorte il carcere a vita e morì poco dopo in prigionia. La durezza di M. fece presto altre vittime: Marino da Eboli (v.) e suo figlio Riccardo, Domenico Francesco, Tommaso de Oria, Ruggero da Morra e altri. Con questi atti M. si acquistò fama di individuo così pericoloso che nel 1257 non solo la Curia ma anche Riccardo di Cornovaglia mise in guardia la corte inglese ‒ che intratteneva rapporti con lo Svevo ‒ dagli 'assassini' di Manfredi. Parenti e sostenitori invece furono ricompensati a Barletta: Galvano Lancia divenne maresciallo e principe di Salerno, a suo fratello Federico Lancia fu confermata la contea di Squillace e gli fu assegnato il vicariato di Sicilia e Calabria. Nei mesi seguenti anche le ultime resistenze contro il dominio di M. nel Regno di Sicilia furono eliminate.
Nel 1257 naufragò definitivamente la candidatura inglese al trono; infatti gli ecclesiastici inglesi, indignati per i costi elevati dell'impresa, raccomandarono a Enrico III di riconoscere M. come balivo di Corradino e di combinare il matrimonio fra Edmondo e una delle sue figlie, invece di dichiarargli guerra.
Frattanto M., grazie a una serie di relazioni con i ghibellini, aveva consolidato anche la sua posizione di potere in Italia.
Al principio del 1258 partì per il grande viaggio in Sicilia che aveva dovuto interrompere nel 1257, forse per motivi di salute. In questo periodo circolarono voci secondo le quali Corradino era morto in Baviera. M., che secondo l'opinione generale aveva fatto diffondere a bella posta la notizia, approfittò della circostanza per imporre i suoi diritti sul trono. L'incoronazione di M. a re di Sicilia ebbe luogo domenica 11 agosto 1258 nella cattedrale di Palermo. Scegliendo la tradizionale chiesa delle incoronazioni, che era anche il luogo di sepoltura dei re di Sicilia, M. volle mettere in risalto la continuità e la legittimità della sua elezione, anche attraverso il cerimoniale che seguì, a quanto sembra, le antiche usanze. All'unzione di M., che era ancora scomunicato, provvide l'arcivescovo Rainaldo di Agrigento, il quale celebrò anche la messa dell'incoronazione, mentre gli arcivescovi Cesario di Salerno, Anselmo di Acerenza e Benvenuto di Monreale lo incoronarono, in presenza dell'arcivescovo di Sorrento e dell'abate Riccardo di Montecassino. Per questo motivo tutti quanti ‒ e inoltre i consiglieri più vicini a M., ovvero il conte Riccardo di Caserta, Tommaso d'Aquino conte di Acerra, Galvano e Federico Lancia ‒ furono scomunicati da Alessandro IV il 10 aprile 1259.
Sebbene la nobiltà e il clero al completo fossero stati convocati all'incoronazione, non tutti diedero seguito a questa disposizione e anzi alcuni cercarono di allontanarsi furtivamente il giorno stesso dell'incoronazione. In questi frangenti nella cattedrale si verificò uno spiacevole incidente: il vescovo Giovanni di S. Angelo dei Lombardi, che si era presentato per così dire in incognito indossando un semplice abito sacerdotale, tentò di fuggire dalla chiesa ma fu scoperto dalle guardie reali. Per ordine di M. Giovanni fu costretto dall'arcivescovo Enrico a indossare i paramenti sacerdotali in pompa magna. Evidentemente in molte cerchie M. era considerato un usurpatore e si temevano le sanzioni della Curia. Il giuramento di fedeltà e l'atto dell'incoronazione a cui la maggior parte dei convenuti aveva apposto il sigillo non modificarono sostanzialmente la situazione.
Con la sua incoronazione M. aveva rotto definitivamente con il papa e con Corradino. Essendo un usurpatore doveva assicurarsi il potere contando solo sulle proprie forze. Per consolidare la sua posizione in Italia intensificò il sostegno ai ghibellini già concesso in precedenza.
Quando Brancaleone degli Andalò, nel maggio 1257, fu eletto nuovamente senatore di Roma, M. rinnovò le buone relazioni con lui. Siena, che era alleata con i ghibellini fiorentini esiliati, cercò il suo aiuto e a quanto sembra M. appoggiò il tentativo di colpo di stato ghibellino a Firenze nel luglio 1258, istigato dal cardinale Ottaviano Ubaldini. Nel 1259 M. inviò truppe in Toscana e alla fine dello stesso anno il suo parente Giordano de Agliano giunse a Siena come vicario generale della Tuscia. Fermo e Iesi nelle Marche furono sostenute manu militari da M. nel 1257. Attraverso il suo parente Ubertino de Andito di Piacenza, che si rifugiò presso di lui nell'estate del 1258 e in dicembre fu rimandato con un esercito nell'Italia settentrionale, M. rafforzò gli antichi legami con il marchese Uberto Pallavicini (v.), in precedenza vicario generale in Lombardia e confermato in quest'ufficio da M. nel 1258.
Nel luglio 1257 M. aveva stretto un accordo con Genova, che fruttò alla città marinara importanti privilegi nel Regno e nuovi insediamenti. Come contropartita i genovesi promisero il loro aiuto contro i nemici di M. sul loro territorio e inoltre la restituzione di un prezioso trono che un tempo era stato dato in pegno da Federico II. Così M. si procurò un'insegna reale e al tempo stesso assestò un colpo ai Fieschi, la famiglia di papa Innocenzo IV. In settembre rinnovò un vecchio accordo con Venezia con il quale si concedevano alla città altri insediamenti e privilegi per l'esportazione e l'importazione. In cambio M. recuperò gioielli del valore di 25.000 lire d'argento che Bertoldo di Hohenburg aveva depositato in città. Il capolavoro diplomatico che gli consentì di raggiungere contemporaneamente un accordo con le due città marinare rivali costò tuttavia a M. l'appoggio di Pisa.
Con l'incoronazione il potere e il credito di M. aumentarono notevolmente. Egli divenne il patrono della Lega ghibellina, che riuniva le grandi città dell'Italia settentrionale, fondata da Uberto Pallavicini l'11 giugno 1259 con nobili e comuni. In settembre quest'ultimo sconfisse l'avversario di M., Ezzelino da Romano, che morì poco dopo la battaglia. Un anno più tardi, il 4 settembre 1260, grazie all'aiuto militare di M. Siena inflisse a Montaperti ai guelfi fiorentini una sconfitta così pesante che essi dovettero lasciare la città agli avversari ghibellini. In seguito anche in Toscana si costituì una Lega ghibellina. La Marca anconetana era ancora largamente in mano agli Svevi. Roma, anche dopo la morte di Brancaleone (1258), continuò a mantenere buoni rapporti con Manfredi. Poiché da parte di Corradino si profilavano nuove minacce, nell'estate del 1260 fiancheggiatori romani di M. uccisero il suo inviato alla Curia; il loro capo fu ricompensato con la contea di Catanzaro. Alla fine del 1260 M. stesso fu eletto senatore di Roma dai suoi sostenitori, senza riuscire comunque a prendere possesso della città.
Ora nel Regno di Sicilia M. era in condizione di governare con maggiore autorevolezza. Già nell'autunno del 1258, in forza del diritto personale, aveva deciso numerosi infeudamenti in un'adunanza tenuta a Barletta. Nell'aprile 1259 presiedette una dieta a Foggia allo scopo di emanare nuove leggi e di riformare l'amministrazione, che pur continuando ad attenersi ai principi generali di Federico II fu modernizzata e resa più concisa nei singoli elementi. Fu così nuovamente regolato l'obbligo per i funzionari di tenere i libri contabili e di presentare i rendiconti e venne creato l'ufficio del magister rationalis per esercitare un controllo; furono quindi richiesti i rendiconti più antichi mancanti. In seguito alla riforma dell'amministrazione finanziaria i camerari divennero in tutto il Regno secreti dotati di competenze giudiziarie ridotte. Nello stesso periodo fu avviata una parziale verifica dei feudi e degli obblighi ad essi collegati. Furono inoltre compilati un nuovo ordinamento della cancelleria e nuovi regolamenti per i funzionari, e l'archivio della corte fu trasferito a Melfi. Il consiglio dei familiari fu coinvolto più intensamente nel governo. M. continuò anche a incoraggiare l'economia. Su richiesta del suo familiare Giovanni da Procida concesse a Salerno un privilegio per le fiere e il diritto di ampliare il porto. Ma al di là degli sforzi per migliorare l'efficienza e il controllo, M. si preoccupò di preservare la continuità con i suoi predecessori. Furono confermati privilegi paterni, tutelati diritti tramandati ‒ anche ecclesiastici ‒ e, per quanto possibile, eliminati abusi e corruzione. A garantire la continuità contribuì inoltre la decisione di M. di mantenere i leali e comprovati collaboratori di suo padre integrandoli con i propri parenti, i quali malgrado l'avidità non erano sprovvisti né di competenze né di esperienza. Furono affiancati inoltre da forze locali come i Capece, i Filangieri, i Rebursa e altri.
Alla gran corte, la cerchia più ristretta dei funzionari, appartenevano il giudice di gran corte Tommaso Gentilis, il cancelliere Gualtiero di Ocra, il gran camerario Manfredi Maletta, succeduto al saraceno Giovanni Moro che aveva pagato con la morte il suo tradimento, il maresciallo Galvano Lancia, per un periodo anche capitano generale della metà settentrionale del Regno, il siniscalco Bartolomeo Simplex, il coppiere "Iordanus de Agliano", l'ammiraglio cipriota Filippo Chinard, il magister rationalis "Iozzolinus de Marra", un esponente dei banchieri e mercanti di Barletta e Ravello. Giudici di Gran Corte erano, fra gli altri, "Nicolaus di Trani", Riccardo di Brindisi, Giacomo di Avellino, Giovanni di Caserta e Andrea di Capua, mentre tra i notai si annoveravano i magistri "Nicolaus de Rocca" e "Petrus de Prece", nonché "Iacobus de Tocco", che svolgeva anche le funzioni di giudice di Gran Corte. Della cerchia dei familiari facevano parte, accanto ai personaggi già menzionati, il medico e magister Giovanni da Procida, "Goffredus de Cosenza", "Gervasius de Martina" e "Franciscus Simplex". Con la combinazione fra il possesso di grandi feudi e l'assunzione delle più alte cariche, l'entourage di M. ‒ soprattutto i suoi parenti ‒ contribuì notevolmente alla feudalizzazione e alla oligarchizzazione del Regno. Se pure vi furono lagnanze per l'onere fiscale elevato, gli stessi avversari di M. dovettero convenire che egli governava il Regno con giustizia mantenendo la pace al suo interno.
Le grandiose feste allestite da M. in occasione delle diete suscitarono grande scalpore. Non erano concepite solo in funzione del divertimento, ma servivano anche a integrare i diversi elementi del Regno. Lo stesso M. coltivava la musica e la poesia come Minnesänger (v.) e nella cerchia della corte, insieme a Galvano Lancia e ad altri versificatori che componevano poesie d'occasione, furono accolti numerosi artisti tedeschi. Da perfetto cortigiano M. apprezzava anche la caccia, alla quale si dedicava ‒ in abito verde ‒ ogniqualvolta si recava a Lagopesole o in altri castelli pugliesi. Ma la somiglianza con il padre si manifestava soprattutto nelle sue inclinazioni scientifiche; infatti rielaborò l'opera di Federico II De arte venandi cum avibus (v.) contribuendo anche con integrazioni personali, seppure di poco rilievo: il tempo e i mezzi non erano evidentemente più sufficienti per proseguire gli studi con la stessa ampiezza di una volta. Nel 1255, durante una malattia che fece temere per la sua vita, tradusse dall'ebraico lo scritto pseudoaristotelico Liber de pomo. M. fu considerato poliglotta come suo padre, ma non è accertato quanto fosse profonda la sua conoscenza dell'arabo: durante le trattative con i saraceni di Lucera nel 1254 dovette comunque appoggiarsi a un interprete. Ma i suoi interessi erano ad ampio raggio e comprendevano, accanto alla matematica e alle scienze naturali, anche la filosofia, la teologia, l'astronomia e l'astrologia. La sete di conoscenza fu all'origine della disputatio che fece organizzare nel 1261 con il dotto Pietro d'Ibernia sulla questione della finalità della natura. Coerente con queste tendenze, M. fece riaprire nel 1258 o 1259 l'Università di Napoli. A corte erano impegnati come traduttori Bartolomeo di Messina, che si dedicò soprattutto a opere aristoteliche e pseudoaristoteliche, fra cui un trattato di ippiatria, e Stefano da Messina, che tradusse il Centiloquium Hermetis, uno scritto di astronomia. Dal fondo della biblioteca di corte, che fu accresciuto grazie a queste attività, l'Università di Parigi e forse anche quella di Bologna ottennero donazioni di libri. Molti codici miniati testimoniano la promozione dell'arte libraria: per esempio, la cosiddetta Bibbia di Manfredi (v. Miniatura), la breve opera di Pietro da Eboli De balneis Puteolanis, probabilmente il manoscritto che si è conservato del Liber de pomo e soprattutto la versione in due libri del De arte venandi cum avibus, il trattato sulla falconeria di Federico II, oggi custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana (ms. Pal. Lat. 1071). Lo pseudo-Jamsilla, ossia la cronaca dell'ascesa di M. fino al 1258, rientra anch'esso nell'ambito della letteratura di corte. Perfino Ǧamāl al-Dīn, inviato del sultano d'Egitto, rimase così impressionato dalla cultura di M. da dedicargli un suo breve scritto sulla logica.
Dopo la grande dieta di Foggia del 1259 M. sottomise con una breve campagna estiva la città dell'Aquila da sempre ribelle. Nell'estate del 1260 Erice approfittò dell'assassinio del capitano generale di Sicilia, Federico Maletta, imparentato con M., per fomentare una rivolta che malgrado il sostegno papale fu soffocata rapidamente. Così il Regno fu pacificato. Le città che all'epoca della reggenza si erano ribellate contro M. per ottenere dai pontefici maggior autonomia e una riduzione delle imposte, ora si assoggettarono al sovrano; i ceti alti cittadini sfruttarono l'occasione per promuovere la loro ascesa sociale assumendo cariche nell'amministrazione e titoli nobiliari, come nel caso dei Rufolo e dei della Marra. La maggior parte dei vescovi e degli abati che erano rimasti nel Regno accordarono infine a M. il loro appoggio, anche se non sempre per libera scelta, bensì per opportunismo e con il segreto timore delle sanzioni papali.
La prima moglie di M., Beatrice, che aveva dato alla luce la figlia Costanza nel 1249, era morta fra il 1249 e il 1257. In seguito M. sposò Elena, figlia del despota d'Epiro Michele II Angelo, ma la data precisa delle nozze non è nota. Poiché una cronaca narra dell'incoronazione di Elena a fianco del suo sposo, l'inizio del 1258 è più verosimile della data a lungo ritenuta valida del 2 giugno 1259. Concorda con quest'ipotesi il fatto che già nel febbraio 1258 a Durazzo si datavano documenti di Manfredi. Da quest'unione nacquero la figlia Beatrice e i figli Enrico, Federico e Ansolino (Enzio), ai quali si aggiunse la figlia naturale Flordelis. A partire dal 1260 M. avviò trattative con re Giacomo d'Aragona per combinare il matrimonio tra sua figlia Costanza e l'erede al trono aragonese Pietro, che malgrado le vibranti proteste del papa fu stabilito con un contratto il 28 giugno 1260 ed ebbe luogo il 13 giugno 1262.
Con questi matrimoni M. aveva varcato politicamente i confini dell'Italia per estendersi all'area mediterranea, che dopo la separazione del Regno dall'Impero divenne il campo d'azione privilegiato della politica siciliana. Nel 1258 aveva occupato Corfù, Durazzo, Avlona e Butrinto sulla costa adriatica greca, che Elena aveva ricevuto in dote dopo le sue nozze. Nel 1259 appoggiò il suocero nella guerra contro il nuovo signore di Nicea, Michele VIII Paleologo, ma i suoi quattrocento cavalieri non riuscirono a impedire la sconfitta del despota presso Pelagonia. Questa svolta significò la rottura con Nicea fino a quel momento alleata, e nel 1262 Michele VIII rimandò in Sicilia la sorella di M., Costanza, vedova del suo predecessore.
Tuttavia M. intrattenne buoni rapporti anche con il mondo arabo: con la setta degli Assassini in Siria e con l'Egitto, anche dopo che i mamelucchi avevano usurpato il trono dei Fatimidi. L'emiro di Tunisi continuò a pagare il tributo.
La Curia papale aveva ben poco da opporre ai successi di M., che era all'apice del suo potere quando Alessandro IV morì a Viterbo il 25 maggio 1261.
Lo scenario mutò ben presto con l'elezione al soglio del suo energico successore, Urbano IV, il 29 agosto 1261. Il suo principale interesse, una nuova crociata in Terrasanta, esigeva in primo luogo la soluzione del problema del Regno, attraverso l'eliminazione di Manfredi. In autunno quest'ultimo con la mediazione dell'imperatore Baldovino II di Costantinopoli, che si era recato da lui dopo essere stato costretto all'esilio, propose al nuovo papa di intavolare trattative, ma Urbano IV non acconsentì. Il pontefice offrì la corona di Sicilia a Luigi IX per destinarla a uno dei suoi figli, e quando il sovrano rifiutò nel marzo 1262 prese contatto con il fratello del re, Carlo d'Angiò, conte di Provenza, che già nel 1252 era stato uno dei candidati al trono del Regno. Il 6 aprile 1262 M. fu citato in un processo per eresia di fronte alla Curia da tenersi il 1o agosto.
Il 18 giugno M. propose invano al papa l'enorme somma di 300.000 onze d'oro e il pagamento di un tributo annuo di 10.000 onze perché lo riconoscesse come re. In agosto ottenne solo una proroga della sua convocazione all'11 novembre. Dopo la partenza della figlia Costanza alla volta dell'Aragona per le nozze, il 28 aprile M. si diresse verso la Sicilia per pacificare personalmente la situazione di tensione nell'isola. Qui, nella zona dell'Etna, dall'autunno del 1261 si aggirava con il consenso del papa uno pseudo-Federico di nome Giovanni di Coclearia. Si spacciava per l'imperatore ancora in vita e sembra avesse anche trovato credito nello scatenarsi delle attese sulla fine dei tempi. Con l'appoggio di Pietro Ruffo II, nipote del defunto conte di Catanzaro, Giovanni di Coclearia ordì una rivolta locale che tuttavia fu repressa dalle truppe di Manfredi. Lo pseudo-Federico fu preso prigioniero e nell'estate del 1262 fu impiccato a Catania con alcuni dei suoi seguaci.
Nel frattempo Urbano IV si era mostrato più conciliante e in seguito alle pressioni di Giacomo d'Aragona e di Luigi IX propose a M. un incontro. In particolare il re di Francia bloccò le trattative di suo fratello con la Curia, sia dubitando della legalità del modo di procedere del papa, sia nell'interesse della crociata, in vista del sostegno di M. che poteva essere vantaggioso anche nella riconquista di Costantinopoli. Con queste argomentazioni l'imperatore in esilio Baldovino II e Giovanni di Valenciennes, un barone della Terrasanta, perorarono la causa di Manfredi.
Così alla fine di novembre del 1262 M. si recò a Orvieto. Tuttavia le trattative con il pontefice naufragarono ben presto, probabilmente per la condizione posta dal papa ‒ inaccettabile per M. ‒ di acconsentire al ritorno degli esiliati nel Regno e alla restituzione dei loro beni. M. fece ritorno in Puglia e il 29 marzo 1263 Urbano IV rinnovò la sua scomunica.
Dato che la Curia riuscì a imputare a M. la colpa del fallimento dei negoziati e Baldovino II irritò il re di Francia tessendo un intrigo a favore di M., Luigi IX rinunciò a opporsi alle trattative di suo fratello Carlo per la corona siciliana. In giugno il papa sottopose a quest'ultimo una bozza di accordo, ma furono necessari ancora quasi due anni di tenaci negoziati prima che Carlo d'Angiò sottoscrivesse nel maggio 1265 una formulazione di suo gradimento.
Si chiarì gradualmente che la Curia aveva soltanto tenuto a bada M. e che la questione del trono di Sicilia sarebbe stata decisa con le armi.
Dell'attività di M. in questo anno critico 1263 non apprendiamo praticamente nulla dalle esigue fonti: mentre le sue truppe difendevano le loro posizioni nelle Marche, il re sembra aver continuato nell'esercizio abituale del suo governo. Nel novembre 1263 fondò ai piedi del Gargano, al posto dell'insalubre Siponto, la nuova città di Manfredonia. Al principio di agosto del 1263 aveva subito un pesante scacco nella sua candidatura alla carica di senatore di Roma: i romani avevano eletto Carlo d'Angiò. Così l'avversario di M. aveva conquistato un'importante testa di ponte, che in un primo tempo affidò al governo di un vicario.
Nel 1264 crebbe il timore di un arrivo imminente di Carlo d'Angiò e a questo punto M. affrontò più energicamente la minaccia che pesava sul suo dominio. In primavera appoggiò con la sua flotta una rivolta contro Carlo a Marsiglia, ma senza grandi risultati. In aprile convocò una dieta a Napoli per verificare gli obblighi feudali e per passare in rassegna la nobiltà in vista dell'impegno militare. A questo scopo fu redatto un nuovo elenco dei feudi. Contemporaneamente prese la decisione di attaccare Roma, la sede del papa a Orvieto e anche Perugia, un'operazione che andò incontro a un totale fallimento. L'attacco a Roma si arrestò nella Campagna meridionale. L'avanzata contro il ducato di Orvieto andò a vuoto perché il comandante, Percivalle Doria, annegò nella Nera presso Arrone e le truppe pontificie costrinsero il suo esercito, ormai privo di un capo, a ritirarsi verso Rieti. Soltanto piccoli scontri nella Campagna settentrionale, con mercenari tedeschi al soldo dello Svevo capeggiati da Pietro de Vico, ottennero qualche successo. Così M., in luglio, si limitò a protestare ufficialmente contro le trattative della Curia con Carlo d'Angiò e la predicazione calunniosa della crociata. Intanto Urbano IV non si sentiva più sicuro a Orvieto e si affrettò a spostarsi a Perugia, dove giunse già ammalato e morì il 2 ottobre. A questo punto M. dispose affinché fosse intensificata la sorveglianza sui collegamenti marittimi e terrestri in direzione di Roma.
Con l'elezione del papa francese Clemente IV, il 5 febbraio 1265, il corso degli eventi subì un'accelerazione. Fortemente legato alla corte di Francia, egli portò a conclusione le trattative per l'accordo con Carlo d'Angiò. Quindi quest'ultimo, malgrado il tempo inclemente, con un'audace manovra di approdo sbarcò tempestivamente presso Ostia il 20 maggio e fece il suo ingresso a Roma, senza che la flotta di M. riuscisse a impedirglielo. In inverno l'esercito dopo una marcia attraverso tutta l'Italia raggiunse Carlo, senza essere ostacolato dai ghibellini che abbandonarono rapidamente la causa di Manfredi. Il 6 gennaio 1266 quattro cardinali, su incarico del pontefice, incoronarono re di Sicilia Carlo d'Angiò, che il 20 mosse alla conquista del suo Regno.
M. aveva predisposto le necessarie misure di difesa: ancor prima dell'arrivo di Carlo aveva, a quanto sembra, rivolto alla Curia una proposta di intesa per evitare la guerra, che tuttavia era stata bruscamente respinta dal papa. Aveva anche tentato di conquistarsi nuovamente il favore dei romani: in un grande manifesto del 24 maggio li esortava a scacciare il vicario di Carlo. In primo luogo attribuiva loro il diritto di eleggere e incoronare l'imperatore e nel caso di una sua elezione prometteva di restaurare la repubblica. Tuttavia rivendicava la corona imperiale come discendente di imperatori e respingeva qualsiasi diritto della Chiesa al concorso nell'assegnazione della dignità imperiale. Questa magniloquente retorica rimase senza effetto e nel giugno del 1265 M. convocò a Benevento una dieta che era al contempo una mobilitazione per la campagna militare contro Carlo d'Angiò. In luglio lo stesso M. condusse l'esercito verso Roma, ma dopo aver superato Carsoli si fermò prima di Tivoli che non riuscì a conquistare. In agosto interruppe sorprendentemente la sua successiva spedizione nel ducato di Spoleto per fare ritorno in Puglia, forse per preparare la difesa di questo territorio cruciale per gli interessi svevi. Fece presidiare i confini, mettere i castelli in stato di difesa e reclutare mercenari in Germania e in tutta l'area mediterranea; ciò nonostante la fedeltà dei suoi alleati e dei suoi sudditi iniziò gradualmente a vacillare.
Al principio del 1266 M. piazzò forti truppe d'occupazione nei castelli di Rocca d'Arce e San Germano e con il grosso del suo esercito si appostò a Capua fortificata di recente. Con la sua strategia puntava a rallentare la marcia dell'avversario e a indebolirlo, prima della battaglia decisiva, lungo la strada che attraversava il territorio di confine, inospitale a causa dell'inverno. Appoggiandosi a Capua proteggeva anche l'importante porto di Napoli e al tempo stesso teneva sotto controllo l'irrequieta Terra di Lavoro. Questa realistica strategia di logoramento tuttavia fallì perché le fortezze caddero dopo aver opposto una debole resistenza e le truppe di M. dovettero ritirarsi sconfitte. Carlo, che il 12 febbraio aveva preso San Germano, imboccò la strada che conduceva non a Capua ma a Benevento, per isolare M. dalla Puglia. Lo Svevo aveva senza dubbio messo in conto questa possibilità, infatti dislocò rapidamente le sue truppe ‒ attraverso la Via Appia ‒ in direzione di Benevento, dove giunse prima di Carlo. Il 26 febbraio 1266, concludendo la sua faticosa marcia, Carlo d'Angiò si stava avvicinan-do a Benevento, quando M. ingaggiò battaglia prima della città. Ma le sorti dello scontro gli furono avverse: quando le sue due prime linee furono battute, lui stesso si lanciò nella mischia, senz'altro non per cercare una morte eroica ‒ come vuole la leggenda ‒ ma per imprimere una svolta alla battaglia alla testa della terza linea. Ma i baroni del Regno e le loro truppe rifiutarono di seguirlo, per cui M. diede battaglia da solo e cadde. Solo tre giorni dopo la sconfitta fu ritrovato il cadavere depredato del re, che venne identificato dai suoi parenti presi prigionieri; il vincitore lo fece seppellire senza nessuna cerimonia religiosa, sotto un cumulo di pietre, sul ponte che portava a Benevento. In seguito per ordine di papa Clemente IV l'arcivescovo di Cosenza lo fece esumare e seppellire in riva al fiume Liri. La vedova di M., Elena, non riuscì a fuggire in Epiro, sua terra d'origine, ma fu catturata da Carlo insieme ai figli bambini e morì in prigionia; la stessa sorte toccò dopo qualche decennio anche a due dei figli, mentre il terzo riuscì a scappare. Miglior sorte toccò a Beatrice che fu liberata dopo i Vespri siciliani nel 1284.
M. caduto era stato riconosciuto dalla sua bellezza. Era di corporatura media, biondo, con un viso leggiadro, pelle bianca, gote rosee e occhi stellanti: così lo descrive il cronista Saba Malaspina (Die Chronik, 1999, 3, 13, p. 176) facendo riferimento alla descrizione di Davide (I Re 16, 12) e Dante, com'è noto, lo riecheggia: "Bello era e biondo e di gentile aspetto" (Purg. III, 107). Un'immagine di M. ‒ non un ritratto ‒ è contenuta nel manoscritto vaticano del De arte venandi (ms. Pal. Lat. 1071, c. 5v): un giovane falconiere dal profilo delicato sotto la capigliatura bionda, che indossa un abito verde e un mantello rosso. Meno univoco è il quadro del suo carattere. Per i sostenitori, come lo pseudo-Jamsilla, M. è l'autentico erede delle doti e dei meriti paterni. Amabile, cavalleresco e valoroso, magnanimo e tollerante, era incline non allo scontro ma all'accordo politico. Dotato sul piano intellettuale e artistico, poliedrico nei suoi interessi, governò come un sovrano virtuoso e giusto. Per Dante M. incarnò l'ideale dell'uomo che si perfeziona attraverso la cultura (De vulgari eloquentia I, 12). Un anonimo chierico, della parte avversa, lo descrisse meschino e subdolo, orgoglioso e avido di gloria. Sempre pieno di progetti grandiosi, non fu mai capace di portarli a compimento. Era magnanimo soltanto quando intendeva accattivarsi il favore della plebe. Coraggioso con i deboli, quando avvertiva un'opposizione cedeva e quando le sue minacce restavano senza effetto si fingeva conciliante per non doversi battere. Dissimulava abilmente la sua debolezza di carattere, tanto che lo si riteneva un grand'uomo (Cronica pontificum et imperatorum S. Bartholomaei in insula Romani, Add., in M.G.H., Scriptores, XXXI, pp. 221 s.). I nemici di M. lo schernirono definendolo il sultano di Lucera e in base alle accuse di essere un epicureo, un adultero e un impostore, l'assassino del padre, del fratello e del nipote affidato alla sua protezione, costruirono la figura caricaturale di un eretico e di un tiranno.
Anche il giudizio moderno su M. è controverso. Da un lato, è considerato un debole epigono, accattivante, valoroso e istruito, ma anche fiacco e irresoluto, poco dotato sia come condottiero che come politico, e la sua usurpazione appare come un tradimento inflitto alla casa sveva. Dall'altro, il giovane e nobile svevo appare trasfigurato in una figura luminosa, che è andata incontro a una tragica fine, o ancora è considerato l'energico restauratore di un Regno mediterraneo che dopo il distacco dall'Impero ha ritrovato nuovamente il suo ruolo storico autonomo.
L'esiguità delle fonti non consente un'interpretazione unitaria. Senz'altro M. fu un uomo attraente, anche se non privo di durezza e di mancanza di scrupoli. Seppe imporre la sua ascesa con il valore militare e l'abilità diplomatica. La sua inclinazione al compromesso ebbe senz'altro origine non solo dal calcolo tattico, ma anche dalla convinzione che la prosperità e la cultura esigessero come presupposto la pace. In qualità di reggente e poi come re si adoperò in favore della giustizia e dell'ordine e amministrò la sua politica estera con prudenza e abilità. Alla fine, tuttavia, dovette soccombere ad una coalizione soverchiante che riuniva il potere ecclesiastico, il denaro guelfo e le armi francesi sotto il comando del condottiero più valente dell'epoca che pose fine prematuramente all'azione di Manfredi.
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Traduzione di Maria Paola Arena