Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Novecento si scontra frequentemente sulla nozione di realismo: ha maturato esperienze troppo sconvolgenti e una idea di realtà relativa e multiforme per accontentarsi di un aggettivo che più che indicare una poetica sembra esprimere una tensione del linguaggio e dello stile verso le cose; una tensione che da una parte rivendica la dignità di interi pezzi di esperienza a divenire materia e sostanza delle arti, dall’altra inverte la prospettiva dello scrittore nei confronti della tradizione e alimenta le potenzialità di una sperimentazione formale.
Elio Vittorini
Uomini e no
“Forse è un’occasione per te” gli disse Orazio. “Per imparare?” disse l’operaio. “Per cominciare” disse Orazio. Egli accelerò la marcia; e la motocarrozzetta scoppiettava dinanzi a loro: non si fece più lontana, pareva anzi farsi più vicina. “Che ci vuole?” l’operaio chiese. “Basta il 91?” “Basta il 91”. [...] L’operaio riprese in mano l’arma. “Non lo mancherai?” “Non lo mancherò”. “Se vuoi, ti do il volante e ci penso io”. “Perché? Io debbo imparare”. La moto li sorpassò, e subito corse fuori strada, l’uomo saltò indietro, le braccia larghe, il casco sbalzato via. “Bravo! Di bene in meglio!” disse Orazio. “Imparo bene?” disse l’operaio.
E. Vittorini, Uomini e no, Milano, Mondadori, 1973
Il termine realismo ha assunto storicamente molteplici accezioni e, soprattutto nel Novecento, è stato oggetto in più ambiti disciplinari di accesi dibattiti e ripetuti tentativi di definizione che si sono dovuti confrontare con l’estrema duttilità semantica del vocabolo e l’incremento dei suoi contesti d’uso. Anche in letteratura il concetto di realismo non è univocamente definibile. Nella storiografia letteraria, il termine ricorre per designare un periodo della letteratura europea – circoscritto agli anni tra il 1830 e il 1880 – durante il quale è stata codificata la moderna idea di realismo. Nella Francia della seconda metà dell’Ottocento, la voce réalisme è stata mutuata dalle arti figurative per denominare una nuova tendenza letteraria volta alla rappresentazione – con tecniche il più possibilmente obiettive e impersonali – della realtà del mondo contemporaneo, in programmatica antitesi alle estetiche romantiche del neogotico, del romanzesco, del pittoresco. Teorici del movimento realista sono stati gli scrittori Champfleury (pseudonimo di Jules François Husson) ed Edmond Duranty. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, in tutti i campi letterari europei si è assistito al proliferare di poetiche che hanno aderito, pur sviluppando caratteri propri e originali, a un condiviso principio realista. Verso la fine del secolo, si sono alzate le prime voci critiche nei confronti del miraggio di oggettività perseguito dagli artisti del periodo, tra cui quella del filosofo Friedrich Nietzsche che già nel 1880 polemizza: “Il realismo nell’arte è un’illusione”. Sono questi i prodromi di una nuova epoca. Inizia a delinearsi un mutamento di paradigma che, con il contributo dei coevi sviluppi delle scienze esatte (fisica in primis) e umane (filosofia, psicanalisi), porta alla crisi del principio positivista secondo cui il mondo oggettivo sarebbe scientificamente determinabile, al pari dell’uomo, ridotto dal positivismo a un essere condizionato da fattori sociali ed ereditari. Dopo alcune esperienze precorritrici fin de siècle, la letteratura del Novecento giunge a mettere in radicale discussione i modi mimetico-descrittivi della stagione ottocentesca e opera una sorta di demontage della tradizionale nozione di realismo: l’arte proclama l’emancipazione dal materiale a favore di una deformante visione soggettiva (espressionismo), l’esistenza di una surrealtà da ricercarsi nella dimensione onirica e inconscia (surrealismo), l’autosufficienza del linguaggio (poesia concreta).
Ma il Novecento, nonostante le discontinuità e le rotture con il secolo precedente, non ha cessato di confrontarsi con la questione del realismo, il cui principio estetico è stato ripreso, discusso e infine riattualizzato, come rivelano le numerose neoformazioni che integrano il termine con aggettivi e prefissi (realismo magico, realismo socialista, neorealismo). Nella letteratura europea del XX secolo, sono d’altra parte frequenti i richiami a istanze realistiche e, più in generale, a un ideale di scrittura che non recida il contatto con la dimensione oggettiva e storica, talvolta in aperta contrapposizione ai proclami delle avanguardie.
Nasce negli anni Venti in Germania, come antitesi polemica all’espressionismo, il movimento artistico e letterario della Nuova oggettività (Neue Sachlichkeit) che proclama un’arte radicata nella storia, volta a indagare senza deformazioni soggettive la miseria morale e sociale della Germania postbellica, così come i nuovi fenomeni della cultura di massa. Affermatasi inizialmente nelle arti figurative e in campo musicale, la Nuova oggettività diviene ben presto la tendenza letteraria più rappresentativa della Repubblica di Weimar. Una delle prime pubblicazioni in cui sono apparsi esemplari della nuova prosa è la serie, curata nel 1924-1925 da Rudolf Leonhard, Fuori dalla società (Außenseiter der Gesellschaft), in cui autori come Alfred Döblin e Arthur Holitscher ritraggono emblematici casi criminali e prendono parte a discussioni su attuali questioni giuridiche. Tra i romanzieri che hanno aderito al realismo oggettivo vanno inoltre ricordati Arnold Zweig e Hans Fallada, nonché – limitatamente al romanzo Fabian (1931) – Erich Kästner.
Negli anni Venti, sempre in Germania, lo storico dell’arte Franz Roh conia in uno studio sulla pittura postespressionista (Nach-Expressionismus. Magischer Realismus, 1925) il termine, che avrà fortuna internazionale, di realismo magico. Un rapporto di filiazione – come ha sostenuto, tra gli altri Carlo Carrà – si istituisce tra tale movimento e la pittura metafisica italiana. A differenza della Nuova oggettività, il realismo magico ritrae, in una atmosfera rarefatta e onirica, elementi fantastici e irreali che si celano dietro alla realtà quotidiana. Tradotto già nel corso degli anni Venti in spagnolo, lo studio di Roh viene ben presto recepito in Sud America, dove avrà un influsso decisivo su poetiche di narratori ispanoamericani contemporanei (Alejo Carpentier, Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa).
In Europa sviluppano programmi letterari che vanno sotto il nome di realismo magico autori italiani (Massimo Bontempelli), austriaci (George Saiko), fiamminghi (Johan Daisne, Hubert Lampo). In Italia la prima teorizzazione di questa forma di realismo viene pubblicata da Bontempelli nello scritto Justification che, nel 1926, apre il primo numero della rivista “900”, da lui fondata insieme a Curzio Malaparte. In questa come in altre riflessioni critiche e programmatiche del periodo (poi raccolte nel volume L’avventura novecentista, 1938), Bontempelli teorizza un’arte “di precisione realistica e atmosfera magica” che sappia presentarsi al pubblico come costruzione oggettiva, quasi “anonima”, e sia nel contempo in grado di elaborare miti adeguati alla società moderna, nonché capace di dare risalto all’invenzione, all’intreccio, all’immaginazione. Sul piano dello stile, il singolare realismo bontempelliano è caratterizzato dalla lucidità della scrittura che presenta nitidamente gli oggetti e li avvolge in una atmosfera “metafisica” che può ricordare la pittura del primo Giorgio de Chirico. Opere di Bontempelli ascrivibili a questa poetica sono i romanzi La scacchiera davanti allo specchio (1922), Eva ultima (1923), Il figlio di due madri (1929), Gente nel tempo (1937), così come i lavori teatrali Nostra dea (1925) e Minnie, la candida (1927).
All’inizio degli anni Trenta, per la prima volta nella sua storia, il termine realismo viene impiegato per designare una dottrina artistica, quella del realismo socialista, che in Unione Sovietica viene rigidamente imposta agli scrittori come linea ufficiale. La prima definizione di realismo socialista è formulata da Maksim Gor’kij in uno scritto apparso il 23 maggio 1932 sulla “Literaturnaja Gazeta”, in seguito allo scioglimento – su delibera dei vertici politici sovietici – di tutte le associazioni letterarie nate dopo la rivoluzione e la conseguente istituzione di un organo associativo unico, controllato dal partito. Le linee portanti della nuova dottrina vengono in seguito confermate nel 1934 durante il primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici ed edite sulla “Pravda” il 6 maggio dello stesso anno. Qui il realismo socialista è indicato come “metodo” che esige in letteratura una rappresentazione, storicamente fedele, della realtà nel suo “sviluppo rivoluzionario” e si prefigge come obiettivo “l’educazione” dei lavoratori allo spirito socialista. Alle origini di questa dottrina si trovano le discussioni sull’arte che hanno avuto luogo in Unione Sovietica nei primi decenni del secolo, ma soprattutto alcuni testi di Marx ed Engels che sono stati eletti a fondamento di una estetica marxista. Tra questi va menzionata la celebre lettera del 1888 a Margaret Harkness, dove Engels enuclea una nozione di realismo che, su modello di Balzac, prescrive “accanto alla verità dei particolari, la fedele riproduzione di caratteri tipici in situazioni tipiche”. Si delineano qui alcuni aspetti che contribuiranno a fondare il programma del nuovo realismo: la tecnica di rappresentazione (“verità dei particolari”), il richiamo a un determinato modello di scrittura realista (Balzac), la descrizione della società e delle sue classi (“caratteri tipici in situazioni tipiche”). La lettera è stata per la prima volta edita in Unione Sovietica nel 1931, per essere in seguito compresa nell’antologia che ha raccolto i testi di Marx ed Engels su arte e letteratura (tradotta in russo nel 1933 e in francese nel 1936). Alla prova della prassi, il realismo socialista ha prodotto un’arte omologata, il cui conformismo è stato di frequente denunciato dalla critica occidentale. Mettono in pratica rigidamente questa dottrina un gruppo di nuovi scrittori, alcuni di estrazione proletaria, che nelle loro opere raffigurano le grandi fasi della costruzione della società sovietica, come l’industrializzazione, l’elettrificazione, i piani quinquennali, i kolchoz (le grandi aziende colletive) e in generale la collettivizzazione delle campagne. Tra questi sono da ricordare – oltre allo stesso Gor’kij – Fëdor Vasilevic Gladkov con i romanzi Cemento (1924) ed Energia (1934); Fëdor Panferov con La rivolta della terra (1932) e Lebedinskij con Domani (1935).
La poetica dogmatica del realismo socialista verrà anche esportata oltre i confini nazionali: la guerra fredda e la dottrina Ždanov lo impongono agli scrittori del blocco comunista, ma risalgono già agli anni Trenta le prime adesioni spontanee al suo programma, anche in paesi occidentali. In Francia aderiscono ai suoi precetti, a partire dal 1932, intellettuali comunisti e del Fronte Popolare, in nome di un’arte politicamente impegnata che abbia come oggetto la realtà storica e sociale contemporanea. Tra questi va annoverato Louis Aragon che, nella fase della sua produzione aperta dallo scritto Pour un réalisme socialiste (1935), si è fatto tra gli attivi promotori nella letteratura francese di un retour à la réalité.
Fenomeno tipicamente italiano è il neorealismo, un movimento che si sviluppa negli anni Quaranta in più ambiti culturali (cinema, letteratura, pittura), i cui estremi cronologici non sono facilmente precisabili. C’è chi propone di far risalire l’origine del neorealismo letterario al romanzo Gli indifferenti (1929) di Alberto Moravia, chi la posticipa al periodo postbellico. Critici autorevoli suggeriscono una diversa cronologia e circoscrivono la produzione neorealista agli anni tra il 1943 (inizio della Resistenza) e il 1950 (cui seguirà, nel 1951, l’Inchiesta sul neorealismo curata da Carlo Bo che ha la funzione di tirare un bilancio conclusivo dell’intero periodo). Entro questi estremi temporali, assumono rilievo gli anni 1943-1945, in cui – tra esperienza resistenziale e conclusione del secondo conflitto bellico – nasce la coscienza di una rottura con il passato e s’impone la necessità di una innovazione di forme e contenuti letterari. È in questi anni che viene recuperato (prima in ambito cinematografico, poi letterario) il termine neorealismo che, già in uso negli anni Trenta, viene ora ad assumere una connotazione storica nuova.
Le vicende della guerra e della lotta partigiana costituiscono le tematiche principali della narrativa neorealista e trovano una prima, spontanea formulazione nelle cronache e nei diari di guerra, testimonianze immediate e dirette che contribuiscono a foggiare il tipico stile dei nuovi narratori. I neorealisti prediligono una cronaca nuda degli avvenimenti e attingono ampiamente ai modi dell’oralità: il dialogo acquista un rilievo nella narrazione, il linguaggio della vita quotidiana si colora di varietà regionali e dialettali. Ma il rapporto coi dialetti resta ambiguo: a venir rivendicato è il loro valore di diretta testimonianza della vita popolare, l’uso si riduce tuttavia molto spesso a qualche citazione vernacola, senza che venga perseguita una vera e propria intenzione sperimentale. Sono classici della narrativa neorealista i romanzi Uomini e no (1945) di Elio Vittorini; Racconto d’inverno (1945) di Oreste Del Buono; Pane duro (1946) di Silvio Micheli; Spaccanapoli (1946) di Domenico Rea; Cronache di poveri amanti (1947) di Vasco Pratolini; Il sentiero dei nidi di ragno (1947) di Italo Calvino; Il cielo è rosso (1947) di Giuseppe Berto; L’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò, cui va aggiunto Il compagno (1947) di Cesare Pavese, a giudizio di alcuni l’unica prova ascrivibile al neorealismo dello scrittore, orientato piuttosto a sviluppare una originale poetica che coniuga motivi mitici e simbolici. Seppur marginale rispetto alla produzione narrativa, si è affermata in Italia anche una poesia neorealista che annovera nomi di rilievo come Elio Filippo Accrocca, Rocco Scottellaro e il Quasimodo di Giorno dopo giorno (1946). Abbassamento prosastico, figuralità controllata, rappresentazione del mondo operaio e contadino sono le principali costanti di questa stagione poetica. Segnano la definitiva conclusione del periodo neorealista le accese polemiche che sono seguite all’uscita del romanzo Metello (1957) di Pratolini, accusato di astrattezza e populismo consolatorio. A profilarsi nel campo letterario italiano sono nuove istanze e tensioni che porteranno negli anni Sessanta all’affermazione del neosperimentalismo e della neoavanguardia.
Tutt’altro che archiviato alla soglia del nuovo secolo, il problema del realismo percorre quindi l’intero Novecento e con esso si confrontano poetiche, dottrine, programmi letterari che, in diversi contesti nazionali e storici, elaborano con esiti differenti il rapporto tra arte e realtà, tra mondo finzionale e referente. Anche nell’ambito della teoria letteraria sono numerosi i contributi che, nel corso del XX secolo, si misurano con il fenomeno del realismo.
Tra i formalisti russi, è Roman Jakobson che già nel 1921 denuncia il “contenuto estremamente vago” del termine e critica il principio su cui si fonda la sua accezione più comune – quello classico della verosimiglianza – per portare l’attenzione sia sulla variabilità storica dell’idea di realismo sia sul momento della ricezione dell’opera da parte del pubblico. Anche “la tendenza a deformare i canoni artistici in voga” (tipica delle avanguardie e delle sperimentazioni letterarie novecentesche) può essere ascritta secondo Jakobson al principio del realismo, poiché rompe con l’abitudine delle forme conosciute e può produrre, più di queste, un “riavvicinamento alla realtà”. Elegge invece a modelli due realisti dell’Ottocento come Balzac e Tolstoj, il marxista György Lukács che elabora la teoria estetica del rispecchiamento e interpreta quindi il realismo come riproduzione, il più possibile oggettiva, dell’“empiria” in tutti i suoi problemi e contraddizioni. A partire da tali presupposti Lukács rivolge negli anni Trenta una dura critica all’espressionismo e accusa le avanguardie in genere di essere un prodotto della moderna decadenza. Posizione critica nei confronti del filosofo ungherese è assunta da Bertolt Brecht in più scritti, alcuni dei quali (come i notevoli contributi al dibattito sull’espressionismo) verranno pubblicati solo negli anni Sessanta. Centro polemico della sua argomentazione è l’idea che le tecniche della letteratura realista siano soggette a mutabilità storica e che il modello di realismo proposto da Lukács sia quindi inattuale: “Se accogliessimo senza un radicale vaglio le forme di un Balzac o di un Tolstoj, forse stancheremmo i nostri lettori, […]. Il realismo non è una mera questione di forma. Copiando lo stile di questi realisti non saremo più dei realisti. […] Muta la realtà; per rappresentarla, deve mutare il modo di rappresentazione”.
Sulla stessa linea si colloca la critica alle posizioni lukácsiane di Theodor Adorno che si dichiara per un realismo non prescrittivo, ma flessibile e in grado di adeguarsi alla rappresentazione della realtà contemporanea tramite lo sviluppo di nuove tecniche, quali il montaggio e il flusso di coscienza. Un’indagine sulle diverse forme della letteratura realista è stata svolta dal romanista Erich Auerbach nell’ampio studio Mimesis (1946), che ripercorre la storia del realismo europeo dagli antichi tempi biblici e omerici sino al Sei e Settecento, per giungere, attraverso il nodo centrale del realismo moderno ottocentesco, sino a scrittori come Marcel Proust e Virginia Woolf. Nella scelta di un esemplare filone realista, Auerbach assume un criterio stilistico e interpreta il realismo come infrazione della classica teoria dei “livelli” di stile. Nuovi impulsi alle riflessioni teoriche sul tema ha dato infine Roland Barthes con la ripresa dell’idea di vraisemblance (verosimiglianza) da una prospettiva strutturalista. A partire dall’analisi di un “dettaglio concreto” che compare in un passo di Un cœur simple di Flaubert, Barthes mette a fuoco quelle tipiche strategie testuali che producono un “effetto di reale” (effet de réel). Tra queste si trovano “dettagli inutili”, non funzionali allo svolgimento narrativo, che hanno come unica funzione quella di creare nel lettore una illusione “referenziale”; illusione che è il fondamento della letteratura realista.