Realismo
di Corrado Maltese e Mario Verdone
REALISMO
Realismo e neorealismi di Corrado Maltese
sommario: 1. Il realismo e le sue varianti: a) gli estremi concettuali del realismo; b) il realismo come vicenda storica: le premesse ottocentesche; c) realismo e realismi oggi. 2. Il neorealismo in Italia e in Francia: a) vicende e valori del termine; b) caratteri e fasi del movimento. □ Bibliografia.
1. Il realismo e le sue varianti
a) Gli estremi concettuali del realismo
La comprensione esatta del termine realismo e delle sue numerose implicazioni non può essere raggiunta senza almeno un riferimento a un fitto gruppo di concetti a esso connessi, il cui valore sfuma dal filosofico al teologico, dallo storico al politico: realtà, reale, realistico, verismo, arte realista, arte astratta, arte figurativa, arte del reale, realismo socialista, realismo magico, neorealismo, nuovo realismo, iperrealismo e così via. In questo magma di concetti è evidente che, nel corso storico della cultura, il pensiero logico-filosofico ha interagito (e continua a interagire) con l'attività pratica, tecnica in senso lato e artistica in senso stretto, determinandone le forme, ma anche - trovando in queste ultime continue verifiche e sconfessioni e subendone pertanto a sua volta l'influenza. Le forme nell'arte egizia non sono pensabili senza l'assunto di un divario radicale tra il mondo delle cose oggettive, materialmente concrete, e la loro trascrizione analogica in colori, sagome e rilievi secondo un codice esattamente definito. Prima del trionfo del cosiddetto naturalismo ellenico, nel mondo greco domina un pensiero formale astraente, di rigore simile a quello egizio, cui non è certo estraneo il tentativo eleatico di definire l'Essere, cioè il reale per eccellenza, secondo la logica della contrapposizione irriducibile tra ‛realtà' e apparenza, staticità come assoluta durata e movimento come effimera contingenza. Quando l'idealismo platonico giunge a orientare la creazione di forme artistiche concrete, esso dà luogo non solo alla pragmatica metodologia di combinare forme tipiche attraverso la selezione di più aspetti ‛belli' di un mondo in parte bello e in parte brutto, ma dà luogo anche alla più completa e insidiosa teorizzazione dell'attività artistica sia come attività critica sia come attività teologica e in ogni caso politica. L'eclettismo classicista, che, conciliando mimesi e simbologia e interagendo anche con le culture estremo-orientali, ha ispirato per millenni dapprima il naturalismo ellenico, poi il neoplatonismo e il cristianesimo del tardo impero e dell'età bizantina, poi il Rinascimento e tutte le reviviscenze classiciste e neoclassiciste, è impensabile senza una nascosta o esplicita affermazione che il pensiero aprioristico è il vero e reale e che le forme materiali e sensibili sono soltanto una più o meno imperfetta e labile incarnazione di quel pensiero. Le dispute scolastiche sugli universali, e poi le controversie sull'idealismo empirico, sul noumeno kantiano, sull'idealismo e sul pragmatismo e finalmente sul materialismo dialettico, possono essere via via interpretate come altrettanti risvolti teoretici generali di specifiche dominanti formali: più inclini da una parte all'idealizzazione di matrice classicista (si tratti del bello e del sublime); dall'altra, a una dialettica adesione all'hic et nunc di stampo prima barbarico, poi più raffinatamente mediato (basti pensare alla cultura artistica romanica e a quella gotica).
Così, le essenziali opposizioni formali non sono, epoca per epoca, troppo difficilmente tracciabili: ai bronzi e agli argenti ellenistici, etruschi e romani si oppongono le figurazioni disgregate delle monete celtiche e il calderone di Gundestrup; alle miniature neoellenistiche della Bisanzio del IX secolo si oppongono quelle celtiche e norrene del libro di Durrow e degli evangeliari di Lindisfarne; a Raffaello si oppone Grünewald; ai Carracci si oppone Caravaggio; al Pannini si oppone Hogarth; al Mengs, Goya; al limitato verismo (o allo pseudoverismo) accademico degli ultimi cento anni, l'eversione formale di Picasso e di tutte le avanguardie fino a oggi. Di fronte alla combinatoria eclettica si oppone il metodo della diretta osservazione dal vero.
Ma non si tratta così semplicemente di un'opposizione tra mimesi e antimimesi, perché può darsi una schematizzazione fino all'ideogramma, del tutto realistica, e una figurazione naturalistica (tendenzialmente di pieno iconismo) del tutto idealizzante e ‛astratta', a dispetto delle apparenze. La massa delle definizioni formali contenuta nell'opera iconica non è di per sé sufficiente a determinare un contenuto informativo ricco, così come non lo è di per sé l'eventuale struttura ‛astratta' o in cifra dell'opera aniconica. La ricerca di forme iconiche fino all'illusionismo (si pensi a certe pratiche di vedutismo settecentesco fino ai Panorama, e, piu recentemente, alle vedute stereoscopiche e al Circarama) non fanno di per sé ‛realismo'. Contano di più, invece, momento storico per momento storico, le proposte di riferimenti capaci di incontrarsi e collimare con riferimenti significativi propri della massa di coloro ai quali l'opera è destinata in visione più o meno durevole e dei codici istituzionalizzati cui i destinatari sono addestrati.
Perciò se all'opera realistica s'intende attribuire uno speciale valore in quanto capace di trasmettere un superiore contenuto informativo, è inevitabile che si ammettano tanti realismi quante sono le condizioni sociolinguistiche in cui si manifesta e, dunque, che si ammetta la rigorosa relatività di ogni realismo.
Si spiega così il continuo rifiorire di reviviscenze neorealistiche più o meno teoricamente giustificate; si spiega così - ancora - la qualifica di ‛realistica' che può essere attribuita a un'opera come riconoscimento dell'ottenuto successo nella strategia della comunicazione; ma non si spiega il filo conduttore che unisce nei secoli gli artisti e le opere che più spesso vengono chiamati in causa nelle esemplificazioni del filone ‛realista'. Questo appare evidente solo se si pon mente alla funzione ‛politica' della tradizione classicista: il suo ruolo unificante è stato sempre realizzabile solo a patto di occultare o mascherare i problemi e le contraddizioni, donde l'opposto ruolo di un'arte rivolta a mettere in luce e svelare le contraddizioni e i conflitti, sia nei tempi che nelle forme, l'orrore e la violenza, la morte e il male, la follia e la falsità, il ributtante e il perverso, e così via. Di riflesso anche questa funzione anticlassicista ha assorbito l'assunto totalizzante del classicismo. Di fronte all'esclusivismo del positivo è emerso l'esclusivismo del negativo. Ma la pretesa totalizzante nega esattamente il realismo, che - se vuole essere dialettico e quindi vivo - è sempre scelta di una parte e consapevolezza di parzialità. E quell'opera di disvelamento delle contraddizioni non si identifica né sempre, né necessariamente, con il linguaggio analogico dell'iconicità (basti pensare, se si accettasse tale identità, alla difficoltà di individuare un'architettura o un oggetto d'uso ‛realisti').
Ciò posto, è necessario ancora far cenno di un ultimo e non indifferente problema: in che relazione è il realismo con l'artisticità? Può darsi un'opera pienamente realista e al tempo stesso priva di artisticità e, viceversa, un'opera sicuramente artistica, ma priva di realismo?
Si tratta evidentemente di due casi al limite e si può rispondere positivamente a entrambi e alla loro combinazione solo se si eviti di identificare inavvertitamente il concetto di realismo con il concetto di biunivocità nella corrispondenza tra denotante e denotato. Il carattere autoriflessivo e polivoco dell'opera d'arte messo in rilievo dallo strutturalismo moderno (da R. Jakobson in poi) impone infatti di escludere il concetto di corrispondenza biunivoca sia dalla rappresentazione artistica iconica sia da quella aniconica. La corrispondenza polivoca tra denotante e denotato non basta a caratterizzare l'esteticità (e l'artisticità), se non è l'anticamera della definalizzazione (o destrumentalizzazione) del messaggio, che è oggi il raggiungimento (positivo o negativo, qui non importa) della più diffusa teoria dell'arte. Un realismo artistico è dunque oggi possibile non solo a patto che abbandoni il concetto di biunivocità, ma anche a patto che abbandoni il concetto di strumentalità. Biunivocità e strumentalità potrebbero essere tollerate come conseguenza involontaria, ma non certo come fine intenzionale.
b) Il realismo come vicenda storica: le premesse ottocentesche
Se entro certi limiti il conflitto più o meno latente tra un'arte ‛realista' e un'arte ‛idealista' è rintracciabile fin dalla preistoria della figurazione (il tentativo è stato fatto in Mimesis da E. Auerbach), se è innegabile che nella figurazione piana un'immagine ricavata con il tocco o macchia (dai dipinti del Fayyūm a Vermeer, ai veristi dell'Ottocento, alla fotografia) è di solito l'indizio di una diretta osservazione del vero, che si contrappone a una costruzione lineare e aprioristica della forma, è però un fatto che una prima esplicita teorizzazione del realismo si ha soltanto con il Manifesto del realismo presentato da G. Courbet nel 1855 nel suo Pavillon du réalisme allestito a Parigi in occasione dell'Esposizione universale di quell'anno. La sua frase del 1849 (lettera a Peisse), ‟bisogna incanagliare l'arte", e l'altra del 1861 (lettera a un gruppo di colleghi), ‟la pittura storica è essenzialmente contemporanea", esprimono bene la volontaria negazione delle idealizzazioni da parte del realismo e la ricerca di un ‛vero' capace di identificarsi appunto in quella negazione. Tuttavia l'atteggiamento di Courbet non va inteso rigidamente: egli stesso desumeva liberamente i suoi motivi non solo e non tanto dalle prime fotografie in circolazione, quanto dai classici della pittura, in primo luogo da Michelangelo (conosciuto verosimilmente attraverso le stampe). In ogni caso l'anno 1855 segna soltanto il culmine di un processo che aveva incoraggiato in tutta Europa gli artisti a eseguire studi dal vero non soltanto per trarne elementi di composizioni più elaborate e accademicamente accettabili, ma anche per considerarli fini a se stessi. Da H. de Valenciennes a Corot, da Cotman a Constable, dallo stesso Ingres ai numerosi pittori nordici (soprattutto olandesi e fiamminghi, tedeschi, russi) di stanza in Italia, è continuo il dilatarsi, per tutta la prima metà dell'Ottocento, della notazione diretta delle cose visibili (paesaggi, ritratti, oggetti) ora aneddotica, ora intimista, ora garbatamente polemica. Gli italiani, dai Palizzi al Signorini, dai macchiaioli ai primi esponenti della scapigliatura, partecipano, attraverso il grande movimento verista (che protagonisti come il Cecioni identificano con il realismo), al generale movimento realista e verista delle culture occidentali. Negli Stati Uniti, alle lucide registrazioni di G. C. Bingham (Cacciatori che discendono il Missouri, del 1845) seguono le cronache esatte del primo W. Homer (Scuola di campagna nella Nuova Inghilterra, 1871) e quelle di Th. Eakins (La clinica del dott. Gross a Filadelfia, 1875), che fu anche un importante fotografo (questa tradizione statunitense si protrae bene addentro nel Novecento). In Russia si preferiscono composizioni più ampie e allusioni complesse che preannunciano il verismo sociale dello scorcio dell'Ottocento e perfino l'attuale ‛realismo socialista'. Si rammentino per esempio G. Perov (L'annegata, 1867) e V. V. Vereščagin (L'attacco di sorpresa, 1871), mentre J. N. Kramskoj mette in scena in forme del tutto veriste, simili a quelle dell'italiano D. Morelli, episodi della vita di Cristo (Cristo nel deserto, 1872), ispirandosi al Renan. In Ungheria, in Austria e in Germania l'influsso di Courbet è molto forte: rappresentato sia nello stile che nell'inclinazione politica dei temi dall'ungherese M. Munkácsy e rappresentato con più varietà nei paesi di lingua tedesca da F. von Uhde, W. Leibl, A. von Menzel (si ricordi di Leibl il notissimo dipinto Tre donne in chiesa, 1878-1882). Presenze minori ma non meno significative di pittura verista si registrano dovunque: in Boemia, nei Paesi scandinavi, nelle Fiandre, nella Penisola iberica. Il risvolto (e forse la motivazione più pungente) del fenomeno è rappresentato da una generale diffusione delle filosofie materialistiche positiviste e dalla diffusione della fotografia, che impone ai pittori (in Francia già da Delacroix) un confronto continuo con i fotografi e una serie di interazioni difficilmente ripercorribili e ancora poco studiate. In questo campo emergono i grandi nomi di Niepce, Daguerre, Talbot, Fenton, Muybridge, Eakins, Primoli, Rejlander, Stieglitz. Quel che la fotografia non può fare è la grande ricostruzione e ricomposizione storica verista, e si spiega come alcuni pittori di grande talento, specialmente (ma non soltanto) in Russia, tra lo scorcio dell'Ottocento e i primi anni del Novecento mettano in scena, celebrando episodi di storia patria, centinaia di figure su tele enormi, studiatissime e audaci: i russi I. E. Repin (La processione nel governatorato di Kursk, 1880-1883) e V. I. Surikov (La boiarda Morosova, 1887); il polacco J. Matejko (Giovanni Sobieski sotto le mura di Vienna), ecc. In Italia - di analoga ispirazione - si ricordino le tele di T. Patini e di F. P. Michetti (Le serpi e Gli storpi). Quest'ultimo è stato oggi meglio valutato anche in relazione al suo largo uso della fotografia come strumento di lavoro.
Nel XIX secolo, particolarmente tra romanticismo e verismo, la scultura si sviluppa in larga misura secondo principi veristi: abbandona le superfici levigate e patinate, si cimenta con la resa delle lane, dei rasi, dei merletti, delle capigliature, raggiungendo livelli estremi di virtuosismo. Ma poiché il ‛realismo' non si identifica di necessità con la mimesi, sono molto più ‛realiste' le opere plastiche di Daumier in apparenza solo sbozzate (la serie dei ritratti di parlamentari, il Ratapoil, la Lavandaia del 1855) che le principali opere di veristi sociali quali V. Vela o A. D'Orsi. Invece, alla fine del periodo, la Danzatrice col tutù di Degas (1880-1881) introduce nella materia classica della scultura, cioè nel bronzo, la sottile ed effimera materia ready made del tessuto del gonnellino.
Una componente non trascurabile di realismo, da Manet a Monet, è nell'intera vicenda dell'impressionismo francese, dove il retaggio di Courbet è - tra gli altri - innegabile.
c) Realismo e realismi oggi
Il rimescolamento provocato dalle avanguardie del primo Novecento orienta molti artisti, verso il 1905-1910, piuttosto sull'analisi e la sperimentazione formale che non sulla dinamica sociale. L'innegabile ‛realismo' della pittura e della scultura futuriste di Boccioni, così come il ‛realismo' dell'opera di Picasso, è avvertibile solo attraverso un fitto groviglio di allusioni simboliche. Lo stesso può dirsi per il funzionalismo ‛costruttivista' di Tatlin (si pensi al suo progetto per il monumento alla Terza Internazionale) e di altri. Tra i protagonisti del cubo-futurismo attenti ai contenuti sociali non deve essere dimenticato F. Léger. Tuttavia, nello stesso periodo e in quello che precede la seconda guerra mondiale gruppi consistenti di artisti continuano a produrre opere direttamente correlate ai conflitti della società. Nell'Unione Sovietica dagli Ambulanti e dai protagonisti del verismo storico patriottico dell'Ottocento si sviluppa un tipo di iconismo che costituisce il nerbo del realismo socialista, enunciato teoricamente da A. Fadeev nel 1931 in occasione della prima Assemblea degli artisti e letterati sovietici. Esso è tuttora protagonista egemone della cultura artistica dell'URSS. In Germania la protesta sociale di K. Kollwitz (di cui è bene rammentare il ruolo anche nella scultura, assieme a quello di E. Barlach) si differenzia dal fitto stuolo dei pittori della Neue Sachlichkeit per la quasi totale indifferenza alle molte suggestioni stilistiche di quelli: l'espressionismo, il cubismo, il dadaismo, la tradizione del rinascimento tedesco, ecc. (O. Dix, G. Grosz, H. Davringhausen, H. Höch, C. Schad, R. Schlichter, F. Radziwill, J. Hartfield, ecc.). Nel Messico, dopo il grande e autonomo esempio dell'incisore J. G. Posada, la scuola dei muralisti (capitanata da J. C. Orozco, D. Rivera e D. A. Siqueiros) unisce le più varie suggestioni primitiviste, cubiste, espressioniste e simboliste attorno ai temi della storia patria, della protesta sociale e della lotta politica esplicita. Negli Stati Uniti, mentre E. Hopper prosegue in forme moderne la tradizione del verismo ottocentesco, B. Shahn utilizza tutte le suggestioni stilistiche delle avanguardie.
Il crogiuolo della resistenza all'imperialismo nazista, le cui predilezioni iconiche furono ancor più rigide di quelle sovietiche (si pensi a Hitler pittore), unificò in certo senso istanze sociali e istanze politiche fino all'affermarsi di un nuovo realismo durante e dopo la seconda guerra mondiale. Il neorealismo italiano, del quale - assieme a quello francese - si dà a parte un esame specifico, appare nel suo insieme, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, come un importante anche se breve tentativo di esprimere una sintesi tra istanze sociopolitiche e istanze formali già maturate tra le due guerre. Tuttavia, già intorno al 1950, la formula neorealista fu resa meno attuale dalla divaricazione tra l'irrigidito realismo socialista dell'URSS e la travolgente espansione dello sperimentalismo formale di ogni tipo (prima di tutto aniconico) nei paesi occidentali. La ‛linea' del realismo socialista fu allora proposta nell'URSS come centrale e alternativa rispetto agli estremi del ‛formalismo borghese' occidentale e del ‛naturalismo acritico', ma l'assunto dell'intoccabilità del linguaggio iconico svuotò ben presto questa linea di ogni contenuto dialettico trasformandola in un realismo soltanto apparente. Peraltro, nei paesi dell'Est europeo, dopo un breve periodo di conformismo, il ‛realismo socialista' non fu dappertutto seguito pedissequamente o non fu seguito affatto: in Romania si riprese una linea allusiva e semiastratta ispirata alla tradizione di C. BrâncuŞi; nella Germania Orientale fu ripresa la tradizione espressionista tra Kokoschka, la Kollwitz e la Neue Sachlichkeit e oggi si sostiene un iconismo immaginifico e colto come quello di W. Tübke. In Polonia si è giunti a forme di sperimentalismo pari a quelle occidentali fino a fondere pittura e teatro (Szajna, Grotowski, Kantor). In Ungheria si è sviluppato uno sperimentalismo aperto capace di riproporre l'attualità di artisti come V. Vasarely. Tra il 1960 e il 1970 lo sperimentalismo occidentale manifestò una rinnovata attenzione per le forme iconiche lanciando successivamente il movimento della pop art (Rauschenberg, Lichtenstein, Oldenburg, ecc.), il movimento del nouveau réalisme (patrocinato soprattutto dal critico P. Restany e capeggiato da Arman, César, Rotella, Tinguely, Christo, Klein, Raysse, Manzoni e altri) e il movimento iperrealista, considerato da molti come una filiazione della pop art (M. Pistoletto, M. Morley, G. T. Carmei, F. Gertsch, J. De Andrea, P. Sirkisian, J. Salt, D. Hanson, ecc.). Nonostante la presenza del termine ‛realismo', da questi indirizzi è emerso solo sporadicamente un disvelamento delle contraddizioni e delle conflittualità dell'esistente che non fosse circoscritto alle strutture linguistiche. Nell'ambito pop probabilmente E. Kienholz costituisce una grande e significativa emergenza nel senso del realismo critico, mentre nell'ambito iperrealista le opere di M. Boyle (incredibili sezioni trompe l'oeil, tridimensionali e a grandezza naturale, di pareti rocciose, binari ferroviari, marciapiedi) sconvolgono le attese più agguerrite rimettendo in questione tutte le implicazioni della raffigurazione iconica integrale.
2. Il neorealismo in Italia e in Francia
a) Vicende e valori del termine
Da chi - in Italia - intendeva collegarsi, dopo la fine della seconda guerra mondiale, a un realismo di grande respiro storico e geografico, il termine neorealismo venne più volte respinto. R. Guttuso scriveva: ‟Da qualche tempo si parla, in Italia, a diritto e a rovescio, di ‛neo-realismo'. Ho buone ragioni per aborrire questo termine equivoco e giornalistico. Questa formula, forse perché essendo stata usata per il cinema è rimasta nell'orecchio più facilmente, ha avuto in Italia molta fortuna. Fortuna non nel senso che se ne sia detto bene, o che se ne sia parlato ragionevolmente, ma nel senso che questa formula è diventata uno dei poli a cui facilmente riferirsi quando si vuole parlare in fretta. Dicendo ‛neo-realismo' i troppi mestatori che si occupano, non si sa perché, di pittura, hanno avuto modo di fare le peggiori confusioni. Bastava identificare attraverso un groviglio di forme cubisteggianti un tema relativo al lavoro per classificare subito quel quadro o quella statua nel movimento neo-realista. I tentativi da noi fatti per liberarci di questo ‛neo' dobbiamo confessare che non hanno ancora avuto successo. Tuttavia vorrei ripetere che quelli tra gli artisti italiani che tendono a un'arte di forme umane, chiare e leggibili, esprimenti una determinata azione, un determinato contenuto legato alla realtà della vita contemporanea, respingono l'appellativo di ‛neo-realisti' e aspirano a quello più ambizioso, ma più coerente alle loro intenzioni e alle loro idee, di ‛realisti'. L'espressione ‛neo-realista' è infatti, in pittura, priva di senso. Realistica è quell'arte che conduce a una sempre più completa e profonda scoperta della realtà, realismo vuol dire espressione della realtà la quale non è ideale eterno e immobile ma continuamente si muove, si sviluppa e trasforma" (v. Guttuso, 1952, p. 80).
Naturalmente non è lecito chiedere a questo e altri simili testi un pieno rigore filosofico-concettuale: infatti identificare ‛realismo' con ‛espressione della realtà', sia pure concepita come ‛realtà in movimento', non è molto di più che una tautologia. Tuttavia il documento è sintomatico di una fase di tensione difensiva dello schieramento realista e comunque spiega almeno in parte la successiva adozione della denominazione ‟Realismo" imposta alla testata della rivista ufficiale del raggruppamento (tale rivista fu varata nel giugno 1952 e cessò di vivere nel maggio del 1956). Il brano di Guttuso è però anche sintomatico perché denuncia implicitamente il carattere frammentario ma ormai diffuso (e proprio per questo pericolosissimo per il movimento) dell'uso del termine ‛neorealismo'. In realtà è molto difficile stabilire quando tale termine sia stato usato per la prima volta. È però molto probabile che esso sia stato usato di passaggio e in scritti effimeri su quotidiani e periodici immediatamente dopo le prime sortite teoriche in cui gli artisti ‛realisti' si definirono come tali. Tra questi scritti teorici deve essere indicato al primo posto per organicità e chiarezza un articolo di M. De Micheli dal titolo Realismo e poesia, apparso nel febbraio 1946 nella rivista ‟Il '45" (n. 1, pp. 35-44). Tuttavia a Roma, nell'ottobre del 1945, era già apparso nella rivista ‟Ariele" un articolo di C. Claudi dedicato all'esame dei possibili valori del termine ‛realismo', e prima ancora (marzo 1945) M. Mafai aveva pubblicato su ‟Rinascita" un articolo dal titolo Possibilità per un'arte nuova, dove, senza usare il termine realismo e anzi rifiutando ogni etichetta, tratteggiava con prudenza e tuttavia con grande acutezza, adoperando molto sobriamente solo il termine ‛realtà', le caratteristiche di una nuova pittura: ‟La forma è quella che assume maggiore significato. Per spiegarci, una donna del popolo dipinta con tecnica post-impressionista o espressionista o cubista, varrà meno del ritratto del commendatore se questo esprimesse qualcosa di più fermo e nuovo. Una nuova forma perciò non può essere sciatta, tenere quell'andatura distratta e ispirata a un pessimismo più rifatto che originale; se si deve pensare che la società di domani avrà basi più solide e illuminate, un modo simile non sarebbe giustificato, né sarebbe giustificato in un processo di rinnovamento; perciò penso che la forma ha bisogno di maggiore precisazione, di un'aderenza alla realtà in senso più vivo, quasi da creare una nuova dimensione".
Lo scritto di Mafai implicava, a differenza di quello di De Micheli, un fortissimo interesse per i problemi formali-tecnici e (del resto al pari di quello di Claudi) una profonda diffidenza per le definizioni categoriali.
Di fronte a tale prudenza, tipica degli esordi del movimento, si può dire che, fintanto che le esigenze di schieramento non spinsero i ‛realisti' ad autodefinirsi in modo rigido, il termine neorealismo fu usato sporadicamente. Era infatti chiaro che questa etichetta serviva a combattere il movimento, in quanto lo riduceva a un episodio di revival storico, già definito e sostanzialmente concluso. Si può dire che in linea di massima il termine fu usato da tutti coloro che non credevano a un'arte ‛realista' o avevano delle riserve su di essa o l'avversavano decisamente. Da tutti gli avversari del movimento fu adottato l'accorgimento di non discutere mai il ‛realismo' come movimento o addirittura di non nominarlo, e di prendere in considerazione di volta in volta solo questo o quell'artista, oppure di parlare tutt'al più di ‛neorealismo'.
I termini ‛realismo' e ‛neorealismo' sono stati usati anche dopo la cessazione della rivista ‟Realismo" (1956), talvolta con accezioni curiose. T. Sauvage, nel suo Pittura italiana del dopoguerra del 1957, in un capitolo intitolato Il realismo (pp. 68-75), rende omaggio al movimento neorealista - che però chiama ‛realista' - circoscrivendolo agli anni tra il 1938 e il 1955, ma curiosamente in un capitolo successivo (pp. 190-196), prima di esaminare le proposte di gruppo emerse tra il 1955 e il 1957 a opera di artisti che chiama ‛realisti espressionisti' (Brindisi, Migneco, Guerreschi, Romagnoni, Banchieri, ecc. e, per analogia, i francesi Lorjou e Rebeyrolle), dichiara che il termine neorealismo non è più adoperabile per questi ultimi come avrebbe desiderato - perché ormai è irreversibilmente legato al movimento ‛realista', cioè ‟proprio a quel movimento che non ha saputo essere ‛neo'" (p. 191). Questa citazione attesta chiaramente in modo indiretto e paradossale che, nonostante la mancanza di una letteratura artistica specifica chiaramente documentabile, al momento della cessazione della rivista ‟Realismo" il termine neorealismo era divenuto in effetti - al di fuori del ristretto gruppo degli interessati - linguisticamente dominante per indicare il movimento realista anche per chi, come il Sauvage, aveva dedicato al ... ‛neorealismo' un capitolo intitolato Realismo. Per questi motivi, e con le conseguenti riserve, chiameremo d'ora in poi ‛neorealista' il movimento artistico svoltosi in Italia con caratteri di revival realistico tra il 1945 e il 1956.
b) Caratteri e fasi del movimento
La critica mossa da Sauvage ai neorealisti di non aver saputo essere ‛neo' era motivata con l'argomento che essi ‟avevano solo approfondito, ma non rinnovato e attualizzato le premesse formali e ideali del realismo dell'Ottocento". In certo senso tale critica è poco chiara, ma contiene un aspetto di verità; all'inizio, nel 1945, il modello, al Nord, è infatti Picasso, mentre l'Ottocento è un avversario da combattere in blocco. Solo tardi a Milano si tenta il recupero meditato di Courbet come guida ideale (la raccolta degli scritti di Courbet curata da De Micheli e Treccani con il titolo Il realismo appare solo nel 1954, in corrispondenza con la mostra di Courbet alla Biennale di Venezia, e sulla scia delle pubblicazioni francesi: la monografia di Aragon è del 1952). Tuttavia non si deve dimenticare che a Roma, nella mostra L'arte contro la barbarie, allestita nell'agosto-settembre 1944, si presentavano copie libere di opere di David (Marat assassinato, eseguita da Rambaldi), di Goya (Fucilazioni del 3 maggio, eseguita da Guttuso), di Rude (La marsigliese, eseguita da Mirko), di Delacroix (La libertà che guida il popolo, eseguita da Mafai), di Toma (Roma o morte, eseguita da De Mata), e c'era anche una copia dal Trionfo della guerra di Vereščagin. Cioè si cercavano nell'Ottocento modelli validi per una nuova arte, impegnata - su un piano etico e politico - in senso opposto a quello fascista e borghese, e - su un piano formale - in senso verista. In seguito, sempre a Roma, la ricerca di precedenti veristi e realisti nella storia artistica dell'Ottocento fu una costante: si manifestò di frequente nella rivista ‟Realismo" (articoli su Manet, su Gemito, sull'impressionismo, sul verismo ottocentesco italiano), e diede luogo a studi anche sistematici e fuori dello stretto ambito dello schieramento realista. Tuttavia il divario tra Milano e Roma intorno al 1945 era assai più profondo di quanto non apparisse dall'atteggiamento nei riguardi dell'Ottocento. A Milano l'interesse per il Picasso di Guernica era condizionato da un lato dall'eredità sensibilista, espressionista e in certo senso neoromantica del movimento di Corrente, dall'altro dal formalismo astrattista, giudicato ‛accademico', e perciò respinto, ma pur sempre subito - quasi con un complesso di colpa - come un richiamo stimolante allo ‛specifico' dell'arte, ai puri valori dell'invenzione, del tessuto pittorico, della fantasia individualizzata. Una spinta analoga si esprimeva a Parigi, auspice il critico P. Francastel, attorno a L. Gischia, P. Tal Coat, E. Pignon, A. Fougeron (allora picassiano) e - s'intende - allo stesso Picasso.
A Roma, dove la presenza astrattista era nell'anteguerra praticamente inesistente, l'interesse per l'Ottocento era condizionato da un lato dall'eredità dell'antinovecentismo di tipo pittorico-sensibilista ed espressionista, dall'altro dal forte interesse per la forma iconica implicito nella tradizione ‛metafisica' e negli aspetti veristi dell'arte moderna da Caravaggio a Gemito o Mancini. L'influenza del Meridione era in tal senso determinante. In ogni caso a Roma era condizionante anche l'influenza del cinema, più che mai interessato, ovviamente, alla tradizione iconica e presente attraverso l'attività dei suoi centri di produzione e di esponenti di primo piano molto attratti dalla pittura, come U. Barbaro, L. Chiarini, C. Zavattini, V. De Sica, R. Rossellini, G. De Santis, L. Emmer e altri. Anzi fu proprio Barbaro a teorizzare nel 1948 in un libriccino (Le ricche miniere della pittura contemporanea) la possibilità di un realismo che partisse addirittura dalla tradizione di Caravaggio. Infine a Roma assumeva molto peso l'atteggiamento delle centrali politiche e culturali, soprattutto dei partiti politici.
Naturalmente attorno a Milano gravitavano artisti di altre città, come Bologna, e soprattutto Venezia, mentre a Roma gravitavano artisti del Centro e del Sud: perciò il divario assunse diverse e complesse sfumature e colorazioni.
Negli anni successivi al 1946, e fino al 1953, il contrasto tra Nord e Sud si attenuò o finì addirittura per scomparire. Tuttavia la pressione delle direttive ideologiche del Partito Comunista Italiano, forte soprattutto a Roma tra il 1948 e il 1952, contribuì a rafforzare la tendenza centrifuga degli artisti: le personalità più insofferenti di condizionamenti programmatici si allontanarono subito dallo spirito e dalle forme del movimento neorealista. All'esaurirsi del movimento (1956) quasi tutti i protagonisti agivano ormai isolati o in schieramenti diversi o addirittura contrastanti.
Nei paesi europei si sono avuti fenomeni simili al neorealismo italiano, ma nessuno che gli assomigli per complessità e acutezza di contraddizioni. L'arte che documenta la resistenza contro il fascismo, il nazismo e il franchismo costituisce un materiale molto ricco per una storia politica dell'arte, che, a seconda dei diversi paesi, può apparire simile a quella del primo neorealismo. Essa è stata oggetto di esposizioni importanti (Torino, 1965) e di qualche studio, ed è certo che nessi tra il neorealismo italiano e gli eventi artistici francesi, tedeschi e del resto d'Europa esistettero e sono ulteriormente delucidabili. Tuttavia il particolare peso del Partito Comunista Italiano nei fatti culturali del dopoguerra e, in modo specifico, la forte influenza dell'eredità teorica di Gramsci sono stati in certa misura determinanti nel dare all'arte sviluppatasi in Italia dall'epoca della Resistenza una fisionomia peculiare e un esito che rende il neorealismo italiano un fenomeno a sé nel contesto del panorama artistico europeo.
Il problema delle origini del neorealismo italiano è stato correttamente tratteggiato in studi recenti (v. Misler, 1973): la querelle du réalisme sviluppatasi in Francia all'epoca del Fronte popolare trovò una conclusione prima in una pubblicazione di Aragon, che ribadì la necessità di un collegamento tra la lotta politica popolare e la ricerca artistica (Le réalisme à l'ordre du jour, in ‟Commune", settembre 1936, n. 37), poi nell'esposizione nel 1937 di Guernica di Picasso, infine nell'adesione dello stesso Picasso al Partito Comunista Francese nel 1944. Nel frattempo anche Lurçat e soprattutto Léger si orientavano verso un'arte impegnata in senso politico-sociale, offrendo così un largo assortimento di modelli tutto imperniato sull'utilizzazione delle esperienze neocubiste, e però, bisogna aggiungere, suscettibile proprio per questo di mediare morfologicamente la tradizione surrealista con quella naturalista, realista e astrattista. Nell'Italia del nord in quest'arco di tempo fu proprio questa linea a divenire esemplare per gli artisti, prima nel movimento di Corrente (tra il 1938 e il 1943; ma la rivista omonima durò solo sino al 1940), poi, dopo la fine della guerra, nei raggruppamenti attorno alle riviste milanesi ‟Il '45" (pubblicata solo nel 1946), ‟Argine numero" (poi ‟Numero", pubblicata tra il 1945 e il 1947), ‟Il Politecnico" (pubblicata tra il 1945 e il 1947). Si spiega così il palese accento picassiano di taluni partecipanti (Cassinari, Guttuso, Morlotti, Sassu - questi rivolto però al Picasso del periodo blu e rosa - Treccani, Vedova). Lo stesso accento era condiviso da altri, benché non aderenti a Corrente (ma coetanei), come Pizzinato. Per molti valeva però l'eredità dell'espressionismo da van Gogh a Kokoschka e della pittura ‛metafisica', riformata dalla mitografia dei ‛valori primordiali' del secondo novecentismo (Badodi, Birolli, e ancora Guttuso, Migneco, Manzù e ancora Sassu, Valenti). In ogni caso l'esigenza di un contatto e di un legame con la cultura europea al di là delle barriere politiche era un tratto dominante nella cultura del Nord; basti pensare alla tacita adesione a Roma (verso il 1946) al movimento neorealista del pittore e scrittore C. Levi, che aveva fatto parte giovanissimo del ‛Gruppo dei sei di Torino', ben noto per il suo europeismo.
Al Centro e al Sud contava soprattutto ciò che si faceva a Roma (‛Scuola romana' prima e seconda e ‛valori primordiali' costituiscono le premesse tecniche indispensabili dello sviluppo cautamente indicato nel succitato brano di Mafai). Un espressionismo di tipo particolare, che traeva spunti da van Gogh come dal Greco, dai veneti del Cinquecento come dagli olandesi del Seicento, da Goya e dagli impressionisti come dai naïfs, sembrò unire per un momento Mafai, Mazzacurati, Fazzini, Greco, Stradone, Ziveri, Scialoja, Purificato, Omiccioli, Leoncillo, Mirko, Vespignani. Portavoce dello schieramento fu, per breve tempo e in parte, la rivista letteraria ‟Mercurio", più a lungo ‟Rinascita", organo culturale e politico del Partito Comunista Italiano. Altri fogli non ebbero in questo senso una funzione organica (per es. ‟Cosmopolita", ‟Domenica", ‟L'immagine", ecc.).
Trasferitosi definitivamente da Milano a Roma intorno al 1943, Guttuso agì da catalizzatore e unificatore delle due esperienze facendo però pendere in due o tre anni la bilancia verso la formula del neocubismo picassiano, così che i raggruppamenti esistenti e altri artisti affluiti a Roma alla fine della guerra (Turcato trasferitosi da Venezia, C. Cagli tornato dagli Stati Uniti, Consagra emigrato da Palermo) ne furono variamente condizionati e reagirono emarginandosi o isolandosi oppure assumendo un atteggiamento più radicale nella ricerca formale, atteggiamento che portò taluni di essi poco dopo (1947) a una contrapposizione vera e propria in senso astrattista al neorealismo (si ricordi l'episodio di Forma 1 del marzo 1947).
Comuni interessi e convinzioni politiche funzionarono tuttavia per qualche tempo da elemento unificatore di orientamenti ideologici e stilistici molto diversi. Tale diversità caratterizzava infatti gli artisti firmatari, nell'ottobre 1946 a Venezia, del manifesto della Nuova secessione artistica italiana (Birolli, Cassinari, Guttuso, C. Levi, Leoncillo Leonardi, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Turcato, Vedova, Viani). Questo schieramento si tramutò poco dopo nel Fronte nuovo delle arti, che culminò in una mostra tenuta a Milano alla Galleria Spiga nell'estate del 1947, dove erano presenti quasi tutti gli artisti precedenti e, in più, Corpora, Fazzini, Franchina. Questa oscillante e incerta linea astratto-cubisteggiante costituiva uno spettacolare rimescolamento di carte: il ‛realismo' romantico ed espressionista, ancorché picassiano, del 1945 veniva respinto al pari del seminaturalismo espressionista e intimista romano e non romano (si pensi a un O. Gallo a Firenze) e del radicalismo astrattista dei più giovani; alla destra naturalista ed espressionista e alla sinistra formalista si opponeva dunque il singolare centrismo della linea ‛francese': era insieme il trionfo di Guttuso e di L. Venturi, che lo presentava nel catalogo. Non era il trionfo del critico meridionale comunista G. Peirce, che per primo aveva teorizzato il centrismo, ma fuori tempo e senza le necessarie alleanze al Nord (1945-1946) ed era stato ormai emarginato.
La costituzione del Fronte nuovo delle arti appariva come una rinuncia almeno parziale alle istanze realiste e prima di tutto al concetto e al termine di realismo. Ma bisogna riconoscere che la parola realismo era a quella data ormai carica di equivoci, come dimostra il cosiddetto Manifesto del realismo (pubblicato a Milano nel febbraio del 1946), che recava le firme di Ajmone, Bergolli, Bonfante, Dova, Morlotti, Paganini, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova. Fauvismo e cubismo erano ivi indicati come radici vive nella tradizione dell'arte moderna, ma tutte le concrete indicazioni tecniche portavano acqua al mulino di una pittura completamente astratta. Perciò da un certo punto di vista si può dire che, appena nato, il primo tentativo neorealista del dopoguerra appariva già morto. L'esclusione delle sinistre dal governo, nella seconda metà del 1947, accompagnò sintomaticamente il lancio del Fronte nuovo delle arti; quest'ultimo, istituendo un nuovo tipo di alleanze, apparve una nuova e tempestiva risposta a una situazione del tutto nuova.
Contro il formalismo e contro il naturalismo, ma con ben diversa e violenta carica d'implicazioni, intervennero tuttavia alcune iniziative politiche ben precise per tutto il 1948: l'offensiva di A. Ždanov a Mosca contro l'arte occidentale borghese, la pubblicazione in italiano (ottobre del 1948) di un articolo di V. Kemenov su ‟Rassegna sovietica", una serie di violente critiche di ‟Rinascita" ai pittori della linea ‛francese'. Questa volta l'orientamento non ammetteva equivoci formali o stilistici: si chiedeva da Mosca un'arte iconica, ideologicamente esplicita, l'abbandono di ogni civettamento con la ‛scuola di Parigi', Picasso compreso.
I riflessi si fecero subito sentire. In Francia Fougeron passò dal suo vecchio neocubismo a un iconismo rigidamente narrativo sulla linea di B. Taslitski, mentre E. Pignon passò a un naturalismo vagamente espressionista. Léger invece tenne duro come se la cosa non lo riguardasse. In Italia chi tra gli artisti comunisti voleva salvarsi politicamente dovette ingaggiare una dura lotta per uscire dalle contraddizioni tra internazionalismo di osservanza sovietica e internazionalismo artistico, tra realismo socialista di tipo russo e applicazione all'arte delle tesi sulla cultura nazionale e popolare. Tra essi Guttuso seppe comportarsi nel modo più fortunato e abile. Dopo di lui occorre ricordare A. Pizzinato ed E. Treccani. Gli altri maggiori esponenti si dispersero nelle più varie direzioni (astratto-concreta, neofigurativa, neocostruttivista, neodada, informale), puntando su nuovi raggruppamenti o lavorando isolati. Paradossalmente, tuttavia, nel periodo tra il 1949 e il 1952, il travaglio di quelle contraddizioni e la relativa segregazione culturale determinata dalla guerra fredda nella sinistra di osservanza comunista lasciò emergere artisti più giovani o in precedenza poco considerati: ricordiamo A. Fabbri, F. Francese, G. Zigaina, A. Borgonzoni, A. Sughi, U. Attardi, M. Muccini, F. Farulli, A. Caminati, A. Natili. La grande mostra di Picasso del 1953, allestita a Roma e Milano, promossa da alte personalità dei partiti comunisti italiano e francese e favorita in sordina da Mosca, volle essere l'espressione di un principio di disgelo: implicitamente proponeva come esemplare, però con ritardo, una linea rifiutata cinque anni prima. Il risultato fu un grande successo di pubblico, ma fu anche la ribellione completa degli artisti allo stile iconico di tipo cubista picassiano (linea ‛francese'), messo in crisi sia in Francia che in Italia, e lo scompaginamento definitivo dei gruppi di neorealisti che pazientemente cercavano di aprire attraverso l'iconismo una strada di tipo nazionalpopolare. Questi ultimi diedero ancora prova di coesione per qualche tempo, almeno in Italia, ma chi doveva sostenerli evitava la parola realismo come se scottasse e usava ormai l'erroneo, ma comodo termine di ‛figurazione', scadendo a una diatriba formalistica pari a quella che pretendeva di avversare. Un aiuto alla costruzione di una coscienza della tradizione realista veniva paradossalmente a quegli artisti solo dalle organizzazioni ufficiali, che nel 1954 allestirono qua e là mostre di Pellizza, Toma, Patini ecc. e - alla Biennale - una personale di Courbet, e nel 1955 allestirono a Roma una mostra di capolavori dell'Ottocento francese. Ma era un aiuto soffocante e in certo senso a... ben morire. Quando nel febbraio del 1956 si concluse il XX Congresso del PCUS, il ripudio dello stalinismo e l'adozione della politica del disgelo sancì l'agnosticismo ufficiale del PCI (in realtà l'immobilismo) di fronte alle contese artistiche. In conseguenza il movimento neorealista come fenomeno attivo può da quel momento considerarsi esaurito; il neorealismo è sopravvissuto a lungo a se stesso come ‛figurazione' più o meno ‛nuova' e più o meno surrealisteggiante e, in larga misura, come accademia dell'iconismo.
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Neorealismo cinematografico di Mario Verdone
sommario: 1. Introduzione. 2. Definizione. 3. Verso una coscienza neorealista. 4. Cronologia. 5. Gli autori: a) Roberto Rossellini; b) Vittorio De Sica; c) Luchino Visconti. 6. Altri contributi. Irradiazione e influssi del movimento. 7. Considerazione conclusiva. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Accade talora che, per designare certe correnti artistiche, si consolidino denominazioni la cui origine può avere poco da spartire con le effettive caratteristiche delle correnti stesse. È il caso, nella storia della cinematografia, del ‟Kino Pravda" (Cine-verità), che oggi si riferisce al cinema documentaristico d'inchiesta, mentre al suo nascere era semplicemente il supplemento cinematografico (Kino) del giornale sovietico ‟Pravda".
‟Caposcuola del neorealismo teatrale" era considerato K. S. Stanislavskij da una rivista culturale italiana (‟Modernità", 1928, n. 2, p. 34); neorealista,e poi espressionista, venne a volte definito A. Döblin per il suo Berlin Alexanderplatz, pubblicato nel 1929; e di neorealismo cinematografico parlò nel 1943 U. Barbaro riferendosi a Quai des brumes (Porto delle nebbie, 1938) di M. Carné, film appartenente alla scuola realista francese. Il termine fu ripreso qualche anno dopo da riviste francesi (‟Revue du cinéma"), e italiane (‟Bianco e Nero"), in taluni casi con intenti polemici non verso la ‛cosa', ma appunto verso il ‛nome'. M. L'Herbier nell'articolo Rivoluzione della verità (‟Cinema", 1949, n. 16), parlava di ‟neoverismo". A. Pietrangeli riconosceva (‟Revue du cinéma", 1948, n. 13, p. 48) che c'erano ‟neorealismi di Visconti, di Vergano, di De Sica, di Rossellini", ma ‟non una formula neorealista che designi artificialmente qualche nuovo naturalismo per fotografare dei pezzi anatomici della realtà, con una tecnica indifferentemente applicabile a qualunque cosa", e apprezzava il ‟naturalismo" di Rossellini (p. 44) in Roma città aperta, mentre J. G. Auriol (‟Revue du cinéma", 1948, n. 10, p. 73) azzardava l'etichetta di ‟extra-realismo", come realismo diverso dai precedenti, non dimenticando quello che i critici italiani più avveduti consideravano il vero modello del cinema realista di Visconti: il realismo populista (o poetico) francese degli anni trenta. Visconti ha raccontato che fu il montatore M. Serandrei a definire per primo Ossessione ‟neorealista".
G. Sadoul scriveva in ‟Ciné-Club" (1950, n. 2) nell'articolo Le néo-réalisme italien vu par un français ‟Quel che fa la grandezza del cinema italiano è che è direttamente, profondamente del suo tempo", ma ‟l'epiteto di neorealismo, che caratterizza ormai la scuola italiana, è in una certa misura arbitrario, e raccoglie correnti, personalità e temperamenti molto diversi".
Tra i letterati, Giuliano Manacorda asserisce che ‟il neorealismo, secondo la dichiarazione di Arnaldo Bocelli - il quale ricorda d'aver usato questo termine fin dal 1931 -, è una tendenza letteraria cominciata ad affermarsi in Italia intorno al 1930, col sorgere di una nuova narrativa che, all'autobiografismo critico-lirico dei ‛frammentisti' e dei ‛saggisti' della ‟Voce" e della ‟Ronda", e ai modi evocativi, al paesaggismo elegiaco della letteratura allora dominante, intendeva contrapporre la rappresentazione strenuamente analitica, cruda, drammatica, di una condizione umana travagliata"; e sottolinea che C. Bo, in Inchiesta sul neorealismo, rilevava ‟un certo ingresso della cronaca nella letteratura" (v. Manacorda, 1980, p. 236): lo stesso potrebbe ripetersi per il cinema.
Per tornare al cinema, comunque, sia pure con alcune riserve e negazioni, il termine, che ormai designava un fenomeno tipicamente italiano, finì con l'imporsi e dalle riviste francesi tornò a rimbalzare definitivamente in Italia. L. Chiarini non ignorava (‟Bianco e Nero", 1948, n. 1, p. 3) che ‟i critici esteri" discutevano con passione sulla ‟scuola neorealistica italiana", e certamente il saggio del belga F. A. Morlion pubblicato nella stessa rivista (1948, n. 4), Le basi filosofiche del neorealismo cinematografico italiano, contribuì a consolidare l'uso del termine, che divenne ormai comune.
Il realismo del cinema italiano del dopoguerra andava in ogni caso considerato ‛nuovo' rispetto a svariate correnti della storia del cinema. Anzitutto c'era stata, all'epoca di Lumière, una ‛fotografia animata', e una imitazione, di tipo naturalistico, della realtà. Poi - con le influenze del romanzo popolare, del feuilleton, e di scrittori quali Zola - si ebbero correnti realistiche in tutti i paesi europei e in America, fino alla nascita di movimenti di maggior peso, con caratteristiche proprie, come il realismo socialista sovietico, il realismo populista (o poetico) francese e i ricorrenti tentativi realistici italiani degli anni trenta (Acciaio di W. Ruttmann e 1860 di A. Blasetti, 1933), seguiti ai lontani Sperduti nel buio di N. Martoglio (da Roberto Bracco, 1914) e Assunta Spina di G. Serena (da S. Di Giacomo, 1915). Ma ci fu anche, negli anni venti e trenta, in Germania, il movimento della Neue Sachlichkeit, il quale, essendo attento ai problemi sociali, a sofferenze o preoccupazioni collettive, quali lavoro scarsamente remunerato, casa, gioventù traviata, reinserimento dei reduci di guerra nella società, presentava considerevoli analogie col posteriore neorealismo italiano.
Asserendo che obiettivo del neorealismo è quello di ‟esprimere il reale" Morlion osserva (art. cit., p. 20) che ‟lo schermo è una finestra magica che si apre sul reale", e l'arte cinematografica è ‟l'arte di ricreare, per mezzo della scelta più libera, nella immensa creazione materiale, la visione più intensa di una realtà invisibile: i movimenti dell'anima invisibile". P. Leprohon (Le cinéma italien, Paris 1966, p. 92) qualifica il neorealismo ‟cinema della realtà che si colloca nell'evoluzione della mentalità e dei costumi", fenomeno ‟di carattere rivoluzionario, [...] provocato da circostanze politiche e sociali". Per J. C. Ellis (v., 1979, p. 241) si tratta semplicemente del ‟nuovo realismo del dopoguerra".
C. Zavattini (v., 1979) è colui che ha parlato più frequentemente e con maggiore lucidità del neorealismo cinematografico in numerosi scritti: ‟Il neorealismo ha intuito che il cinema deve raccontare fatti minimi senza alcuna intromissione della fantasia, sforzandosi di descriverli in quello che di umano, di storico, di determinato, di definitivo, essi contengono. [...] Non si tratta di far diventare ‛realtà' (far apparire vere, reali) le cose immaginate, ma di far diventare significative al massimo le cose quali sono, raccontate quasi da sole" (p. 97). ‟Il neorealismo richiede che ognuno sia attore di se stesso, voler far recitare un uomo al posto di un altro implica la storia prepensata. E il nostro scopo è di mostrare cose viste, non favole". E asserisce anche che ‟il neorealismo è una scoperta della coscienza, l'individuazione di quello che ciascuno di noi può contare nella vita collettiva"; ‟sta alle calcagna del tempo per raccontare ciò che accade"; ‟ci ha liberato dall'incubo eroico dei grandi fatti"; ‟ha preferito il concetto di storia al concetto di intreccio" (pp. 74-75). E ancora: ha ‟fame di conoscere il momento che viviamo" (p. 92); ‟nasce da un atteggiamento nuovo di fronte alla realtà" (p. 112). ‟La prospettiva del neorealismo è nell'attualità", è ‟la conoscenza del proprio tempo con i mezzi specifici del cinema" (p. 113); ‟il film inchiesta è neorealista" (p. 118). Infine il cinema neorealista non ignora la fantasia. ‟Esige che la fantasia si eserciti in loco, sull'attuale, sulla realtà che vogliamo conoscere, perché i fatti rivelano tutta la loro naturale forza fantastica quando sono studiati e approfonditi, e solo allora diventano spettacolo perché sono rivelazioni" (ibid.).
2. Definizione
Possiamo definire ‛neorealismo cinematografico' il movimento creativo, fiorito in Italia attorno alla seconda guerra mondiale, il quale, basandosi sulla realtà, e vedendola con semplicità e coralmente, ma criticamente, interpreta la vita com'è e gli uomini come sono. Vanno tenuti presenti, nella definizione, alcuni precisi elementi che contribuiscono a differenziare questo realismo dai precedenti. C'è anzitutto un elemento ‛storico': è un cinema, infatti, che nasce e si sviluppa in Italia, all'epoca della seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra. Altro elemento caratteristico è quello ‛reale' e, ancor più, ‛documentario'. Non si parte semplicemente dalla realtà, ma proprio dal documento; si pensi al fenomeno degli ‛sciuscià', dei ‛paisà', dei feriti della Nave bianca, degli oppositori al nazifascismo durante la Resistenza: l'episodio del sacerdote ucciso dai Tedeschi in Roma città aperta (1944-1945) doveva dare origine - nella prima intenzione di Rossellini - a un documentario (poi il soggetto assunse lo sviluppo di un vero e proprio film recitato, con A. Fabrizi e A. Magnani protagonisti). Vedere la realtà con ‛semplicità' non era, in verità, solo una scelta espressiva, ma aveva anche presupposti d'ordine tecnico: condizionamenti dovuti alla penuria dei mezzi a disposizione, necessità di ricorrere a luoghi veri per l'impossibilità, dopo il 1944, di utilizzare i teatri di posa di Cinecittà - occupati prima dai tedeschi, poi dalle truppe americane - e infine la mancanza di attori, causa non ultima del ricorso ai ‛tipi'. Si dovevano, infatti, evitare i volti di attori che avevano impersonato personaggi eroici, che erano stati protagonisti dei film nati nel clima del precedente regime e non potevano ora essere presentati anche come simboli del mondo nuovo che veniva sorgendo dalle rovine. D'altro canto, i risultati - schiettezza e semplicità di espressione - erano tutt'altro che negativi, e diventarono anzi i punti di forza del neorealismo.
Si aggiunga poi l'elemento ‛corale': il neorealismo guarda non più alle storie individuali (La segretaria privata, La telefonista, il Rubacuori, o l'eroe Scipione l'Africano), ma a vicende collettive: di abitanti della capitale occupata e di partigiani, di donne del dopoguerra che superano le difficoltà con la guida dell'Onorevole Angelina, di povera gente costretta a rubare una bicicletta per trovare lavoro, e che aspira soltanto a ‛vivere in pace', di pensionati come Umberto D., di emigranti del Cammino della speranza. Infine, fattore del tutto nuovo nel nostro cinema, l'elemento ‛critico', sin allora assente, o comunque fortemente imbrigliato, data l'impossibilità di rappresentare durante il ventennio fascista condizioni difficili di lavoro, mestieri innominabili (la prostituzione), soluzioni pessimistiche (il suicidio).
Si è parlato di ‛documento', in quanto il neorealismo - abbiamo detto - fu ‛rivoluzione della verità', che partiva dai documenti, dalla testimonianza storica; esso non voleva però limitarsi al documentario, che è girato sulla realtà in atto, non altera, non ricostruisce e non crea ‛finzioni', come avviene in qualsiasi film a soggetto, e quindi anche in quello neorealista. Si può dire pertanto che se il neorealismo non può fare a meno del materiale documentario (si veda la Berlino semidistrutta di Germania, anno zero), il documentarismo dei suoi registi - e di Rossellini soprattutto - è di ordine spirituale: vuole cioè rappresentare i sentimenti degli uomini che vivono nella nostra società e nel nostro tempo. Nacque, quindi, col neorealismo, un realismo specificamente italiano, un realismo umano, o più che umano: un realismo dei valori umani e un cinema dell'uomo.
3. Verso una coscienza neorealista
Hanno contribuito a formare una coscienza realista (e poi neorealista) nel cinema italiano alcuni film di anticipazione. Nelle commedie di M. Camerini, interpretate da V. De Sica, si manifestava attenzione per la cronaca minuta e la vita degli umili, per un mondo che esce dalle convenzioni, dagli archetipi borghesi, e ambisce all'autenticità. Collaborava a talune di queste pellicole (come Darò un milione, 1935) C. Zavattini, mentre L. Longanesi invitava i cineasti a ‟scendere nelle strade, nelle caserme e nelle stazioni" (‟L'Italiano", 1933, n. 17-18, p. 35). Vennero poi Avanti c'è posto (1942) di M. Bonnard, Quattro passi fra le nuvole (1942) di A. Blasetti, I bambini ci guardano (1942-1943) e La porta del cielo (1944-1945) di V. De Sica, dove Zavattini è presente nei soggetti e nelle sceneggiature; sul versante drammatico compaiono La peccatrice (1940) di A. Palermi, Desiderio (1943) di R. Rossellini e infine Ossessione (1942) di L. Visconti. E altre commedie popolaresche, scritte da F. Fellini, P. Tellini, S. Amidei, e interpretate da A. Fabrizi e A. Magnani, danno il via a un film dialettale (che a Napoli aveva prosperato anche negli anni venti, per merito di E. Notari e U. Del Colle). A questi titoli si aggiungano i film di mare e di guerra di F. De Robertis (Uomini sul fondo, 1941, Alfa Tau, 1942) assolutamente spogli di retorica. È su scenario di De Robertis che Rossellini realizza nel 1941 La nave bianca.
Si fa risalire la nascita del neorealismo a Roma città aperta, ma i titoli che abbiamo elencato mostrano come una prospettiva ‛neorealista' si fosse già costituita negli anni precedenti: si trattava solo di raccoglierne i frutti, mentre gli avvenimenti bellici rendevano il trapasso più scandito e drammatico.
Rossellini, De Sica, Visconti, sono i nomi più autorevoli di questo cinema realista ‛nuovo': da essi non si potranno mai dissociare Zavattini - specialmente per la collaborazione data a De Sica per cui scrisse, dal 1946 al 1954, Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D., Il tetto, L'oro di Napoli (ispirato dai racconti di Giuseppe Marotta) - e Amidei, che fu il più assiduo collaboratore di Rossellini (da Roma città aperta e Paisà, 1946, a Viva L'Italia!, 1961). Ad Amidei e al suo senso di humour si devono in gran parte anche commedie che nascono sul terreno neorealista, come Sotto il sole di Roma (1948) di R. Castellani e le fresche pitture d'ambiente di L. Emmer (Domenica d'agosto, 1950, Le ragazze di piazza di Spagna, 1952), del quale Amidei fu inseparabile collaboratore e talvolta anche produttore.
4. Cronologia
Non sempre c'è accordo circa la data di nascita e la durata dell'esperienza neorealista nel cinema (v. Canziani, 1977, cap. 1). Alcuni adottano una cronologia molto ristretta, che comincia con Roma città aperta, realizzato nel 1944-1945, e arriva fino a Umberto D. (1951), con l'esclusione dei film che si allontanano dai temi della Resistenza o dell'immediato dopoguerra. Altri includono i primi film di Fellini, fino a La strada (1954) e a La dolce vita (1959); Fellini appartiene comunque al neorealismo per aver collaborato come sceneggiatore ai film di Rossellini e di P. Germi (Amidei è dell'avviso che il neorealismo si deve soprattutto agli sceneggiatori). Altri ancora vorrebbero giungere almeno sino alle prime opere di P. P. Pasolini e F. Rosi. Circa la data di nascita, abbiamo visto come Ossessione, La nave bianca, Uomini sul fondo, presentino tutti elementi che li accomunano con le prime esperienze neorealiste. Se si accetta la definizione da noi data sopra, è chiaro che non ci si può allontanare dagli anni della seconda guerra mondiale e del dopoguerra e dalla loro specifica ‛realtà', che doveva poi mutare col mutare delle condizioni del paese. Da Roma città aperta ad Accattone (1961) e Le mani sulla città, film da cui certo non si può prescindere parlando di neorealismo cinematografico, passa circa un ventennio; ma è altrettanto certo che ‛aprono' verso il neorealismo La nave bianca, L'uomo della croce, Ossessione, La porta del cielo, Quattro passi fra le nuvole, talché Roma città aperta, Sciuscià e La terra trema non sono prodotti di un evento subitaneo e miracoloso, ma risultato di una ricerca già in corso, alimentata dall'attualità, che trova collocazione in un rivolgimento storico e culturale e s'incarna in uomini nuovi. Così delimitata, la cronologia ha un pilastro imprescindibile in Ossessione, che risale al 1943, e un altro in Le mani sulla città, realizzato nel 1963: appunto un ventennio.
Un lieve arretramento per il terminus a quo viene proposto da L. Miccichè (v., 19782) per il quale la ‛trilogia' Quattro passi fra le nuvole, Ossessione, La porta del cielo costituirebbe la ‛protostoria' del neorealismo, mentre il 1953 sarebbe la data terminale. Miccichè si appoggia anche sui pareri, non molto divergenti, di M. Gromo (v., 1954), G. C. Castello (v., 1956), G. Ferrara (v., 1957), C. Lizzani (v., 19612).
5. Gli autori
a) Roberto Rossellini
Il regista romano, realizzatore tra il 1936 e il 1940 di alcuni documentari per l'Istituto Luce, sceneggiatore nel 1938 di Luciano Serra pilota di G. Alessandrini, nel 1941 (lo stesso anno di Uomini sul fondo di De Robertis) ottenne il suo primo successo con La nave bianca, scritto da De Robertis e interpretato da attori non professionisti. Qui, come in L'uomo della croce (1943), la sua visione è documentaria, senza concessioni allo spettacolo, e nasce dalla constatazione delle sofferenze fisiche e morali della guerra. La nave bianca mostra gli spostamenti di una nave-ospedale, dove feriti di tutte le nazionalità trovano nel dolore una sorta di solidarietà e di intesa. Alla memoria di padre R. Giuliani, cappellano morto in Russia, è dedicato L'uomo della croce: la sua figura, tra i contadini terrorizzati dalla guerra, porta un soffio di spiritualità cristiana, di calore umano, in mezzo alle distruzioni delle armi e alle aberrazioni del fanatismo. Roma città aperta è realizzato tra il 1944 e il 1945, allorché l'Italia è ancora spezzata in due, mentre la Repubblica di Salò ha i giorni contati. Il film testimonia una fede nella Resistenza, un'attesa di libertà, una presa di coscienza del progresso morale del paese, pur tra gli errori e gli orrori, che danno carattere insieme attuale e profetico all'emozione e al messaggio che si sprigionano dal film. Le immagini spoglie, quasi di ‛realtà in atto', costituiscono gli elementi stessi della tragedia. Ancora pagine tragiche si hanno in Paisà, sul passaggio degli eserciti nell'Italia del 1944. È prediletto il racconto a episodi, che offre a Rossellini occasioni di sintesi e di pathos immediato, senza l'artificio dei nessi logici, che detesta. ‟Odio il nesso logico del soggetto. I passaggi cronachistici sono necessari per arrivare al fatto; ma io sono naturalmente portato a sostituirli, a infischiarmene. Vorrei realizzare soltanto certi episodi conchiusi. È la scena importante, essenziale, decisiva, che mi fa diventare tutto facile e semplice".
Dallo sbarco americano in Sicilia, dove una ragazza che insegna la strada agli Americani viene uccisa dai Tedeschi, all'incontro a Napoli tra un ‛guaglione' e un soldato negro, agli episodi - ora commoventi ora tragici - di Roma, Firenze, Romagna, alla misera fine dei partigiani fucilati alla foce del Po, Paisà possiede alcune tra le pagine più dense ed emotive che ci abbia dato il cinema del dopoguerra. In Francesco giullare di Dio (1949) i ‛fioretti' si succedono con la stessa episodicità di Paisà, in un mondo profondamente spirituale e poetico, tutt'altro che distante dalla realtà contemporanea. Quando Rossellini realizzerà Il generale della Rovere (1959) ed Era notte a Roma (1960) - dopo le meditazioni sulla Germania (Germania, anno zero, 1948), sull'Europa (Europa '51, uscito nel 1952), sull'Italia (Viaggio in Italia, 1953) e dopo le esperienze di India (1957) - si potrà parlare a ragione di un ritorno alle origini.
Per Rossellini neorealismo vuol dire ‟prendere contatto diretto con l'uomo", senza intermediazioni. È quanto si legge in Il neorealismo cinematografico italiano (v. Miccichè, 19782, p. 376), insieme con altre definizioni che insistono sul tema fondamentale del neorealismo come ‛cinema dell'uomo'. ‟Il cinema italiano è certamente il solo che salva, nel cuore dell'epoca che esso dipinge, un umanesimo rivoluzionario". ‟Il neorealismo è legato al canto profondo dell'anima italiana" (A. Bazin). ‟Quando si cerca di definire il neorealismo una parola sola, sempre la stessa, propone ossessivamente la sua presenza calda e fraterna. Questa parola è U o m o" (P. G. Howald). ‟Il neorealismo non è un'interpretazione servile della realtà, ma una visione umana" (G. L. Rondi). ‟Ciò che mi interessa è l'uomo, il cuore dell'uomo" (V. De Sica). ‟È l'amore dell'uomo per l'uomo, l'amore dell'uomo per la storia dell'uomo" (C. Bernari). ‟Esiste un legame comune alle varie tendenze neorealistiche ed è l'amore per l'uomo concreto e per la sua vita" (F. Fellini).
In effetti, il neorealismo presenta l'uomo com'è, senza esaltarlo e senza cercare di darne un'immagine migliore di quella reale. Siamo di fronte all'uomo che è di volta in volta trionfatore e vittima, eroe e meschino, dominatore e dominato, che non rinuncia a niente di ciò che è umano: questo è appunto il senso di tutto il cinema di Rossellini. L'uomo dei suoi film non evita l'impegno civile, ma anzi lo affronta consapevolmente. È l'uomo della Resistenza in Roma città aperta, il sacerdote nell'Uomo della croce, il contadino della pianura padana che accetta di ospitare il ribelle e va per questo incontro allo sterminio con la sua famiglia (Paisà). È l'eroe Garibaldi, che tanto assomiglia a un padre di famiglia qualsiasi, in Viva l'Italia. Preti, contadini, donne coraggiose, garibaldini, carbonari: tutti operano o si battono per qualche cosa che va al di là della propria vita e della propria salvezza. Agiscono per gli altri più che per se stessi: questo significa ‛impegno civile'. L'uomo di Rossellini non è mai isolato. È l'uomo nel gruppo, nella società, nella babele italiana, tedesca e europea. Vediamo ora la città occupata con le sue sofferenze collettive, ora il paese posto di fronte a minacce morali più grandi di quelle fisiche, ora la condizione di un continente che non recupera se non faticosamente la propria volontà di vivere. E ovunque una immagine di babele: uomini di diverse provenienze nella Nave bianca, in Paisà, in Era notte a Roma e in Viaggio in Italia. Le lingue sono diverse e sembra che sia impossibile comprendersi. Ma nel fondo degli uomini germinano sentimenti, insorgono impulsi alla comprensione, alla pace, alla fraternità. La straniera di Stromboli, terra di Dio (1950) comprenderà, rimarrà nell'isola, vicino al marito ancora non sufficientemente capito. I prigionieri di Era notte a Roma si sentiranno figli della stessa patria, anche se parlano soltanto inglese o russo. Il negro dell'episodio napoletano di Paisà si commuove per la sorte di colui che lo ha derubato. L'uomo di Rossellini compie un viaggio morale la cui principale caratteristica è l'itinerario dal torpore alla coscienza, dall'immoralità alla moralità, la speranza di un riscatto sempre possibile, anche dopo le sofferenze spirituali più atroci. Si pensi alla fuga della straniera, in Stromboli, terra di Dio, oltre la lava del vulcano, per un recupero di grazia, in presenza soltanto della natura e di Dio. Il fotografo di La macchina ammazzacattivi (1948-1949) ha a sua disposizione un apparecchio magico che può far scomparire chiunque, ma preferisce rinunciarvi anziché sfruttarlo. Totò recupera la libertà, in Dov'è la libertà (1952), ma preferisce tornare in prigione, per la stessa strada attraverso la quale era fuggito. Bertone è un imbroglione, un falso generale (Il generale della Rovere), tuttavia riconquista una dignità cui aveva rinunciato, e diventa anche lui, il bugiardo, un eroe e un martire. Edmund cerca la morte in Germania, anno zero: è una forma, anche se equivoca e inaccettabile, di ricerca di una dignità che ai Tedeschi, nel momento più tragico della loro storia, sembra proibita per sempre. Ma guardiamo anche a Luigi XIV (pur se La presa di potere di Luigi XIV, del 1967, non appartiene al neorealismo), nel momento in cui il potere è conquistato, non importa a quale prezzo. Finalmente solo, nel suo appartamento privato, liberandosi degli ornamenti e degli orpelli, Luigi rimane con se stesso: legge l'opera di un grande moralista, come tornando, dopo il cinismo e la durezza della politica, ai doveri dell'anima. V'è in questo atteggiamento un'indicazione di moralità, una preoccupazione dello spirito pur in mezzo alle pratiche, talvolta inumane, alle quali può condurre la vita di ogni uomo.
b) Vittorio De Sica
Non meno eloquente e aderente è la rappresentazione dei sentimenti degli italiani nei film neorealisti di De Sica, scritti da Zavattini. L'innovazione dell'impiego dei ‛tipi' al posto degli attori era stata una caratteristica del movimento, e De Sica ne fu assertore fin dai tempi di La porta del cielo (1944-1945) e di Sciuscià (1946). De Sica perviene alla regia cinematografica dall'attività di attore, dopo aver ricoperto ruoli brillanti nelle commedie di M. Camerini. Il suo primo film è Rose scarlatte (1940), tratto da un lavoro teatrale di A. De Benedetti che aveva portato al successo sulla scena. Ma, stabilito un durevole sodalizio con Zavattini, acquista, nelle dolorose contingenze della guerra e del dopoguerra, una novità di temi, desunti dall'attualità, una ricchezza di contenuti e una sapienza artistica che danno alla sua opera un significato profondo e un ruolo fondamentale nel cinema italiano. Dopo il film sui pellegrini, La porta del cielo, ecco l'infanzia vista attraverso la tragedia della guerra in Sciuscià, il dramma della solitudine e della perdita di un fondamentale strumento di lavoro in Ladri di biciclette (1948), che fa assurgere la rappresentazione della minuta vita quotidiana a tragedia dell'uomo. Con questi film entrano nel mondo di De Sica i grandi temi sociali, i contrasti fra miseria e ricchezza, come in Miracolo a Milano (1950) - che si distacca dal neorealismo ortodosso per rasentare il surrealismo -, la penosa condizione dei pensionati in Umberto D. (1951), la tenerezza per i ricordi autobiografici (visti attraverso i racconti di G. Marotta) in L'oro di Napoli (1954), l'aspirazione alla casa in Il tetto (1956), il ritorno all'atmosfera neorealista della guerra e dell'occupazione in La ciociara (1960).
Amarezza, sentimento e humour sono presenti in tutti i film di De Sica, in tal misura da caratterizzarne la tematica e lo stile. Nel Giardino dei Finzi Contini (1970) compare, più forte che altrove, il sentimento, in lui sempre dominante, della famiglia e dell'unità familiare. La visione dei Finzi Contini, ancora uniti, armoniosamente raccolti attorno alla tavola, ci trasmette con viva forza poetica un autentico senso di unione, che è più propriamente un senso religioso. Il sentimento della famiglia è assai vivo in Ladri di biciclette e in L'oro di Napoli, specialmente in quelle scene in cui Totò, un ‛pazzariello', e i suoi subiscono la presenza del guappo; lo ritroviamo nella descrizione iniziale dell'ultimo suo film, Il viaggio (1974), come nell'aspirazione dei protagonisti di Il tetto ad avere una casa. La bicicletta, la presenza del guappo, la pensione di Umberto D., la difficoltà della coabitazione in Il tetto, la malattia di Adriana in Il viaggio, le telefonate anonime ai Finzi Contini sono tutti esempi delle minacce continue che incombono sulla desiderata tranquilla felicità. Questo è stato anche il tema fondamentale della vita giovanile di De Sica - così come di Charlie Chaplin -, che spiega la sua amarezza e pessimismo costanti, la sua paura, fino alla superstizione, del futuro, dei possibili cambiamenti di fortuna, ma anche il suo impulso ad assaporare la gioia di vivere e la sua capacità di trasmetterla nello spettacolo.
Nel 1949, la presentazione alla Salle Pleyel di Parigi di Ladri di biciclette segnò un avvenimento storico. V'era tutta l'intelligence francese e l'emozione suscitata fu enorme. M. L'Herbier scriveva in un articolo rimasto famoso (La révolution de la véritè, in ‟Opéra", 13 aprile 1949): ‟Oggi Valentino è il povero operaio della Breda, quello che è stato derubato della bicicletta. Apriamo gli occhi. Guardiamo bene. Non si tratta, in definitiva, che di una rivoluzione. Fra le tante. È finito il tempo delle ciglia false, delle lacrime di glicerina, delle vamps con sex-appeal, dei Tarzan da salotto e degli intrecci secondo le trentasei situazioni di Gozzi o di Polti [...]. Un grande soffio salutare sale verso il film dalle vie malsane. Lo schermo, colmo di reale, ritrova il suo vero ‛surreale': una rivoluzione si compie [...]. Finalmente, a causa di questo film t e s t i m o n e, dove una vicenda senza vicenda, una via senza scenografia, una vita senza romanzo recitano la semplice parte della verità, sembra si debba rivedere pressoché tutto il quadro dei valori cinematografici [...]. Dopo la proiezione, René Clair conclude che deve abbandonare il mestiere del regista, perché non si può far meglio in materia di cinema (‟Cinémonde", 21 marzo). Jacques Becker, ancor più, ritiene che questo film rappresenti la sola forma d'arte cinematografica cui può credere con tutte le sue forze (‟Le Film Français", 18 marzo). Esagerazioni? Battute d'effetto? È probabile. In ogni caso, De Sica si rassicuri. Non avrà spezzato che a parole la carriera dei suoi eminenti colleghi. Ma avrà fatto per essi, e per tutti, la rivoluzione su cui nessuno sperava. Quella, semplicissima, della verità".
c) Luchino Visconti
Una considerevole impronta sul cinema neorealista, così come su tutto lo spettacolo italiano del dopoguerra, è stata lasciata da L. Visconti. Si può dire che tra i registi di quel periodo egli sia il maggior innovatore, e non solo nel cinema, da cui inizia la propria attività registica, ma anche nel teatro di prosa e lirico. Il suo primo film, Ossessione (1942), dove la lezione di J. Renoir (Toni, Partie de campagne, La bête humaine) - di cui è stato assistente - si ravvisa già nella scelta del paesaggio, nell'approfondimento realistico, nelle vibrazioni di ‛attualità' (l'episodio, ad esempio, dovuto ridurre al minimo, dello ‛spagnolo'), anticipa il pathos e la tensione neorealisti. Con La terra trema (1948), che ha per protagonista una famiglia di pescatori di Aci Trezza che vive fra difficoltà e contrasti di lavoro, impellenti necessità di vita, tenaci sforzi per raggiungere guadagno adeguato e dignità, si avverte un impatto con la realtà di tipo prevalentemente documentaristico, sebbene la prima ispirazione provenga dai Malavoglia di Giovanni Verga. Del resto Visconti non disdegnava il documentario e nel 1945 collaborò alla realizzazione di Giorni di gloria. Alla qualità delle immagini di La terra trema, di alta e solenne resa formale, contribuisce l'apporto eccezionale della fotografia di G. W. Aldo. Bellissima (1951), scritto da Zavattini, rappresenta un aspetto emblematico della realtà italiana del dopoguerra, non importa se colto nel limitato pianeta di Cinecittà: le illusioni che nascono dall'indigenza. È la storia, che non manca di amarezza, di una madre che crede di poter ottenere il successo, e la fortuna, con la sua bambina, vincitrice di un concorso di bellezza e partecipante a un provino cinematografico. La vicenda è interpretata dalla Magnani, e Visconti continua la sua collaborazione con l'attrice - che con Fabrizi ha incarnato in più film, con la sua umanità, i caratteri distintivi del neorealismo - nell'episodio di Siamo donne (1952). Sembra quindi sopravvenire un brusco mutamento di rotta con la realizzazione di film che quasi potrebbero comprovare la fine del neorealismo: Senso (1953, da una novella di C. Boito) e Le notti bianche (1957, da F. Dostoevskij). Ma in realtà l'esperienza neorealista non si cancella, specialmente in Senso, com'è chiaro nell'atteggiamento critico assunto verso la storia (il Risorgimento), come in precedenza verso la cronaca; e Rocco e i suoi fratelli (1960) è difficilmente separabile dallo spirito e dalle caratteristiche del film neorealista.
Si palesa in questo film - come già in La terra trema - una caratteristica di Visconti che poi diverrà sempre più dominante: la tendenza a concentrare il dramma, che in Rocco attinge quasi altezza di tragedia greca, in gruppi familiari di volta in volta diversi per condizioni sociali e temperie psicologica: si tratta dapprima di nuclei proletari, poi, sempre più frequentemente, di famiglie borghesi e aristocratiche.
Va anche notato nei film di Visconti, e soprattutto in quelli successivi fino al Gattopardo e alla trilogia tedesca (cioè dal 1962 in avanti), un modo di fare spettacolo aperto al melodramma e al suo mondo: ecco il predestinato alla morte Juan de Landa, amatore del bel canto, in Ossessione; ecco il sipario di Senso aprirsi sul Trovatore, alla Fenice di Venezia, mentre l'inizio di Bellissima è una ouverture musicale; e Verdi, Wagner, Mahler saranno presenti nelle sue opere posteriori. A Visconti piace insistere su cifre stilistiche e contenuti melodrammatici; non se ne stacca neppure in Rocco e i suoi fratelli. In definitiva, ciò che per lui soprattutto conta è ‛fare spettacolo', e anche questo può venirgli dall'amore per l'opera. E tutti i motivi viscontiani - concettuali, musicali, visivi - si intrecciano e convergono proprio nella fusione della tendenza neorealista con un temperamento fortemente melodrammatico.
6. Altri contributi. Irradiazione e influssi del movimento
Il neorealismo si impose non soltanto attraverso film esemplari come Ladri di biciclette, Roma città aperta e La terra trema; altre pellicole contribuirono ad accrescerne il prestigio e ad affermare la ricchezza e originalità del movimento. A. Vergano vi si inscrive forse con un solo film, che racconta un truce episodio di repressione nazista (Il sole sorge ancora, 1945), ma chiamando attorno a sé come attori, assistenti, o sceneggiatori giovani quali G. De Santis, C. Lizzani, G. Puccini, G. Pontecorvo, favorisce certamente la crescita e la continuazione del movimento, che sarebbe ingiusto limitare secondo alcune tendenze critiche (v. specialmente Miccichè, 19782) ai capolavori dei soli rappresentanti maggiori.
L. Zampa realizza nel 1946 Vivere in pace, in cui si esprime l'aspirazione a un'esistenza più serena e a una solidarietà che vada al di là del ristretto orizzonte nazionale: è il suo film migliore, cui fanno seguito, non immuni da limiti bozzettistici, nel 1947 L'onorevole Angelina - interpretato dalla Magnani, nei panni di una energica popolana nel quadro della difficile situazione sociale post-bellica - e Anni difficili (da Il vecchio con gli stivali di V. Brancati), una rievocazione del fascismo. Altri film ispirati alla cronaca e ad aspetti del dopoguerra sono Campane a martello (1948), Cuori senza frontiere (1949), Anni facili (1953), dove si consolida la collaborazione con Brancati.
C. Lizzani, stretto collaboratore di Rossellini in Germania, anno zero, dirigerà Achtung, banditi! (1951), un episodio della Resistenza, e Cronache di poveri amanti (1953), da un romanzo di V. Pratolini; G. De Santis un film corale, Riso amaro (1949), Caccia tragica (1947), ambientato tra braccianti di cooperative ed ex combattenti, negli oscuri giorni del rimpatrio, Non c'è pace tra gli ulivi (1950), un conflitto tra padroni e pastori, Roma ore 11 (1952), un nudo fatto di cronaca; G. Puccini Il carro armato dell'8 settembre (1960) e I sette fratelli Cervi (1968); G. Pontecorvo Kapò (1960) sui campi di sterminio, e la rigorosa, documentata Battaglia d'Algeri (1966).
A. Lattuada rappresenta nel Bandito (1946) il ritorno dei reduci e in Senza pietà (1948) le conseguenze dell'occupazione. P. Germi guarda al disorientamento giovanile in Gioventù perduta (1947) e al disordine, e al desiderio d'ordine, di un paese della Sicilia in un vigoroso film d'azione, In nome della legge (1948-1949); passa quindi a Il cammino della speranza (1950), sui drammi dell'emigrazione, a La città si difende (1951), e a Il ferroviere (1955). Anche A. Blasetti affronta la tematica partigiana in Un giorno nella vita (1946), e uno dei suoi collaboratori, R. Castellani, porta nel neorealismo vicende da commedia popolare in Sotto il sole di Roma (1948), È primavera... (1949), Due soldi di speranza (1951) per approdare a un solido film, Il brigante (1961, dal romanzo di G. Berto), in cui sono affrontati i problemi del Mezzogiorno.
Un forte contributo al neorealismo è dato da M. Antonioni con i primi documentari, fra i quali eccelle Gente del Po (girato nel 1943), seguito nel 1948-1950 da N. U., Superstizione, L'amorosa menzogna. Antonioni potrebbe rappresentare, almeno nei suoi primi film di lungometraggio, l'occhio del neorealismo sul mondo borghese (Cronaca di un amore, 1950). Egli dà voce a una torturata amarezza alla Pavese in Le amiche (1955) e nei Vinti (1953), e guarda con più insistenza e con acuta indagine psicologica alla donna, mettendone a nudo l'anima in L'avventura (1960), La notte (1962), L'eclisse (1964). Nel Grido (1957) - storia di un operaio che, abbandonato dall'amante, perde ogni fiducia nel prossimo e ogni ragione di vita - l'esistenza è considerata come giuoco inutile e tragico e tornano, persistenti, le influenze del Visconti di Ossessione e di Pavese.
Assistente di Antonioni fu F. Maselli che dopo alcuni documentari, realizzati con viva sensibilità, diresse con Zavattini l'episodio Storia di Caterina per il film-inchiesta Amore in città (1953): quasi un ‛manifesto' neorealistico. Gli sbandati (1956), un episodio della Resistenza, segna il felice esordio di Maselli nel lungometraggio. Anche N. Loy, dopo esperienze con L. Zampa, o documentaristiche a fianco di G.G. Napolitano, diresse film ispirati alla guerra: Un giorno da leoni (1961) e Le quattro giornate di Napoli (1962).
Nell'ascesa del film neorealista cerca di inserirsi anche C. Malaparte con un molto discusso, ma originale, Cristo proibito (1951). Fellini, dopo una significativa collaborazione, già ricordata, con Rossellini e con Germi (In nome della legge, Il cammino della speranza), e una co-regia con Lattuada (Luci del varietà, 1950), inaugura una personale visione della società italiana con il complesso affresco di La dolce vita. Anche F. Rosi inizia la sua carriera registica con premesse neorealiste di critica sociale. La sfida (1958) è ambientato nel mercato ortofrutticolo di Napoli e I magliari (1960) tra i venditori di stoffe e di tappeti, spesso ai limiti della legalità nelle loro attività commerciali. Salvatore Giuliano (1962) e Le mani sulla città (1963) inaugurano un nuovo tipo di cinema politico, di carattere saggistico e legato alla realtà, erede del primo film neorealista, un cinema che crede anzitutto nel documento. Con film, dunque, non documentari, ma ‛documentati' (perché il documentario si basa sulla ‛realtà in atto') Rosi fa un cinema ‛storico', profondamente diverso da quello pseudostorico che l'industria cinematografica ha sempre praticato in ogni paese del mondo.
Sul piano delle influenze esercitate dal neorealismo sui registi affermatisi successivamente, non possiamo non ricordare anche Banditi ad Orgosolo (1961) di V. De Seta, già documentarista lirico e penetrante; Il tempo si è fermato (1960) e Il posto (1961) del delicato E. Olmi; i film polemici di E. Petri; Un uomo da bruciare (1962), storia di un sindacalista, di V. Orsini e dei fratelli P. e V. Taviani; La commare secca (1962) e Prima della rivoluzione (1964) di B. Bertolucci, e, più densa, vivida, e polemica di ogni altra, l'opera di P. P. Pasolini, osservatore attento del sottoproletariato romano (Accattone, 1961, Mamma Roma, 1962, La ricotta, 1963), cui si deve anche un Vangelo secondo Matteo (1964) che ha sapore di sacra rappresentazione popolare, e Uccellacci e uccellini (1966), legato invece all'attualità, come lo sono i film di Bertolucci e Le stagioni del nostro amore di F. Vancini (1966).
7. Considerazione conclusiva
Fenomeno vasto, che raccoglie nomi di registi, di scrittori, di attori, ma che coinvolge anche critici e teorici, presso taluni storici stranieri (Sadoul, Vincent) il neorealismo assume il rango di vera e propria ‛scuola'. Si può parlare di scuola se sussistono i seguenti elementi costitutivi: area operativa, epoca, principî, maestri, discepoli. Non possiamo disconoscere che tali elementi nel neorealismo ci siano tutti. Si opera, inizialmente, soprattutto a Roma, nell'immediato dopoguerra, attingendo alla realtà e all'attualità, con semplicità di mezzi, con sentimento corale, con atteggiamento critico. E se De Sica, Zavattini, Visconti, Rossellini sono da considerare i maestri, e Zampa, Germi, Castellani, De Santis, Vergano sono, con numerosi altri, i rappresentanti del primo fertile periodo, numerosi sono poi i prosecutori, i fiancheggiatori, gli allievi.
Non è raro anche oggi, di fronte a film fortemente influenzati dall'attualità (quelli specialmente di Rosi, come anche taluni di Pontecorvo, Montaldo, Vancini), veder ripresa la qualifica ‛neorealista'. Non è certo vietato oggi rivolgersi a un determinato tema con un rivissuto spirito neorealista (oppure anche espressionista, o di altra natura); resta tuttavia il fatto che il neorealismo ‛storico' traspose direttamente sullo schermo una determinata attualità italiana, legata a una complessiva situazione sociale che si è venuta poi modificando considerevolmente. Ecco perché è preferibile considerare il neorealismo una vicenda ormai conclusa e riservare la qualifica di neorealista a determinati film e autori del dopoguerra, senza per questo negare che vi siano altri cineasti i quali, pur appartenenti a un'epoca diversa, possono a buon diritto essere ritenuti loro continuatori ed eredi. (V. anche cinema).
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