REALISMO
. Filosofia. - Il termine "realismo" ha due distinti, e sotto un certo aspetto antitetici, significati. Il primo è quello che il termine possiede nella filosofia scolastica, in rapporto con la grande questione degli universali: ed è anzi proprio in tale occasione che il termine comincia ad essere usato. "Realisti" (realistae, reales) sono coloro che sostengono la realtà oggettiva dei concetti universali, e che si oppongono perciò ai "nominalisti" (nominales, e anche terministae, al tempo del terminismo occamistico), i quali negano affatto quell'oggettività e considerano gli universali come meri nomi, e ai "concettualisti", che tutt'al più attribuiscono a essi una realtà ideale in seno al pensiero umano che li concepisce. Il realismo scolastico si presenta d'altronde in aspetto duplice, a seconda che la realtà degli universali viene concepita come trascendente rispetto agl'individui (realismo estremo, platonico) o come immanente negl'individui stessi (realismo moderato, aristotelico). Il primo difende, cioè, la tesi degli universalia ante rem, esistenti nel pensiero di Dio, l'altro quella degli universalia in re: ma non mancano grandi realisti (come, p. es., Tommaso d'Aquino) che sostengono nello stesso tempo tanto l'esistenza ante rem quanto l'esistenza in re, ammettendo poi anche un'esistenza post rem, come risultato del processo astraente della conoscenza, e cercando così di accogliere nel loro fondamentale realismo anche il motivo di verità del nominalismo. Capo della scuola realistica propriamente detta è Guglielmo di Champeaux: tra i massimi seguaci del realismo scolastico sono da ricordare, oltre a San Tommaso, Sant'Anselmo d'Aosta e Giovanni Duns Scoto.
L'altro significato del termine "realismo" è quello che esso assume nell'età moderna, e propriamente da Kant in poi, in forza dell'antitesi con l'opposto termine di idealismo. Per la gnoseologia del Settecento, e specialmente per l'empirismo inglese, "idealismo" significa, in genere, risoluzione dell'oggettività nell'esperienza stessa del senziente: così è "idealistica" la filosofia del Berkeley, per cui ogni esse si risolve nel suo percipi. S'intende quindi come col nome di "realismo" venga per contrasto designata ogni forma di gnoseologia che presupponga comunque esistente l'oggetto della conoscenza, indipendentemente dall'attività conoscitiva: dove si vede l'antitesi che viene con ciò a stabilirsi tra il realismo medievale, difensore dei valori ideali e concettuali, e il realismo moderno, che combatte invece la prepotenza, o l'assoluto dominio, di quei valori, idealisticamente e cioè soggettivisticamente concepiti. Di questo realismo moderno, d'altra parte, infinite possono essere le forme, per i diversi modi in cui è dato concepire e limitare l'asserita sfera del reale: e così, p. es., già il Kant, idealista nel campo trascendentale, poteva dire di essere realista nel campo empirico, in quanto considerava la concreta esperienza come condizionata dall'influsso oggettivo proveniente dal materiale noumenico, o della cosa in sé. E persino l'idealismo trascendentale dei postkantiani, in quanto concepiva lo spirito non come semplice attività soggettiva di conoscenza ma come universale sistema di realtà, poteva aspirare al nome di realismo ("realismo spiritualistico"), e tanto nel senso medievale per cui esso sosteneva l'incondizionata esistenza dell'ideale quanto in quello moderno per cui la realtà ideale da esso difesa non era soltanto assoluto soggetto ma anche, e nello stesso tempo, assoluto oggeao. Parimenti, in età più prossima, il nome di realismo ("realismo logico", o "critico", o "fenomenologico") è stato talora rivendicato da pensatori (p. es., Russell, Husserl) preoccupati di salvare in una sfera ideale, ma stabile, quei valori logici che le varie forme di soggettivismo minacciavano di dissolvere in un divenire arbitrario e incontrollabile. Ma, nel senso più normale, "realismo" è in età moderna e contemporanea ogni teoria che, analizzando il contenuto dell'esperienza, miri a determinare ciò che in esso possiede esistenza oggettiva, per attribuirgli quella vera e stabile realtà, che non crede d'incontrare nella labile sfera del pensiero.
Il realismo filosofico si distingue così dal "realismo ingenuo", che è quello proprio di ogni pensiero primitivo, fiducioso nella totale realtà di quel che contempla perché convinto (o neppur consapevole della necessità di esser convinto) della perfetta identità dell'oggetto alla sua soggettiva rappresentazione; mentre il realismo filosofico (o "critico") accetta quasi sempre l'idea della modificazione onde il prodotto dell'attività senziente e conoscente diverge dal suo oggetto, e si propone come scopo quello dell'indagare l'entità di tale modificazione e di coglier così il reale nella sua oggettività autentica.
Bibl.: C. Ranzoli, Il linguaggio dei filosofi, Padova 1911, pp. 59-104.
Letteratura e arte.
Parlando di ciò che si chiama realismo nel campo delle lettere e delle arti, conviene far distinzione tra il fenomeno storico della scuola che prese codesto nome e il metodo d'assimilazione dell'immagine finta alla realtà osservata: recente quello, questo coetaneo dell'arte stessa.
"Le réalisme a existé de tout temps" dice lo Champfleury nella sua difesa della nuova scuola, accennando al fatto che l'adoperarsi per riprodurre fedelmente il materiale d'osservazione ha sempre secondato e stimolato la creatività artistica.
Il realismo, quale movimento letterario, le cui norme estetiche e tendenze ideologiche furono contemporaneamente estese alle arti figurative e infine in certo qual modo anche alla musica, sorge nel quarto decennio del secolo XIX, s'afferma nel quinto, ha il suo maggiore sviluppo nel sesto e nel settimo, e sbocca verso l'anno settanta nel cosiddetto naturalismo che ne trae le ultime conseguenze. È specchio fedele della cultura, sulle prime eclettica con una forte dose di romanticismo, poi prettamente positivistica, di quell'epoca in cui la borghesia arrivata al potere si consolida e le prime lotte socialiste s'ingaggiano non solo in teoria, bensì anche in tentativi d'azione contro il capitalismo crescente. Il teatro realistico borghese d'un Augier interpreta la massima politica del Guizot: "enrichissez-vous". È significativa l'attenzione con cui il Balzac va ritraendo gli affari d'industria, di banca, di commercio. La teoria segue i fatti che da tempo indicavano la nuova corrente, e appare più povera e più pedantesca - sebbene più adatta per la sua stessa esclusività allo spirito dei tempi - della creatività spontanea che la precedette. Lo stesso Balzac, il vero fondatore del realismo inteso come arte, nonostante certi elementi romantici inerenti alla sua opera, non ambiva affatto la qualifica ancora equivoca di "realista", né aveva di mira, nella sua assidua ricerca delle forze occulte che reggono la vita, l'ideale di puro empirismo caro ai dottrinarî della scuola nascente. Champfleury, il capo del cenacolo, ebbe (1847) per primo il coraggio di rivendicare, ad onta di varie proteste, il grande romanziere all'ortodossia della scuola (esaltandolo come "naturalista"); e l'autorevole saggio di Ippolito Taine sopra la Comédie Humaine consacrò (1858) questa valutazione. Solamente nel 1864 fu in pari modo scoperto dal Taine e riconosciuto come realista lo Stendhal, morto vent'anni prima. Thackeray e Dickens, fedeli alla tradizione di Swift e Goldsmith, di Sterne e Smollett, non rinnegarono mai le loro affinità sia col sentimentalismo moraleggiante di antica data, sia col recente romanticismo. Altrettanto si dica, pur nella diversità delle condizioni culturali e del temperamento personale, di A. Manzoni, di A. Puškin (il primo motore, secondo il Dostoevskii, di quel mondo che si chiama il romanzo russo), di Gogol′, di Jean Paul Richter, di E. T. A. Hoffmann. E al Settecento, in una società che si sta democratizzando, risale il bisogno di veder rispecchiate nel dramma, nell'arte narrativa, nella pittura, le condizioni e vicende della vita semplice e comune (La Chaussée, Diderot, Greuze). Rigogliosa dunque fioriva l'arte che inizia il vero realismo, prima ancora che se ne stabilisse il domma. Nemmeno il nome della scuola fu un'invenzione, essendo il termine "realismo" da gran tempo in uso (si trova, per es., in uno scritto del Coleridge dell'anno 1817) per designare la disposizione d'animo a rendersi esattamente conto della vita quale si presenta a una rigorosa osservazione, non adulterata dalla volontà d'idealizzarla; talvolta equivale a "praticità", e in senso peggiorativo se ne serve il Flaubert ("la France, depuis 1830, délire d'un réalisme idiot"), deridendo l'idolatria del volgo e della forza brutale.
Fra i moventi psicologici che contribuirono al trionfo del realismo integrale si rendono manifesti una reazione contro le stravaganze romantiche, le pose alla Musset e le velleità spiritualistiche nel genere delle liriche del Lamartine o delle speculazioni metafisiche del Cousin, un crescente rispetto per il fatto empiricamente avverato, per le scienze esatte e sperimentali e per il progresso tecnico, un ritorno alle posizioni teoriche e abitudini mentali dell'illuminismo settecentesco, prodotto anch'esso della borghesia scettica e irriverente. E questa mentalità veniva stimolata e nutrita dalla nuova dottrina del positivismo (il Cours de philosophie positive di Auguste Comte apparve in una serie successiva di volumi fra il 1830 e il 1842), mentre al di là del Reno "la giovane Germania" esalta il realismo sotto l'influsso della sinistra hegeliana, che prende un indirizzo schiettamente materialistico, e, nell'estetica, come provano, per es., le polemiche del giovane Hettner contro il Vischer (1845), subordina l'arte alla natura. I moventi d'ordine sociale agirono d'accordo con quelli psicologici, donde risultò anche una nuova disciplina bandita dal positivismo sotto il nome di sociologia: la scuola realistica fa eco a tutti questi impulsi. Questo realismo considera quindi come il suo primo compito lo studio della società; perfino predilige, specie in pittura, i soggetti tratti dalla vita degli operai e dei lavoratori della terra. Viene anzitutto apprezzato il coraggio di denudare il vero aspetto, per quanto ributtante, delle cose, tutto quello che finora fu taciuto sia per ipocrisia o falso pudore, sia per la convenzione estetica, già scossa d'altronde dal culto del "grottesco" in certe opere dei romantici. Il realismo, "en termes d'art et de littérature", secondo la definizione del positivista Littré (il vocabolo stesso nel senso tecnico è per lui ancora un neologismo), è l'"attachement à la reproduction de la nature sans idéal". Questa è la formula più radicale della scuola, a cui taluni, e particolarmente gli utopisti del socialismo (Proudhon), non potevano aderire senza riserve. Sia pure proscritto l'imbellire la realtà; ma il ritrarre la vita qual è, non implica forse un appello a migliori possibilità, e allora perché rinnegarlo? Perché - s'impazientiva Duranty, il propugnatore della "sincerità" nell'arte realistica, - irrigidirsi con l'autore di Madame Bovary in una affettata impassibilità? E perché soprattutto - soggiungevano i moderati - ricercare proprio cose brutte e ripugnanti, come se fossero sole degne di rappresentazione? Così ragionava, nel 1855, nel suo famoso "manifesto" anche il pittore Courbet, memore senza dubbio d'una invettiva aristofanesca del 1852 che lo faceva dichiarare: "je suis un réaliste, et contre l'idéal j'ai dressé ma baliste; faire vrai, ce n'est rien, c'est faire laid qu'il faut". Infatti, perfino all'imparziale Sainte-Beuve (non ancora convertito alla nuova fede, ciò che avvenne nel 1860) scappò una volta di bocca la frase: "Siamo veri; ma perché essere realisti, perché essere volgari?". - "Per non falsare la realtà epurandola", ribattevano vittoriosamente gl'intransigenti. Pure nella controversia intorno all'obiettività assoluta dell'arte vinsero finalmente coloro che ne eliminavano ogni cenno di valutazione, ogni aspirazione a idealità. Temevano altrettanto l'elemento lirico quanto quello didattico. Avendo erroneamente concepito l'ideale come qualcosa di trascendente e di eteronomo all'intuizione artistica, erano intenti a salvaguardare in tal guisa l'intima indipendenza dell'atto creativo. Così si spiega il fatto piuttosto paradossale che il raffinato estetismo di tali zelatori dell'"art pour l'art" quali erano Gustave Flaubert, o i fratelli Goncourt, ovvero l'Huysmans dell'epoca anteriore alla conversione, si concilia nella loro professione di fede artistica col realismo di severissima osservanza. L'arte dev'essere completamente disinteressata, indifferente alle esigenze del cuore e dello spirito, posta al di là del bene e del male, del bello e del brutto; oltre alla legge intrinseca di forma, riconosce una sola legge, bastante per determinare i suoi rapporti alla vita quale oggetto di studio: quella cioè di veracità. "Le réaliste est celui qui cherche à s'effacer devant la nature", dice Edmond Scherer. Nella mente di questi artieri ascetici s'elabora il concetto d'analogia tra l'arte e la scienza. Già nel 1852 Flaubert scrive: "Le temps du beau est passé... Plus il ira, plus l'art sera scientifique, de même que la science sera artistique; tous deux se rejoindront au sommet, après s'être séparés à la base". E in altro brano della corrispondenza flaubertiana si legge: "La littérature prendra de plus en plus les allures de science; elle sera surtout exposante, ce qui ne veut pas dire didactique". Svolgere codesto concetto teoricamente fu il compito del Taine. Il terreno è ormai preparato per le architetture dello Zola e dei suoi discepoli. Il realismo, trasformandosi in naturalismo, finisce col sottomettere metodologicamente l'arte, testé proclamata autonoma, all'eteronomia della scienza. Felicemente ha evitato questo pericolo, nella sua difesa del realismo, Francesco De Sanctis. Caduco appare tutto ciò che fu ispirato dalla teoria; duraturo quello in cui il genio personale d'un artista (basta citare il nome del Maupassant oppure, in Italia, quello del Verga) seppe liberarsene. Lungi dall'essere indissolubilmente legato a una visione positivistica o materialistica del mondo, il realismo, in certe opere rappresentative, come quelle di Dostoevskij e di Tolstoi, si palesa un idoneo veicolo della più alta spiritualità.
Sotto un'altra forma la scuola realistica smentisce sé stessa nel dominio delle arti figurative. La pittura si trovò dinnanzi al problema d'una realtà, che più fedelmente era riprodotta, più crudelmente appariva tradita. Ciò che gli altri dicevano realtà diveniva per il pittore un'astrazione; la percezione visuale sola acquistava un valore reale. E questa fu l'origine dell'impressionismo. Nel regno della musica, Berlioz e in parte Liszt tentarono d'introdurre per mezzo d'una specie d'imitazione veristica certi elementi del realismo; analogamente fu più tardi ideato il Falstaff di Verdi. Ma la manifestazione più spiccata di codesta tendenza in musica è la scuola folkloristica nazionale del Mussorgskij e dei suoi compagni in Russia. Il realismo quale ideologia (segno sicuro della sua indole antiartistica) eccede i limiti dell'arte e si diffonde nelle masse, ciò che appare, per es., dal fatto che i giovani materialisti militanti russi del settimo decennio (v. černyševskij), battezzati dal Turgenev (in Padri e Figli) "nihilisti", ripudiavano con sdegno questa denominazione e si davano invece per "realisti".
Bibl.: Vedi naturalismo; inoltre E. R. Curtius, Balzac, Bonn e Stoccarda 1923.