realta
Dal lat. realitas. La qualità e la condizione di ciò che è reale, che esiste in sé e per sé o effettivamente e concretamente. Così considerato, il concetto di r. si contrappone sotto un primo aspetto a quelli di necessità e di possibilità, sotto un secondo aspetto a quello di apparenza e sotto un ultimo aspetto a quello di idealità.
Le prime concezioni greche del reale (ilozoismo dei milesi) non distinguono ancora alcuno di questi aspetti, considerando come reale tutto il constatabile, sia pure nelle due diverse forme della r. originaria e della r. derivata. Ma già l’eleatismo comincia a discernere, e Parmenide, osservando la reciproca contraddittorietà delle predicazioni particolari dell’essere e deducendone l’unica r. e verità del puro ente, inaugura l’equazione speculativa del ‘reale’ con l’‘essere’. Criterio della r. diventa, quindi, quello del suo puro ‘essere’, di fronte al quale il ‘non essere’ si presenta come apparenza od opinione: e, d’altra parte, questa r. risulta identica alla necessità, perché quel che è non può non essere (ciò che respinge il concetto di possibilità nell’irreale, come viene più chiaramente in luce più tardi, nello sviluppo megarico dell’eleatismo). E con l’eleatico Melisso quel criterio si arricchisce di una nota anche più importante e feconda, in quanto il reale viene concepito come quel che permane eternamente identico a sé stesso nelle proprie determinazioni. Questa equazione del reale con l’eterno resta fondamentale per tutta la metafisica greca prearistotelica, anche in virtù del fatto che, al di là delle divergenze, domina in essa la sostanziale identificazione di r. e verità, per cui non c’è verità che non sia oggettiva; così, il criterio dell’eternità viene riaffermato tanto nei sistemi pluralistici di Empedocle, Anassagora, Democrito, quanto nel platonismo, e con esso si ribadisce la distinzione della r. apparente o empirica dalla r. vera, appunto come l’essere che permane dal divenire che si trasforma. Solo Aristotele, concretando l’universale nell’individuo, restituisce r. a ciò che diviene e muta, e per questa via giunge anche a distinguere, da un lato, la semplice r. dalla necessità e dalla possibilità, e, dall’altro (per lo meno in certa misura), la r. dall’idealità, come la forma dell’esistenza del concreto (atto) da quella dell’esistenza dell’universale (potenza).
Sono così posti, nel pensiero aristotelico, tutti i motivi che determinano per opposizione il criterio puro della r., e che permangono tali, nei loro aspetti costitutivi, attraverso tutto il pensiero medievale, per quanto questo vi aggiunga, come elemento causale, estrinseco e necessario, il principio teologico per cui ogni r. è comunque condizionata o derivata da quella divina, e ha quindi in essa il suo criterio costitutivo. Particolare rilievo, se non altro dal punto di vista terminologico, assume tuttavia, nella tarda scolastica, la nozione di realitas, che Duns Scoto propone in polemica con il principio tomistico di individuazione; essa sottende, infatti, una concezione più larga del reale (non distante peraltro dall’istanza aristotelica), che assume l’individualità non più come un’imperfezione, un’accidentalità attribuibile alla materia, ma come l’ultima realitas, la r. perfetta e in sé compiuta. D’altra parte, con l’uso del termine res come equivalente della r. esterna al pensiero, invalso nella scolastica medievale in connessione con la disputa sugli universali, si definisce un’ulteriore accezione del concetto, che troverà particolare sviluppo successivamente, in età moderna.
In età moderna il problema della r. si connette strettamente con quello relativo all’esistenza del mondo esterno, a partire da Descartes, che, in virtù del dubbio iperbolico, pone l’esistenza della r. come oggetto di dimostrazione, e svolge quest’ultima riprendendo dalla tarda scolastica l’identificazione della r. con la perfezione, nonché l’idea di una scala gerarchica delle r. oggettive, ossia dei contenuti ideali, culminante nell’idea di Dio (unica r. oggettiva che non può essere prodotta dalla mente, e che quindi esiste indipendentemente da essa). Alla nozione cartesiana di r. oggettiva si ricollegheranno i filosofi di orientamento razionalistico, e in partic. Spinoza – che considera la sostanza assoluta come unica r., in ragione delle sua perfezione – e Leibniz – che risolve la r. nell’attività rappresentativa delle monadi. Nella tradizione empiristica inaugurata da Locke prevarrà, invece, quella concezione della r. come esistenza oggettiva, data indipendentemente dal soggetto che a essa si riferisce nel processo conoscitivo, che corrisponde poi all’accezione del termine nella rappresentazione ordinaria. E se questa nozione verrà negata da Berkeley e Hume, in forza della radicalizzazione del principio empiristico, essa verrà riaffermata con forza da Reid e dalla Scuola scozzese, in base al principio del senso comune. Il problema della r. del mondo esterno viene quindi ripreso da Kant nella sua Confutazione dell’idealismo, diretta a differenziare la sua posizione da quella del fenomenismo di Berkeley, cui era stata assimilata dai primi recensori della Critica della ragion pura (1781, 2a ed. 1787), mostrando che «la coscienza della mia propria esistenza è insieme coscienza immediata di altra cosa fuori di me». D’altra parte, da questa r. noumenica (Realität), pensabile ma non conoscibile, Kant distingue la categoria di r. (Wirklichkeit), che figura invece tra i concetti della modalità, accanto alle categorie della possibilità e della necessità. A questa distinzione ‒ anche terminologica – si ricollegheranno i teorici dell’idealismo oggettivo (Schelling, Hegel), nel loro tentativo di risolvere la r., depurata degli aspetti empirico-sensibili, nell’attività del soggetto conoscente; in partic., alla base della famosa formulazione hegeliana che identifica il reale con il razionale, sta la nozione logica di Wirklichkeit, e cioè di «r. effettiva» (secondo l’etimologia dell’espressione tedesca, che rimanda al verbo wirken, ‘agire’), quale è svolta nell’ultima parte della dottrina dell’essenza, attraverso la dialettizzazione dei concetti della modalità e, più in generale, dell’intelletto riflessivo. Alla più semplice risoluzione fichtiana della r., oltre che al criticismo kantiano, si riallaccerà invece, sia pure criticamente, Schopenhauer, nel suo nuovo tentativo di dimostrare l’inesistenza della r. esterna. Nel pensiero contemporaneo, venuta a cadere tale questione metafisica, la problematica della r. esterna ha assunto una valenza prevalentemente gnoseologica. La riflessione neopositivistica, per es. in Carnap, dissolveva poi ulteriormente il concetto, etichettandone i contenuti e le soluzioni proposte come soluzioni di uno pseudoproblema, in quanto non suscettibile di verifica sperimentale. Nella riflessione successiva al neopositivismo il problema della r. è stato variamente discusso all’interno del rinnovato dibattito sul realismo (➔).