Reato abrogato e statuizione sugli interessi civili
A seguito dell’entrata in vigore dei d.lgs. nn. 7 e 8 del 2016, ci si è interrogati sulla sorte delle statuizioni civili pronunciate dal giudice penale in sede di condanna dell’imputato una volta intervenuta l’abolitio criminis. A dirimere il contrasto interpretativo, sono intervenute le Sezioni Unite che hanno chiarito come il giudice dell’impugnazione, nel pronunciare sentenza di assoluzione, debba revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Molteplici restano i profili di problematicità circa il tenore delle argomentazioni utilizzate e i dubbi di legittimità costituzionale.
Il recente intervento di depenalizzazione effettuato dal Governo con i d.lgs. 15.1.2016, nn. 7 e 8 – che, in attuazione della delega di cui all’art. 2 l. 28.4.2014, n. 67, ha degradato alcune fattispecie di reato in illeciti civili e amministrativi – ha dato origine ad un importante contrasto interpretativo.
In sostanza, ci si è chiesti quale sia la sorte delle pronunce del giudice penale in punto di restituzioni e risarcimento dei danni adottate in sede di condanna una volta che il fatto illecito non sia più previsto dalla legge come reato per intervenuta abolitio criminis.
Le perplessità originano dal fatto che l’ordinamento non prevede una norma capace di risolvere in termini generali ed astratti il problema dei rapporti tra depenalizzazione e statuizioni civilistiche adottate in sede penale, non potendo operare la regola di cui all’art. 2, co. 2, c.p. Il fatto che essa si applichi solo per gli aspetti penali e non anche per quelli civili consente di trarre a contrario il principio secondo cui, una volta che la sentenza di condanna sia passata in giudicato, la sua revoca ex art. 673 c.p.p. non può comportare anche il travolgimento delle statuizioni civilistiche adottate.
A complicare il quadro nel caso in cui il fenomeno abolitivo sia sopraggiunto nel corso del procedimento vi è la previsione di cui all’art. 9, co. 3, d.lgs n. 8/2016, secondo cui «quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili» e la mancanza di analoga disposizione transitoria anche nel d.lgs. n. 7/2016.
In seno ad un simile contesto hanno trovato terreno fertile due impostazioni giurisprudenziali diametralmente opposte. A quanti hanno osservato che il giudice dell’impugnazione debba mantenere il potere-dovere di pronunciarsi anche in merito agli aspetti civilistici della vertenza quando assolve l’imputato, si sono opposti coloro che hanno sostenuto il contrario. A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite1, le quali, in adesione al secondo orientamento, hanno affermato che «in caso di sentenza di condanna relativa ad un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs. 15.1.2016, n. 7, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il giudice della esecuzione, viceversa, revoca, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili».
Pare utile ripercorrere il contrasto giurisprudenziale insorto per comprendere le argomentazione poste a base della decisione adottata dal plenum.
Il primo indirizzo interpretativo, favorevole al mantenimento del potere di decidere il ricorso agli effetti civili in capo al giudice penale2, si fonda sui seguenti argomenti.
Ai diritti del danneggiato non si applicano le regole della successione delle leggi penali nel tempo, bensì il principio di cui all’art. 11 delle Preleggi al codice civile, così facendo salvo il diritto della parte civile a vedere esaminata la propria azione già incardinata nel processo penale ancora pendente.
Tale interpretazione trova un suo riferimento anche nella relazione illustrativa di accompagnamento allo schema di decreto legislativo in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, secondo cui l’art. 12 d.lgs. n. 7/2016 può essere applicato anche per le condotte già sancite penalmente «purché il relativo procedimento penale sia ancora pendente», dacché sembrerebbe emergere che anche il giudice penale è legittimato a riconoscere il risarcimento del danno.
Nemmeno parrebbe scalfire un simile ragionamento l’assenza nel d.lgs. n. 7/2016 di una previsione analoga all’art. 9, co. 3, d.lgs. n. 8/2016 dal momento che essa avrebbe “valenza generale”. La ragione di tale lacuna non sarebbe imputabile ad una volontà di diversificare le discipline, ma alla differente natura degli interessi sottesi ai reati aboliti. Mentre il d.lgs. n. 7/2016 si riferisce ad illeciti civili, per i quali non è in dubbio la sopravvivenza dell’azione civile rispetto al fenomeno abolitivo, il d.lgs. n. 8/2016 si occupa di reati preordinati alla tutela di interessi pubblicistici, la cui depenalizzazione rende necessaria un’esplicita statuizione sulle sorti dell’azione civile.
A tali conclusioni si dovrebbe pervenire anche mediante un’applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p., il quale, in tema di cause di estinzione del reato sopravvenute a sentenza di condanna, attribuisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere «ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili».
Un ultimo argomento risiede nella necessità di un’interpretazione costituzionalmente conforme, posto che, a ragionare diversamente, si andrebbe incontro alla violazione del principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., costringendo la parte civile ad iniziare un defatigante giudizio civile per l’accertamento di un danno già acclarato in sede penale.
Sul fronte opposto ha, invece, preso piede un secondo indirizzo, per il quale, a seguito dell’abrogazione del reato oggetto del procedimento penale, si va incontro alla generale caducazione delle statuizioni civilistiche, non residuando al giudice penale alcun potere di decidere sulle stesse, ma costituendo onere della parte civile promuovere un’eventuale azione nella sede naturale3. Tale filone ha preso le mosse dal recente intervento della Corte costituzionale, con la sentenza 29.1.2016, n. 12, secondo cui l’azione civile esercitata in seno al processo penale ha natura meramente accessoria e subordinata alla finalità dello stesso, che è quella dell’accertamento della responsabilità penale dell’imputato.
D’altro canto, alla luce del canone dell’ubi voluit dixit, non si può sostenere che la lacuna contenuta nel d.lgs. n. 7/2016 possa essere colmata mediante l’estensione della disposizione transitoria prevista nel coevo d.lgs. n. 8/2016, poiché – al di là della mancanza di eadem ratio tra i decreti – si tratterebbe di applicazione analogica di norma eccezionale, vietata in base agli stessi principi già enunciati dai giudici di legittimità in relazione all’art. 578 c.p.p.
Poiché, peraltro, il giudice penale si può occupare dei capi civili solo in quanto contestualmente pervenga ad una dichiarazione di responsabilità penale ex art. 538 c.p.p., il proscioglimento con la formula «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» ne preclude l’esame.
Infine, si è osservato che il meccanismo delineato all’art. 12 d.lgs. n. 7/2016 prevede che il giudice del risarcimento del danno sia lo stesso – ossia quello civile – che irroga la sanzione pecuniaria civile anche con riferimento ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto, salvo il caso di intervenuta irrevocabilità della sentenza. Ciò con la conseguenza che, se si esonerasse il giudice civile dal compito di decidere sul risarcimento lasciando tale incombenza al giudice penale, di fatto si manderebbe esente dalla nuova sanzione pecuniaria civile il responsabile del fatto.
Preso atto del contrasto, la II sezione della Corte di cassazione ha investito le sezioni unite della seguente questione di diritto: «Se in caso di sentenza di condanna relativa ad un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs 15.1.2016, n. 7, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, debba revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili»4.
Il Supremo Consesso, dopo aver ripercorso i due indirizzi, ha ritenuto di aderire al secondo, partendo da un’interpretazione letterale della normativa, che è canone ermeneutico prioritario per l’interprete5.
Il primo dato letterale riguarda la presenza della disciplina transitoria di cui all’art. 12 d.lgs. n. 7/2016, dove manca un qualsiasi cenno al potere del giudice dell’impugnazione di decidere sulle statuizioni civili. Il secondo risiede nella previsione di cui all’art. 8 del medesimo decreto, che attribuisce la competenza ad irrogare le nuove sanzioni civili al giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento danni, ossia quello civile. Una tale soluzione si pone «in linea di stretta correlazione con il silenzio normativo precedentemente evidenziato, potenziandone la eloquenza nella direzione del brocardo ubi noluit non dixit». Anche perché, se così non fosse – e si riconoscesse al giudice penale il potere di statuire sui capi civili oltreché sulla sanzione civile – laddove l’impugnazione fosse quella di legittimità, si finirebbe per attribuire alla Corte di cassazione una valutazione di merito, non consentita.
Quindi, le Sezioni Unite procedono ad una “verifica controfattuale” del silenzio serbato dal legislatore e, in una valutazione parallela dei due decreti, osservano come «la differenza delle discipline transitorie rispecchia la più generale scelta di congegnare due sistemi con opzioni tecnico-normative differenziate ed autonome». La depenalizzazione ha riguardato reati procedibili d’ufficio, che tutelano interessi pubblici e rispetto ai quali è compito dello Stato irrogare d’ufficio la sanzione; l’abrogazione, invece, ha colpito reati perseguibili a querela, incidenti su interessi privati. Peraltro, sul piano dei principi generali, vige la regola del collegamento della decisione sulla domanda della parte civile alla formale condanna dell’imputato, stabilita dall’art. 538 c.p.p. ed estensibile al giudizio di impugnazione ex art. 598 c.p.p. A ragionare diversamente, come anche osservato nella sentenza della Consulta n. 12/2016, il risarcimento del danno verrebbe ancorato non più alla previsione di cui all’art. 185 c.p., ma a quella di cui all’art. 2043 c.c., rispetto alla quale il giudice penale non ha competenza. Nel rispondere poi alle osservazioni poste a fondamento del primo orientamento, le Sezioni Unite rilevano come non si possa procedere ad un’estensione dell’art. 578 c.p.p., che costituisce un tipico esempio di “eccezione a regole generali o ad altra legge”, insuscettibile di applicazione analogica ai sensi dell’art. 14 Preleggi. Analogo divieto vige con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 9, co. 3, d.lgs. n. 8/2016, prevista solo per l’ipotesi di depenalizzazione e non per il caso dell’abolitio criminis.
In ciò si avrebbe la quadratura del cerchio che impone al giudice dell’impugnazione di revocare i capi della sentenza che concernono gli interessi civili nel momento in cui – in riforma di una sentenza di condanna per un reato successivamente abrogato – pronuncia sentenza di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
I profili di maggiore problematicità che sopravvivono rispetto alla citata pronuncia attengono, da una parte, al tenore delle argomentazioni poste a base della decisione adottata e, dall’altra, al presunto contrasto con i principi di uguaglianza ex art. 3 Cost. e di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. Da una parte, le argomentazioni poste a sostegno della decisione adottata sono state criticate da un impostazione dottrinaria6, la quale, pur pervenendo alla medesima conclusione, propone un percorso motivazionale del tutto diverso. Secondo tale teoria, la pronuncia delle Sezioni Unite partirebbe dall’assunto secondo cui il giudice dell’impugnazione, salve alcune ipotesi derogatorie, non possa pronunciarsi sulla responsabilità civile dell’imputato laddove non possa affermarne la responsabilità penale. L’opzione ermeneutica prescelta di applicare la previsione di cui all’art. 538 c.p.p. anche al secondo grado ai sensi dell’art. 598 c.p.p. non parrebbe convincente laddove non tiene conto della diversità di situazioni in cui si trova il giudice d’appello che, lungi dal dover decidere sull’accoglibilità o meno della domanda risarcitoria, deve invece pronunciarsi sulla fondatezza delle censure articolate contro una pronuncia di condanna anche agli effetti civili. Né in tal senso si potrebbe obiettare che, venuto meno il reato con l’abolitio criminis, la fonte delle obbligazioni civili non sia più l’art. 185 c.p., ma l’art. 2043 c.c. perché, al contrario, il fenomeno abrogativo non estende la sua efficacia retroattiva anche agli effetti civilistici.
Il fondamento della tesi sostenuta dalle Sezioni Unite, allora, si potrebbe forse rinvenire nella previsione di cui all’art. 129, co. 2, c.p.p., che pone una regola di prevalenza delle cause di estinzione del reato rispetto alle ipotesi di proscioglimento nel merito, salvo che queste non assumano carattere di evidenza. Ebbene, se tale regola si deve estendere anche al caso dell’abrogazione della norma incriminatrice, va da sé che il giudice dell’impugnazione, non potendo valutare la sussistenza delle condizioni per un’assoluzione in fatto, non sarà nemmeno in grado di pronunciarsi sulla persistenza o meno delle statuizioni civili.
Da un’altra parte, poi, per quanto concerne i profili di legittimità costituzionale della disciplina, la stessa è apparsa dubbia nella parte in cui finisce per obbligare la parte civile ad adire il giudice civile nonostante che il fatto sia già stato accertato, con i connessi problemi di diseconomia processuale e di contrasto di giudicati. Inoltre, si avrebbe anche un’ingiustificata disparità di trattamento tra il danneggiato costituitosi parte civile in un processo che si concluda con l’assoluzione per abrogazione e quello che abbia visto concludersi il processo con la stessa formula ma per depenalizzazione o con una condanna.
Le Sezioni Unite negano la sussistenza di profili di incostituzionalità richiamando la disomogeneità di situazioni coinvolte nei due decreti ed ancorando il ragionamento all’impostazione generale del nuovo processo penale che si basa sulla separazione dei giudizi. Sotto il profilo della ragionevole durata del processo, poi, si rileva che sono in grado di «arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza». Nel caso considerato, invece, se è vero che la preclusione della decisione sulle statuizioni civili costringe il danneggiato ad instaurare un autonomo giudizio civile con correlato allungamento dei tempi, in ciò «si rinviene la quadratura del carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale» e, dunque, la logica esigenza di procedere in siffatta maniera. Diverso sarebbe – con conseguente violazione non solo degli artt. 3, 24 e 111 Cost., ma anche degli artt. 6 e 7 CEDU – solo qualora il danneggiato non disponesse di adeguati strumenti alternativi per far valere le proprie pretese.
Dubbi circa la correttezza del ragionamento seguito persistono in parte della dottrina7, che osserva come la «palese violazione dei principi costituzionali» avrebbe consigliato di sollevare una questione di legittimità costituzionale. Effettivamente, la mancanza di una disciplina ad hoc lascia spazio quantomeno al profilarsi di alcuni aspetti di irrazionalità del sistema. Un sistema che, da una parte, nel rispetto delle indicazioni sovranazionali, riconosce un ruolo sempre più pregnante alla vittima del reato promettendole giustizia nel processo penale e, dall’altra, gliela nega in quella sede una volta che questo decade per sopravvenuta abolitio criminis. In ciò non può non riconoscersi un disallineamento tra le finalità perseguite con la riforma e gli effetti che ne sono derivati nel caso esaminato. Se l’obiettivo era quello di “svuotare le aule penali” con la deflazione del contenzioso giudiziario e la valorizzazione della sanzione penale come extrema ratio, non si può non osservare con amarezza come ciò sia andato a gravare sulle tasche e sui tempi di risposta da parte del sistema nei confronti dei danneggiati, estromessi dal circuito penale prescelto dopo averne faticosamente percorso tutte le tappe e costretti a riassumere il caso e “riempire le aule civili” per domandare giustizia.
1 Cass. pen., S.U., 29.9.2016, n. 46688, in CED rv. n. 267884.
2 Cfr., tra le altre, Cass. pen., sez. II, 27.5.2016, n. 24299, inedita; Cass. pen., sez. II. 23.3.2016, n. 14529, in CED rv. n. 266467; Cass. pen., sez. II, 8.3.2016, n. 21598, in CED rv. n. 267077.
3 Cfr., ex multis, Cass. pen., sez. V, 19.2.2016, n. 15634, in CED rv. n. 266502; Cass. pen., sez. V, 9.3.2016, n. 14044, in CED rv. n. 266297; Cass. pen., sez. V, 1.4.2016, n. 16147, in CED rv. n. 266503; Cass. pen., Sez. V, 10.5.2016, n. 32198, in CED rv. n. 267002; Cass. pen., sez. V, 1.6.2016, n. 26862, inedita; Cass. pen., sez. V, 20.5.2016, n. 26840, inedita; Cass. pen., sez. V, 1.6.2016, n. 31643, inedita.
4 Così Cass. pen., sez. II, ord. 15.6.2016, n. 26092, inedita.
5 Si badi come tale principio verrà ripreso anche da Cass. pen, S.U., 15.12.2016, n. 53153, in CED rv. n. 268179, v. in questa sezione del volume, 3.3.2 Provvisionale e vicende dell’impugnazione penale.
6 Ludovici, L., La sorte delle statuizioni civili (dopo il d.lgs 15 gennaio 2016 n. 7) in una discutibile pronuncia delle Sezioni unite, in Arch. pen., 2017, 1, p. 9 ss.
7 Si veda Ucci, S., Le Sezioni Unite della Cassazione sulle sorti delle statuizioni civili nel giudizio di impugnazione a seguito della depenalizzazione operata con i decreti legislativi n. 7 e 8 del 2016: un punto di arrivo? in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 1, p. 18.