Reato continuato e quantificazione della pena
Da ormai quarant’anni – da quando, cioè, l’introduzione del reato continuato eterogeneo ha spostato gli equilibri del sistema – il meccanismo di cumulo giuridico delle pene prefigurato dall’art. 81 c.p. resta al centro di dispute ermeneutiche. Di fronte all’ennesimo contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite sono tornate così ad occuparsi dei criteri di individuazione della «violazione più grave», ribadendo, nell’essenziale, posizioni espresse a partire dai primi anni ’90, anche in ordine al collegato tema delle modalità dell’aumento della pena «fino al triplo» in presenza di reati puniti con pene eterogenee. La permanenza dei profili di criticità dell’assetto riaccreditato (imperniato sulla valutazione di gravità in astratto e sul metodo dell’“aumento-assimilazione”), da tempo evidenziati in dottrina, fanno tuttavia dubitare che la partita possa considerarsi chiusa, rendendo vieppiù auspicabile un intervento legislativo di ricalibratura del meccanismo.
Malgrado la sua apparente linearità, il meccanismo di cumulo giuridico che impronta il regime sanzionatorio del reato continuato (e del concorso formale di reati) – aumento fino al triplo della pena che dovrebbe infliggersi per la «violazione più grave», col limite risultante dall’applicazione del cumulo materiale (art. 81, co. 1-3, c.p.) – resta da decenni al centro di dispute ermeneutiche.
Il congegno rifletteva l’originario ordito del codice Rocco, che conosceva solo il reato continuato omogeneo. Uno scarto di gravità, a livello di paradigma astratto, era dunque riscontrabile solo quando la continuazione intercorresse tra diverse forme di manifestazione dello stesso reato (consumata e tentata, semplice e circostanziata): scarto che non intaccava l’omogeneità delle risposte punitive se non in casi marginali (forma aggravata punita con pena di specie diversa dalla forma semplice).
L’ingresso nel sistema, con il d.l. 11.4.1974, n. 99, conv. in l. 7.6.1974, n. 220, del reato continuato eterogeneo ha reso di contro ordinaria l’eventualità che la continuazione avvinca figure criminose con cornici sanzionatorie disallineate sul piano quali-quantitativo, imprimendo coloriture problematiche incomparabilmente più marcate ad entrambi gli interrogativi di base posti da quel regime: quale sia la «violazione più grave» e come vada operato l’aumento della pena «fino al triplo».
La cartina di tornasole del fenomeno è nella periodicità con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono trovate a dover ricompattare il panorama giurisprudenziale in argomento, restio a lasciarsi incanalare senza sfrangiature lungo le coordinate in precedenza tracciate.
2.1 L’individuazione della «violazione più grave»
Quattro interventi del supremo organo nomofilattico non sono bastati, in specie, a sopire i contrasti riguardo ai criteri di individuazione della «violazione più grave».
L’alternativa è se la selezione vada effettuata raffrontando le cornici sanzionatorie edittali (maggiore gravità in astratto, riferita al tipo di reato, tenuto conto anche di eventuali circostanze), o comparando le pene che il giudice concretamente infliggerebbe in applicazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p. (maggiore gravità in concreto, riferita al fatto). Trasversale a tale alternativa è la definizione dei parametri alla cui stregua va apprezzata la maggiore gravità.
2.2 La valutazione in astratto
Dopo l’iniziale recepimento, al principio degli anni ’80, della tesi della valutazione in concreto1, le Sezioni Unite hanno decisamente virato, nel successivo decennio, verso l’opposta soluzione2, ribadendone altre due volte la bonitas3. Riemergenti smagliature nella più recente giurisprudenza delle sezioni singole4 hanno peraltro costretto il Supremo Consesso, nel 2013, ad occuparsi nuovamente del tema, con esiti di riaffermazione ragionata degli approdi acquisiti5.
A sostegno della tesi della valutazione in astratto – minoritaria in dottrina6 – militerebbe, anzitutto, l’argomento letterale. L’art. 81 c.p. non si riferisce alla «pena», ma alla «violazione» più grave: espressione che evocherebbe non il fatto, ma il paradigma criminoso.
In un’ottica costituzionale, poi, la valutazione di gravità degli illeciti penali sarebbe riservata al legislatore, esprimendosi nella fissazione dei limiti edittali di pena: riconoscere al giudice il potere di sovvertirla contrasterebbe con l’art. 101, co. 2, Cost., oltre che con esigenze di eguaglianza e certezza (art. 3 Cost.), schiudendo la via a sperequazioni di trattamento correlate alla varietà delle opinioni dei singoli giudicanti.
La valutazione in astratto sarebbe inoltre coerente, sul piano sistematico, con le soluzioni adottate in campo processuale (artt. 4, 16, co. 1, e 278 c.p.p.). Né sarebbe probante l’art. 187 disp. att. c.p.p., secondo cui, ai fini dell’applicazione della continuazione in executivis, «si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave»: trattandosi di norma derogatoria espressamente limitata alla fase dell’esecuzione, nella quale può solo prendersi atto della valutazione effettuata dal giudice della cognizione.
Quanto ai parametri identificativi della maggiore gravità, verrebbe anzitutto in rilievo il dato “qualitativo”. In linea con la considerazione legislativa, riflessa nella disciplina di un complesso di istituti (sospensione condizionale, prescrizione, conversione, oblazione, ecc.), i delitti dovrebbero essere ritenuti sempre più gravi delle contravvenzioni, indipendentemente dall’entità delle pene7. Il criterio quantitativo opererebbe in seconda battuta, quando si tratti di reati di egual natura: tra più delitti o più contravvenzioni, la violazione più grave sarebbe quella col massimo edittale più elevato; a parità di massimo, quella col minimo edittale superiore. Ad evitare, peraltro, che la commissione di più reati giovi paradossalmente al reo, il giudice non potrebbe comunque applicare una pena base inferiore al minimo edittale previsto per uno qualsiasi dei reati unificati8.
Sulla valutazione di maggior gravità inciderebbero anche le modalità di manifestazione del reato. Occorrerebbe tener conto quindi delle circostanze e degli esiti del relativo giudizio di bilanciamento, calcolando nel minimo la riduzione per le attenuanti e nel massimo l’aumento per le aggravanti9.
2.3 La valutazione in concreto
Nessuno dei ricordati argomenti appare peraltro inconfutabile, come attesta il fatto che la contraria tesi della valutazione in concreto continui a restare largamente maggioritaria in dottrina10.
L’argomento letterale è fragile, perché ribaltabile. Riferendo la maggiore gravità alla «violazione» e non al «reato», l’art. 81 c.p. potrebbe bene alludere alla concreta realizzazione della fattispecie criminosa anziché alla sua dimensione astratta.
L’argomento “costituzionale” è suggestivo, ma tutt’altro che irresistibile. Quando l’art. 81 c.p. parla di «pena per la violazione più grave», da assumere come base per l’aumento fino al triplo, si riferisce a una pena determinata dal giudice in concreto e non ad un limite edittale. Pare allora contraddittorio che la violazione più grave vada valutata in astratto, quando poi l’aumento per la continuazione si basa sulla pena concretamente inflitta: laddove invece la valutazione in concreto permetterebbe una migliore individualizzazione della sanzione, in accordo con lo spirito della riforma del 1974.
Quanto, poi, agli indici sistematici, al di là dell’art. 533, co. 2, c.p.p., un energico argomento a sostegno della valutazione in concreto si trae dalla sua adozione nel citato art. 187 disp. att. c.p.p. Benché riferita alla fase esecutiva, la disposizione appare espressiva di una regola generale11, specie se traguardata alla luce della ragione che ha indotto a prevedere l’applicazione della continuazione in executivis. Sarebbe infatti singolare che una normativa volta ad evitare che la celebrazione di più processi per violazioni unificate dalla continuazione incida sul piano sanzionatorio, perpetui invece la disparità di trattamento, stabilendo per la fase esecutiva criteri di determinazione della pena diversi da quelli valevoli in sede cognitiva.
Dai fautori della valutazione in concreto si denunciano, altresì, le irrazionali conseguenze indotte dai criteri astratti di determinazione della maggiore gravità: chi, dopo aver commesso plurime contravvenzioni punite con l’arresto, realizzi un delitto punito con la sola multa, sarebbe infatti sanzionato meno severamente dell’autore delle sole contravvenzioni (la pena base diverrebbe solo pecuniaria)12. Ad evitare simili risultati, occorrerebbe soppesare piuttosto la concreta afflittività delle sanzioni, indipendentemente dal dato “nominalistico”13. Tra pene del medesimo genere – tutte detentive o tutte pecuniarie – la più grave sarebbe quella che comporta un maggior sacrificio della libertà personale o del patrimonio, quale ne sia la specie (più gravi tre anni di arresto che non uno di reclusione); mentre tra pene di genere diverso le detentive sarebbero sempre più gravi delle pecuniarie, senza che possa farsi luogo a ragguaglio ai sensi dell’art. 135 c.p.
2.4 L’aumento «fino al triplo»
Non meno insidioso è il secondo interrogativo, attinente alle modalità del cumulo giuridico nel caso di reati puniti con pene eterogenee (ipotesi non regolata dal codice in vigore, diversamente che nel codice Zanardelli e in plurimi codici stranieri).
Le Sezioni Unite avevano inizialmente risolto in modo tranchant i problemi in materia, legati al timore che il meccanismo producesse risultati contrastanti coi principi di legalità e del favor rei, escludendo la configurabilità della continuazione tra i reati in questione14: soluzione inaccettabile, non solo perché sviliva la riforma del 1974, ma anche perché foriera di irrazionali discriminazioni (essendo impensabile che la continuazione tra un delitto e una contravvenzione sia trattata peggio della continuazione tra due delitti). Era perciò inevitabile che l’indirizzo venisse abbandonato15.
Al riaffiorante interrogativo di partenza, la giurisprudenza predominante ha quindi risposto che occorrerebbe procedere col metodo dell’“aumento-assimilazione”: conclusione che le Sezioni Unite ribadiscono con la pronuncia del 201316. L’aumento andrebbe operato, cioè, esclusivamente sulla pena del reato principale, che assorbirebbe le pene previste per i reati satellite: questi ultimi, una volta determinata la violazione più grave, perderebbero infatti la loro autonomia sanzionatoria.
Tale soluzione, se fa salvo il principio di legalità – giacché pena legale non è solo quella comminata dalla norma incriminatrice, ma quella che risulta da tutte le disposizioni incidenti sulla risposta punitiva, compreso l’art. 81 c.p. – appare però incompatibile con il principio del favor rei, che ispira la disciplina del reato continuato, consentendo la conversione delle pene dei reati satelliti in pene più gravi per genere o specie (nel caso di continuazione tra un delitto punito con la reclusione e una contravvenzione punita con l’ammenda, quest’ultima trasmuterebbe in pena detentiva).
Su tale rilievo, la dottrina maggioritaria è dunque dell’avviso che l’unica soluzione praticabile sia l’“aumento-addizione”: quella, cioè, di aggiungere alla pena del reato base una frazione delle pene applicabili per le violazioni meno gravi – scilicet, anche inferiore ai minimi edittali – salvo poi a ragguagliarle al solo fine di verificare il rispetto dei limiti di cui all’art. 81, co. 1 e 3, c.p.17. Il tenore letterale della norma non sarebbe ostativo ad una simile operazione: una pena viene, infatti, «aumentata» non solo quando se ne elevi la durata o l’ammontare, ma anche quando si aggiunga ad essa una pena di tipo diverso.
È dunque prevedibile che nemmeno il nuovo intervento delle Sezioni Unite varrà a defibrillare il panorama ermeneutico, permanendo i profili fondamentali di insoddisfazione per l’assetto da esse (ri)accreditato. Evidenziare l’opportunità di un intervento legislativo che riallinei il meccanismo considerato ad un contesto scollato ormai da quarant’anni, è cosa a questo punto quasi banale. L’invecchiamento del sistema si sconta, d’altronde, anche in prospettiva più vasta: le valutazioni di gravità dei reati effettuate nel codice Rocco rimontano a oltre ottant’anni, mentre le scelte punitive del legislatore più recente non sempre sono state all’insegna della coerenza, specie nel configurare come contravvenzioni violazioni di una certa gravità, anche per la loro natura dolosa18. Il che può produrre guasti limitati quando si tratti di determinare la competenza per materia; non così quando occorra determinare una pena unitaria per plurime violazioni.
Nella suddetta direzione si sono mossi, del resto, i più recenti progetti di riforma del codice penale, esprimendo peraltro una significativa propensione verso soluzioni antitetiche a quelle riproposte dal Supremo organo della nomofilachia: valutazione di gravità in concreto, aumento mediante addizione19.
1 Cass. pen., S.U., 19.6.1982, n. 9559.
2 Cass. pen., S.U., 27.3.1992, n. 4901.
3 Cass. pen., S.U., 12.10.1993, n. 748/1994; Cass. pen., S.U., 26.11.1997, n. 15/1998.
4 Per la valutazione in concreto, Cass. pen., 24.3.2009, n. 19978; Cass. pen., 9.2.2010, n. 12765; Cass. pen., 6.3.2012, n. 25120.
5 Cass. pen., S.U., 28.2.2013, n. 25939.
6 Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, Parte generale, V ed., Bologna, 2007, 662; Lepri, F., Continuazione tra reati, cumulo giuridico ed individuazione della «violazione più grave»: l’ultima parola delle Sezioni unite?, in Riv. pen., 1992, 1063.
7 Ex plurimis, oltre alle citate decisioni delle Sezioni Unite, Cass. pen., 27.5.2004, n. 26308; Cass. pen., 20.1.2012, n. 13573.
8 Soluzione recepita da C. cost., 23.1.1997, n. 11.
9 Il principio – “consacrato” dalle Sezioni Unite nella sentenza del 2013 – era stato già stato reiteratamente enunciato dalle sezioni singole: per tutte, Cass. pen., 2.12.2002, n. 1318/2003; Cass. pen., 20.12.2007, n. 47144; Cass. pen., 15.6.2010, n. 24838.
10 Ambrosetti, E.M., Problemi attuali in tema di reato continuato, Padova, 1991, 38; Conz, A., Riflessioni “sistematiche” ed ipotesi applicative del reato continuato, in Cass. pen., 2009, 2423; Coppi, F., Reato continuato, in Dig. pen., XI, Torino, 1996, 230; Crivellin, E., Reato continuato e computo delle circostanze: riflessi sulla commisurazione della pena, in Dir. pen. e processo, 2009, 1256 ss.; Fioravanti, L., Nuove tendenze giurisprudenziali in tema di individuazione della «violazione più grave» ex art. 81 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, 749; Fiorella, A., Concorso formale, reato continuato e pene eterogenee, in Riv. it. dir. proc. pen., 1977, 1560; Gualtieri, G., Art. 81, in Codice penale commentato, a cura di E. Dolcini-G. Marinucci, III ed., Milano, 2011, 1337; Mantovani F., Diritto penale, Parte generale, VI ed., Padova, 2009, 494; Marinucci G.-Dolcini, E., Manuale di diritto penale, II ed., Milano, 2006, 405; Mazzacuva, N.- Ambrosetti, E.M., Reato continuato, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 7; Padovani T., Diritto penale, X ed., Milano, 2012, 400; Pagliaro, A., Il reato, Milano, 2007, 430; Palazzo, F., Corso di diritto penale, Torino, 2006, 546; Pitton, D., Violazione più grave e pene eterogenee nel reato continuato: un nuovo intervento delle Sezioni unite, in Cass. pen., 1998, 2316; Potetti, D., Vecchi problemi in tema di reato continuato e nuovo rito penale, in Cass. pen., 1996, 976; Romano, M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, 755.
11 Era questa, del resto, anche la convinzione dei compilatori, espressa nella relazione al codice di procedura penale.
12 Effetti distorsivi potrebbero manifestarsi anche in rapporto alla fruizione della sospensione condizionale. La questione di costituzionalità al riguardo sollevata fu dichiarata, peraltro, manifestamente inammissibile per il divieto di pronunce in malam partem in materia penale (C. cost., 29.1.1993, n. 20).
13 Sul punto, da ultimo, Crivellin, E., op. cit., 1259 s.
14 Cass. pen., S.U., 23.10.1973, n. 12190, avallata da C. cost., 18.1.1977, n. 34.
15 L’ammissibilità della continuazione è stata riconosciuta dapprima nel caso di previsione di pene congiunte per il solo reato più grave (Cass. pen., S.U., 22.1.1977, n. 14890), poi anche in relazione all’ipotesi inversa (Cass. pen., S.U., 30.4.1983, n. 62206) e infine con riguardo alla generalità dei reati puniti con pene eterogenee (Cass. pen., S.U., 26.5.1984, n. 6300): conclusione confermata da C. cost., 17.3.1988, n. 312.
16 Cass. pen., S.U., 28.2.2013, n. 25939; in precedenza, tra le molte, Cass. pen., S.U., 26.11.1997, n. 15/1998; Cass. pen., 4.6.2004, n. 28514; Cass. pen., 30.9.2004, n. 44414; Cass. pen., 2.4.2009, n. 15986.
17 Ambrosetti, E.M., op. cit., 42; Coppi, F., op. cit., 231; Fasoli, F.P., L’applicazione del cumulo giuridico ai sensi dell’art. 81 c.p. quando le pene previste per i reati della fattispecie complessa siano eterogenee, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 1429 s.; Fiorella, A., op. cit., 1563; Gualtieri, G., op. cit., 1342; Lepri, F., op. cit., 1064; Mantovani, F., op. cit., 495; Marinucci, G.-Dolcini, E., op. cit., 407; Padovani, T., op. cit., 402; Palazzo, F., op. cit., 547; Pulitanò, D., Diritto penale, III ed., Torino, 2009, 512; Romano, M., op. cit., 757; Zagrebelsky, V., Un inizio di revisione della giurisprudenza sulla continuazione ed i reati puniti con pene eterogenee, in Cass. pen., 1981, 1255; Id., Reato continuato, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, 849.
18 Romeo, G., Alle Sezioni unite, ancora una volta, la questione dei criteri di identificazione della violazione più grave nel reato continuato, in www.penalecontemporaneo.it, 13.11.2012, 4.
19 Si vedano il progetto Pagliaro (art. 33), il progetto Riz (art. 76) e il progetto Grosso (artt. 75 e 76).