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Reato e pene
Il divieto di analogia in malam partem, con il connesso problema della distinzione dalla (ammissibile) interpretazione estensiva sfavorevole al reo, è di recente venuto in rilievo in una pluralità di interessanti casi giurisprudenziali.
È anzitutto noto come, nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, quel divieto venga tradizionalmente invocato, tra l’altro, per argomentare la tesi contraria alla configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità. La rapina impropria (art. 628, co. 2, c.p.) si configura allorché l’agente usi la violenza o la minaccia non già come mezzo per impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (come nella rapina propria), bensì – «immediatamente dopo la sottrazione» – come mezzo per assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero per procurare a sé o ad altri l’impunità. Orbene, chi nega la configurabilità del tentativo di rapina impropria, nel caso predetto, fa tradizionalmente leva, tra l’altro, sulla lettera dell’art. 628, co. 2, c.p.: violenza e minaccia devono essere esercitate immediatamente «dopo la sottrazione». Diversamente, esse assumono rilevanza autonoma (percosse/lesioni, o minaccia), e possono concorrere con il furto tentato, integrato dal tentativo di impossessamento della res. Solo attraverso un’inammissibile interpretazione analogica potrebbe dunque ritenersi integrato il tentativo di rapina impropria in mancanza di una previa sottrazione della res.
In senso contrario si sono tuttavia di recente espresse le Sezioni Unite della Cassazione, nel contesto dell’ampia e articolata motivazione di una sentenza, depositata nel 2012, con la quale, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, hanno affermato la configurabilità del tentativo di rapina impropria anche in caso di mancata previa sottrazione della res (Cass. pen., S.U., 19.4.2012, n. 34952). Invocare il divieto di analogia in malam partem, secondo la Corte, sarebbe nel caso di specie “suggestivo”. Le S.U. osservano infatti come il principio di legalità trovi fondamento, oltre che nella Costituzione, nell’art. 7 CEDU, ove ad esso – secondo la giurisprudenza di Strasburgo – si ricollegano i valori della accessibilità della norma penale violata (accessibility) e della prevedibilità della sanzione (foreseeability); «accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla semplice previsione della legge, ma alla norma ‘vivente’ quale risulta dalla applicazione e dalla interpretazione dei giudici; pertanto la giurisprudenza viene ad assumere un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale». La prevedibilità del risultato interpretativo è dunque criterio decisivo per stabilire il rispetto del principio di legalità e «non vi è dubbio» – conclude la Corte – che nel caso di specie quel principio sia rispettato, atteso che nel senso della configurabilità del tentativo di rapina impropria, nonostante l’assenza di una previa sottrazione della res, si esprime una giurisprudenza «granitica per molti decenni, fino alla pronuncia di alcune sentenze difformi».
Non possiamo esimerci dal notare, invero, come l’argomento si presti a più di una considerazione critica. Anzitutto, sembra che le S.U., invocando in questa sede l’art. 7 CEDU a fronte di una lamentata violazione del divieto di analogia, trascurino un’altra disposizione fondamentale della stessa CEDU: l’art. 53, ai sensi del quale nessuna disposizione della Convenzione «può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali» riconosciute dagli ordinamenti nazionali. La garanzia della riserva di legge e del divieto di analogia, che fa di ogni spazio non disciplinato dalla “legge” del Parlamento uno spazio libero dal diritto penale, non può essere frustrata invocando un preteso ruolo della giurisprudenza quale fonte del diritto, capace di riempire le lacune dell’ordinamento. Vi è di più, perché la tesi espressa dalla Corte potrebbe addirittura prestarsi a legittimare violazioni del divieto di analogia da parte della giurisprudenza. Un granitico “diritto vivente” che propugni un’interpretazione analogica in malam partem della legge penale consentirebbe la “prevedibilità” del risultato interpretativo e, pertanto, sarebbe conforme alla riserva di legge: un risultato all’evidenza paradossale. D’altra parte, e ad abundantiam, è dubbio che, nel caso di specie, si discuta di un risultato interpretativo normalmente prevedibile: lo dimostra la stessa rimessione della questione alle S.U., e dunque l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale difforme che, come si ricorda nella stessa sentenza in esame, annovera pur sempre, per quanto minoritario, ben sei pronunce della Cassazione dal 1999 ad oggi (oltre che svariate decisioni di merito).
La problematica distinzione tra interpretazione estensiva (ammissibile) e analogia in malam partem (vietata) è inoltre venuta in rilievo, nell’ultimo anno come in quelli immediatamente precedenti, in una serie di interessanti pronunce di legittimità in tema di molestie recate «col mezzo del telefono» (art. 660 c.p.). Il progresso tecnologico realizzato nell’ambito delle comunicazioni telefoniche e telematiche pone infatti il problema della rilevanza penale, ai sensi della citata norma incriminatrice, delle molestie recate attraverso sistemi di telecomunicazione diversi dal telefono fisso (al quale evidentemente si riferiva il legislatore del 1930, allorché formulava il testo dell’art. 660 c.p.), quali gli sms inviati attraverso telefoni cellulari, la posta elettronica e il servizio MSN Messenger.
La Cassazione, anzitutto, si è espressa nel senso della riconducibilità alla previsione dell’art. 660 c.p. delle molestie recate attraverso sms (Cass. pen., 26.3.2004, n. 28680; v. anche, adesivamente, Cass. pen., 22.2.2011, n. 10983; Cass. pen., 24.6.2011, n. 30294; contra, isolatamente, Cass. pen., 29.4.2005, n. 18449). Da un lato, con un’interpretazione evolutiva della norma incriminatrice – e in particolare del concetto di “mezzo del telefono” – si è osservato come gli sms, anche se certamente non realizzano la forma di comunicazione vocale alla quale intendeva riferirsi il legislatore del 1930, vengano pur sempre trasmessi attraverso sistemi telefonici, che collegano tra loro apparecchi cellulari e/o fissi; in altri termini, vengono pur sempre trasmessi «col mezzo del telefono», sicché la lettera della legge sarebbe rispettata e non si sconfinerebbe nell’analogia vietata. Dall’altro lato – questa volta nella prospettiva di un’interpretazione teleologica – si è osservato, guardando al risultato, in termini di capacità offensiva del bene giuridico della libertà e tranquillità psichica della vittima, come l’sms, al pari della comunicazione telefonica, ponga il destinatario nella condizione di essere costretto a percepire, de visu o quantomeno de auditu (Cass. pen., n. 30294/2011, cit.) la comunicazione molesta, prima di poterne individuare il mittente.
La Cassazione è invece pervenuta a una diversa soluzione in tema di molestie recate attraverso l’invio di posta elettronica (e-mail), per mezzo del computer. In questo caso la Corte, invocando il principio di tassatività della legge penale ex art. 25, co. 2, Cost., ha affermato che la norma incriminatrice delle molestie «col mezzo del telefono» non può essere «dilatata sino a comprendere l’invio di corrispondenza elettronica sgradita, che provochi turbamento o quantomeno fastidio». La lettera della legge, anche se interpretata estensivamente, non consente di ricondurre alla previsione dell’art. 660 c.p. le molestie recate attraverso le e-mail inviate da un computer. Da un lato, infatti, si è osservato che «la posta elettronica utilizza la rete telefonica e la rete cellulare delle bande di frequenza, ma non il telefono …» (Cass. pen., 17.6.2010, n. 24510); dall’altro lato si è sottolineato che, nel caso della posta elettronica, al pari di quanto accade con la tradizionale corrispondenza epistolare, la comunicazione è asincrona e non vi è alcuna immediata interazione tra il mittente e il destinatario, che ha la possibilità di evitare l’intromissione nella propria sfera personale omettendo di aprire il messaggio di posta elettronica indesiderato (Cass. pen., n. 24510/2010, cit.). Con l’opportuna precisazione, tuttavia, che ciò non può dirsi nell’ipotesi – oggi consentita dai telefoni di ultima generazione – in cui il messaggio di posta elettronica venga inviato non già per mezzo di e a un computer, bensì attraverso e a un telefono (Cass. pen., 27.9.2011, n. 36779). In questa ipotesi, così come nel caso degli sms, la comunicazione avviene «col mezzo del telefono» e in modalità sincrona, facendo sì che il destinatario non possa sottrarsi, quanto meno, al segnale acustico che annuncia l’arrivo del messaggio.
Con la più recente delle pronunce in materia, depositata nel 2012, la Cassazione ha infine affrontato il problema della riconducibilità alla previsione dell’art. 660 c.p. delle molestie recate attraverso il servizio MSN Messenger (o “istant messaging”), che permette l’invio immediato di messaggi tra due persone attraverso il computer e la rete internet (Cass. pen., 7.6.2012, n. 24670). Anche in questo caso la soluzione accolta è negativa. La Corte ha infatti osservato come, pur utilizzando la rete telefonica e le bande di frequenza della rete cellulare, il servizio MSN Messenger non può essere assimilato alla comunicazione telefonica, la cui caratteristica essenziale è quella di consentire la teletrasmissione, in modalità sincrona, di voci o di suoni, nonché una immediata interazione tra i due soggetti, con una «incontrollata possibilità di intrusione» nell’altrui sfera privata; intrusione che può essere evitata soltanto mediante il rimedio estremo della disattivazione della linea telefonica, con conseguente pregiudizio alla libertà di comunicazione del soggetto passivo. Per contro, il servizio MSN Messenger presuppone che la comunicazione con un determinato soggetto sia preventivamente abilitata dall’utente, il quale può successivamente interrompere ogni possibilità di interazione con quell’interlocutore semplicemente inserendolo in una cd. black list, senza alcun pregiudizio alla propria libertà di comunicazione con altri utenti.
Va anzitutto segnalata un’importante novità normativa: l’art. 3, co. 1 d.l. 13.9.2012, n. 158, conv., con modif., in l. 8.11.2012, n. 189 ha stabilito che «l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». La norma pone un limite alla possibilità per il giudice di sancire la responsabilità del medico che abbia rispettato le linee guida e le best practices. Più in particolare, la norma conferma che possa essere riconosciuta la responsabilità penale del medico per omicidio e lesioni personali che si sia attenuto ad esse, allorché invece avrebbe dovuto discostarsene in ragione della peculiare situazione clinica del malato; ma, in tal caso, la responsabilità penale potrà essere affermata soltanto in caso di colpa grave da parte del sanitario: e dunque quando la necessità di discostarsi dalle linee guida era macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell'imputato.
L’individuazione del grado della colpa necessario per fondare la responsabilità del medico rappresenta un problema tradizionalmente controverso, che è peraltro stato oggetto di una recente sentenza della Cassazione, depositata nel febbraio del 2012 (Cass. pen., 22.11.2011, n. 4391/2012). È infatti notoriamente controverso se sia applicabile anche ai fini della responsabilità penale l’art. 2236 c.c. che, riguardo alla responsabilità civile, dà rilievo alla sola colpa grave quando l’attività richieda la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.
Ribadendo il proprio più recente orientamento, la Corte ha accolto una soluzione che si colloca in posizione per così dire mediana rispetto a quelle propugnate in passato, le quali, rispettivamente, limitavano la responsabilità penale del medico ai casi di colpa grave, invocando la citata disposizione civilistica, ovvero, all’opposto, escludevano qualsiasi rilievo di quella disposizione in campo penalistico. Secondo la sentenza che si segnala, infatti, in tema di colpa professionale del medico, il principio civilistico di cui all’art. 2236 c.c., che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave, può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza, in quanto – secondo la regola generale ricavabile dall’art. 43 c.p. – la colpa del terapeuta deve essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si è svolto. Ne consegue che non sussistono i presupposti per parametrare l’imputazione soggettiva al canone della colpa grave ove si tratti di casi non difficili e fronteggiabili con interventi conformi agli standard. In applicazione di questo principio la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la sussistenza della responsabilità del direttore sanitario di una casa di cura per l’omicidio colposo in danno di un degente affetto da schizofrenia e caduto da una finestra. Infatti, sebbene la condizione del paziente fosse macroscopicamente peggiorata, e fosse nota al medico la necessità di nuove iniziative terapeutiche ed assistenziali, il medico stesso non aveva posto in essere le iniziative in questione, delle quali, peraltro, egli stesso aveva dato conto nel corso di un briefing.
Tra le pronunce giurisprudenziali in tema di colpa merita per altro verso di essere segnalata una sentenza, depositata nel giugno del 2012 (Cass. pen., 9.2.2012, n. 24993), con la quale la Cassazione ha affrontato un curioso caso di colpa generica, che ha rappresentato l’occasione per tornare a precisare l’irrilevanza dell’abitudine (di ciò che “si usa fare”) al fine dell’individuazione delle regole cautelari (attività rispetto alla quale rileva invece ciò che in una data situazione “si deve fare”, e che un agente modello avrebbe fatto). Questo il caso: una donna cammina lungo un marciapiede cittadino, angusto e frequentato, allorché si imbatte in un gruppo di quattro conversanti che impediscono il passaggio. La donna scende dal marciapiede per evitare il gruppo ma, in quel mentre, viene inavvertitamente colpita al volto, in corrispondenza dell’occhio destro, dal dorso della mano di una delle persone, che accompagna la conversazione gesticolando e, in particolare, allargando il braccio. Il colpo provoca alla sfortunata passante delle lesioni personali. Nel giudizio di primo grado, celebratosi davanti al giudice di pace, l’imputato viene assolto; l’assoluzione viene quindi confermata nel giudizio di secondo grado, dal tribunale, e motivata sul rilievo che «l’accompagnare con gesti della mano una conversazione è abitudine comune a molte persone e non integra una condotta violatrice di regole cautelari».
La Cassazione ha annullato con rinvio ai soli effetti civili la sentenza, impugnata dalla parte civile (art. 622 c.p.p.), dopo aver osservato come «non è la generalizzata diffusione di comportamenti a rendere lecita una condotta …». La «abitudine di accompagnare con i gesti una conversazione, di per sé certamente lecita, perde il carattere di liceità nel momento in cui essa, per le modalità che caratterizzano la gestualità e per il contesto in cui essa si manifesta, rappresenti una violazione delle ordinarie regole di prudenza e diligenza che, comunque e in ogni caso, devono accompagnare qualsiasi comportamento umano. Di guisa che, ove nella richiamata abitudine si rinvengano eccessi, atteggiamenti che violino le ordinarie regole di comportamento, di essi l’autore deve rispondere allorché dagli stessi sia ad altri derivato un danno». Ed infatti, osserva icasticamente la Suprema Corte, «la pubblica via non è il salotto di casa; di essa ciascuno ha il diritto di godere ma anche il dovere di lasciarne godere alla generalità dei cittadini, e dunque di rapportare il proprio comportamento al rispetto del diritto altrui». D’altra parte – prosegue la Corte – lo stesso giudice di secondo grado correttamente riconosce che l’evento dannoso può essere addebitato a colui che gesticola se, per la particolarità del contesto (sovraffollamento e ristrettezza dello spazio a disposizione), la concitazione o la scompostezza, è prevedibile ed evitabile. Sennonché, nel caso concreto, il giudice ha del tutto omesso quella verifica, decisiva per «tracciare la linea di demarcazione oltre la quale l’evento dannoso, pur involontariamente prodotto, deve essere addebitato all’agente a titolo di colpa».
La novellata disciplina della recidiva continua a generare incertezze e contrasti interpretativi. E continua a manifestarsi nella giurisprudenza, a fronte di un meccanismo segnato da discutibili automatismi e da gravi implicazioni sul piano delle conseguenze sanzionatorie, la tendenza ad assumere opzioni che, di volta in volta, valgano a depotenziare l’impatto complessivo della riforma. È il caso, tra gli altri, della recente decisione assunta dalle Sezioni Unite della Corte suprema a proposito della rilevanza (o, meglio, della irrilevanza), a fini di computo della recidiva, di condanne pregresse per la cui esecuzione l’interessato sia stato affidato in prova al servizio sociale, con esito favorevole dell’affidamento medesimo (Cass. pen., S.U., 27.10.2011, n. 5859/2012).
In effetti il co. 12 dell’art. 47 della l. 26.7.1975, n. 354 (come novellato in occasione del d.l. 30.12.2005, n. 272), stabilisce che «l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale». La giurisprudenza dominante, sia prima che dopo la riforma della disposizione, aveva ritenuto che, comunque, il precedente dovesse essere considerato a fini di successiva applicazione della recidiva. Argomento essenziale: l’evidente parzialità dell’effetto estintivo collegato alla misura alternativa, non riferibile alla pena pecuniaria, e non produttivo della cancellazione della iscrizione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, da integrare anzi con la menzione dell’esito della misura di affidamento. Si era manifestato, però, anche un orientamento minoritario di segno contrario, ripreso ed accreditato dalle Sezioni Unite.
Più che la portata della fattispecie estintiva in ordine alle pene inflitte – si è detto – interessa stabilire se la recidiva possa considerarsi un effetto penale, e resti dunque compresa, come tale, nella previsione dell’art. 47 ord. penit. La soluzione positiva potrebbe giustificarsi in base ad alcuni indici testuali: il secondo comma dell’art. 106 c.p., a norma del quale la recidiva, usualmente non condizionata dalle cause di estinzione del reato e della pena, resta invece esclusa se quelle stesse cause elidono «anche gli effetti penali»; il co. 1, n. 1, dell’art. 12 c.p., ove si rinviene l’espressione «recidiva o un altro effetto penale della condanna». Tuttavia la Corte ha preferito non impegnarsi in enunciati di carattere generale (anche alla luce della tradizionale nozione di effetto penale quale conseguenza «automatica» della sentenza). Sarebbe sufficiente, in realtà, prendere atto che il secondo comma dell’art. 106 c.p. priva di rilievo il precedente, a fini di contestazione della recidiva, in ogni caso di estinzione degli effetti penali, e che l’art. 47 ord. penit. stabilisce appunto, per la sentenza eseguita con esito positivo dell’affidamento in prova, l’estinzione dei relativi effetti penali. Né potrebbe considerarsi dirimente l’argomento principale della tesi opposta, fondato sulla permanente efficacia della condanna alla pena pecuniaria (e sulla conseguente carenza di quell’effetto estintivo «della pena» che costituisce il presupposto per l’applicazione dell’art. 106 c.p.). Si moltiplicano, nell’ordinamento, i casi di fattispecie a logica premiale, ove comportamenti virtuosi producono la completa cessazione degli effetti penali unitamente all’estinzione delle pene detentive, pur residuando l’eseguibilità delle sanzioni pecuniarie (il riferimento attiene al co. 2 dell’art. 445 c.p.p., che riguarda il cd. patteggiamento, ed al combinato disposto degli artt. 90 e 93 del d.P.R. 9.10.1990, n. 309, concernente i condannati per fatti commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza, qualora si sottopongano a programmi terapeutici).
Tra gli ulteriori eventi significativi del 2012, in materia di circostanze del reato, va registrata una nuova apertura della Suprema Corte circa l’incidenza del multiculturalismo nell’applicazione di norme sensibili al diverso apprezzamento sociale ed individuale di determinati fatti della vita. Si tratta nella specie dell’aggravante dei futili motivi, compresa nella previsione di cui al n. 1 dell’art. 61 c.p.
L’aggravante era stata applicata in un caso di omicidio. L’agente, un operaio straniero, aveva ucciso il datore di lavoro, che trattava i propri dipendenti in modo minaccioso ed aggressivo, e che nella specie aveva personalmente insultato l’omicida mediante un riferimento scatologico. La Cassazione ha annullato, sotto il solo profilo in esame, la sentenza di condanna (Cass. pen., 21.12.2011, n. 6796/2012). Va subito detto che, nel motivare la propria decisione, la Corte ha valorizzato con estrema prudenza il contesto culturale di provenienza del reo, nel cui ambito l’insulto lanciato nella specie potrebbe plausibilmente costituire una offesa particolarmente grave all’onore ed alla reputazione personale del destinatario. Tuttavia, di fronte ad una impostazione tradizionale che assegna rilevanza esclusiva al sentire sociale circa la futilità del motivo del commesso reato, così da imporre per la valutazione un parametro «oggettivo» (e culturalmente dominante), la Corte ha preferito richiamare alcuni isolati precedenti, secondo i quali il giudizio va ancorato alle caratteristiche del caso concreto, «tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, nonché del contesto sociale in cui si è verificato il tragico evento e dei fattori ambientali che possono aver condizionato la condotta criminosa» (così, in particolare, Cass. pen., 14.6.2007, n. 26013).
Scarsi, come accennato, i riferimenti concreti all’ambito di provenienza del condannato (del quale non è neppure indicata la nazionalità). Ma la sentenza è di certo riferibile alla tendenza evocata, che – in chiara relazione con l’accentuata coesistenza nella società italiana di modelli culturali eterogenei – assegna rilevanza al contesto personale dell’agente, realmente sintomatico dell’eventuale sproporzione tra insignificanza della motivazione e gravità della lesione provocata. Può ricordarsi, in proposito, la decisione che ha confermato la ricorrenza dell’aggravante dei motivi abietti a carico di uno straniero che aveva ucciso la figlia perché ne disapprovava gli atteggiamenti da ragazza «occidentale», ammettendo la necessità di condurre l’esame in base alle «ragioni soggettive dell’agire in termini di riferimenti culturali, nazionali, religiosi della motivazione dell’atto criminoso», e però escludendo che, nel caso concreto, i motivi dell’agente trascendessero il mero risentimento personale per la disobbedienza della vittima (Cass. pen., 12.11.2009, n. 6587/2010).
Con una decisione deliberata in apertura del 2012, la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale «sopravvenuta» (a far tempo dall’8 agosto 2009) del terzo comma dell’art. 102 della l. 24.11.1981, n. 689, in pratica «elevando» il parametro di ragguaglio delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del condannato, a fini di conversione nella libertà controllata, dal valore di 38 euro a quello di 250 euro per giorno (C. cost., 9.1.2012, n. 1).
La vicenda presenta una peculiarità: ripete una sequenza che già si era determinata, in termini analoghi, in occasione di un precedente intervento legislativo sui criteri di conversione delle pene pecuniarie. L’art. 135 c.p. contiene, al proposito, una norma di carattere generale, che, nella versione conseguente alla novella recata con la l. n. 689/1981, fissava in 25.000 lire per giorno di pena detentiva, a «qualsiasi effetto giuridico», il criterio di ragguaglio delle pene pecuniarie. L’identico valore era indicato, riguardo alla conversione delle sanzioni pecuniarie rimaste ineseguite, all’art. 102 della legge appena citata, con la quale il legislatore aveva dunque cercato ed attuato una soluzione di simmetria.
L’equilibrio era stato però spezzato, in modo probabilmente involontario, circa dodici anni dopo, quando il legislatore aveva «aggiornato» il dettato dell’art. 135 c.p. (elevando il parametro di conversione fino al valore di 75.000 lire per giorno), senza tuttavia intervenire sulla «parallela» disposizione dettata per le pene rimaste ineseguite. Il diverso trattamento era stato sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, la quale – con la sentenza 23.12.1994, n. 440 – aveva ripristinato la corrispondenza, dichiarando illegittimo l’art. 102 nella parte in cui stabiliva che fosse disposta la libertà controllata per ogni 25.000 lire di sanzione non eseguita, e non invece per ogni 75.000 lire. La Consulta, dopo aver ricordato che la disciplina del ragguaglio attiene (tra l’altro) alla delicatissima materia dell’incidenza delle condizioni patrimoniali del condannato sul bene della sua libertà personale, aveva chiarito come il legislatore non sia in astratto obbligato a stabilire valori identici per ogni possibile ambito di rilevanza della comparazione, e come tuttavia l’eventuale discriminazione debba fondarsi su rationes congrue rispetto a ciascuno degli istituti posti ad oggetto della diversificazione nel trattamento.
La situazione di ingiustificato squilibrio si è riproposta, tale e quale, per effetto della l. 15.7.2009, n. 94, che di nuovo ha modificato l’art. 135 c.p. (elevando il parametro “generale” a 250 euro) senza intervenire sull’art. 102 della l. n. 689/1981. Anche questa volta non v’era traccia di una qualsiasi consapevole strategia di diversificazione, e comunque, come la Consulta ha posto in rilievo con la sua nuova pronuncia, il forte squilibrio tra i due parametri generava gravi incongruenze (ad esempio nel caso di conversione in pena detentiva, ex art. 108 della citata l. n. 689/1981, dei giorni di libertà controllata computati “apprezzando” la pena pecuniaria ineseguita in misura minore, di oltre sei volte, di quanto in precedenza potrebbe essere stata valutata quale sanzione sostitutiva). Dunque, come anticipato, illegittimo il terzo comma dell’art. 102, per violazione dell’art. 3 Cost. L’inusuale “datazione” dell’illegittimità si connette alla ratio della pronuncia: il parametro “modificato” non era illegittimo in sé, ma in quanto diverso da quello indicato all’art. 135 c.p.; e l’irragionevole diversificazione risale, come si è visto, alla data di entrata in vigore della l. n. 94/2009.
Vanno anzitutto segnalate due novità normative che hanno interessato la disciplina della responsabilità da reato delle persone giuridiche.
Una prima novità riguarda l’organismo di vigilanza di cui all’art. 6 d.lgs. 8.6.2001, n. 231. È noto che, ai sensi dell’art. 6, co. 1, lett. b), del citato d.lgs., qualora il reato sia commesso nel suo interesse o vantaggio, da soggetti in posizione apicale, l’ente non risponde se prova che il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di organizzazione e di gestione, idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, e di curare il loro aggiornamento, è stato affidato ad un proprio organismo dotato di autonomi poteri d’iniziativa e di controllo. Orbene, dal 1° gennaio 2012 è in vigore il nuovo co. 4-bis dell’art. 6 d.lgs. n. 231/2001, inserito dall’art. 14, co. 12 della l. 12.11.2011, n. 183, ai sensi del quale, nelle società di capitali, le funzioni del predetto organismo di vigilanza “possono” essere svolte dal collegio sindacale, dal consiglio di sorveglianza e dal comitato di controllo della gestione.
Una seconda novità riguarda il catalogo dei reati presupposto della responsabilità dell’ente, che si conferma in continua espansione. Il nuovo art. 25 duodecies d.lgs. n. 231/2001, inserito dall’art. 2, co. 1, d.lgs. 16.7.2012, n. 109, introduce la responsabilità degli enti in relazione al reato di cui all’art. 22, co. 12, d.lgs. 25.7.1998, n. 286 (t.u. immigrazione). Si tratta della occupazione alle proprie dipendenze di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato richiesto nei termini il rinnovo, ovvero il cui permesso sia stato revocato o annullato. La responsabilità dell’ente è peraltro espressamente prevista solo in relazione all’ipotesi aggravata di cui all’art. 22, co. 12-bis, d.lgs. n. 286/1998, cit. che ricorre, alternativamente, allorché i lavoratori occupati:
a) sono in numero superiore a tre;
b) sono minori in età non lavorativa;
c) sono sottoposti alle condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell’art. 603 bis c.p. (il riferimento è alla nuova figura delittuosa della Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, che è tra l’altro aggravata – al pari del predetto reato del t.u. immigrazione – allorché il fatto sia commesso esponendo i lavoratori a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro).
La riforma dei delitti contro la p.a., attuata con l. 6.11.2012, n. 190, ha inoltre ulteriormente allargato il catalogo dei reati presupposto ex d.lgs. n. 231/2001 inserendo i nuovi delitti di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.) e di corruzione tra privati (art. 2635 c.c.).
Sempre in tema di reati presupposto della responsabilità degli enti – in particolare, in materia di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione –, va infine fatto accenno a una pronuncia con la quale le Sezioni Unite della Cassazione, dopo la formale abrogazione, ad opera del d.lgs. 27.1.2010, n. 39, dell’art. 2624 c.c., espressamente richiamato dall’art. 25 ter, lett. g), d.lgs. n. 231/2001, hanno escluso la configurabilità della responsabilità da reato dell’ente in riferimento ai fatti criminosi di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione contemplati dal nuovo art. 27 dello stesso d.lgs. n. 39/2010, che non è stato inserito nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità da reato degli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. In effetti, il principio di legalità – valevole anche in relazione alla responsabilità delle persone giuridiche (art. 2 d.lgs. n. 231/2001) – impedisce di interpretare il riferimento espresso, contenuto nell’art. 25 ter d.lgs. n. 231/2001, all’abrogato art. 2624 c.c. come rinvio “mobile” ad altra disposizione normativa, indipendentemente da qualsiasi considerazione relativa al rapporto di continuità normativa tra le fattispecie legali in successione (Cass. pen., S.U., 23.6. 2011, n. 34476).
* Il contributo è dovuto alla riflessione congiunta degli Autori. I §§ 1, 2 e 5 sono stati redatti da Gian Luigi Gatta; i §§ 3 e 4 da Guglielmo Leo.