Vedi Reato e pene dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2018 - 2019
Reato e pene
Nel panorama delle recenti riforme, ispirate da forti intenti deflativi, le cause di estinzione del reato hanno assunto un ruolo di rilievo, tanto da richiedere, in questa stessa Opera, trattazioni dedicate. Si allude per un verso alla fattispecie dell’art. 162 ter c.p., incentrata sulle condotte riparatorie successive al reato (v. in questa area del volume, 2.2.2 Nuova disciplina delle condotte riparatorie), e per altro verso alla prescrizione (v. in questa area del volume, 2.2.1 La riforma della prescrizione del reato), la cui disciplina è stata profondamente innovata mediante la l. 23.6.2017, n. 103, che ha modificato gli artt. 158 ss. c.p. La materia della prescrizione, comunque, ha occupato la giurisprudenza con continuità, indipendentemente dalla novella. In primo luogo, la Corte costituzionale ha ribadito come, nonostante il tenore letterale del quinto comma dell’art. 157 c.p. (che era parso alludere alle pene paradetentive tipiche della giurisdizione penale onoraria), i reati di competenza del giudice di pace non si prescrivano in tre anni, ma secondo i termini ordinari fissati nel primo comma dello stesso art. 157 (C. cost., 20.10.2016, n. 226). Dal canto proprio, le sezioni unite della Cassazione hanno sciolto la questione se le circostanze cd. indipendenti, quando non comportino un aumento della pena superiore al terzo dei valori edittali ordinariamente previsti per il reato, debbano comunque considerarsi ad effetto speciale (co. 3 dell’art. 63 c.p.), e dunque influiscano sul computo del termine prescrizionale a norma dell’art. 157, secondo comma, c.p. La soluzione è stata negativa, secondo un orientamento già maggioritario nella giurisprudenza ma recentemente contrastato da decisioni di segno opposto. Le Sezioni Unite hanno ribadito che le aggravanti ad effetto speciale sono contraddistinte unicamente dalla quota anomala di accrescimento del limite edittale, superiore al terzo, e non ha rilievo se tale statuizione sia attuata mediante la previsione di valori autonomi di pena o piuttosto in termini proporzionali. Non tutte le circostanze indipendenti (cioè segnate da previsione sanzionatoria propria) sono dunque circostanze ad effetto speciale, e quindi non tutte rilevano per il computo del termine prescrizionale (Cass.pen., S.U., 27.4.2017, n. 28953). La giurisprudenza di legittimità si è occupata anche, al suo massimo livello, di ulteriori cause di estinzione del reato. Merita menzione, in primo luogo, una decisione concernente la remissione della querela, che ha introdotto in via di fatto una procedura “agevolata” per la deflazione dei procedimenti penali. Le Sezioni Unite hanno infatti stabilito che, qualora il giudice dibattimentale abbia espressamente avvertito il querelante che la mancata sua comparizione nel giudizio sarà intesa quale tacita remissione della querela, l’assenza effettiva dell’interessato nella successiva udienza può essere posta alla base d’una sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato ex art. 552, co. 2, c.p.p. (Cass. pen., S.U., 23.6.2016, n. 31668). Il dato è particolarmente significativo, perché in una precedente occasione le stesse Sezioni Unite avevano concluso per la soluzione opposta (Cass. pen., S.U., 30.10.2008, n. 40088). Va dato conto, infine, dei primi importanti arresti delle Corti superiori riguardo ad un’ulteriore causa di estinzione del reato, recentemente estesa (salve eccezioni) alla generalità dei reati, e cioè la sospensione del procedimento con messa alla prova (artt. 168 bis ss. c.p., come introdotti dalla l. 28.4.2014, n. 67). Merita ancora un cenno, anzitutto, la decisione delle sezioni unite della Cassazione, le quali hanno chiarito che i valori edittali di pena previsti per un reato, al fine di stabilire se siano compatibili con il limite dei quattro anni posto all’art. 168 bis c.p., vanno considerati al netto delle circostanze aggravanti, anche di quelle ad effetto speciale o per le quali la legge stabilisce una pena diversa da quella ordinaria del reato (Cass. pen., S.U., 31.3.2016, n. 36272).È poi intervenuto l’atteso vaglio della Consulta su diversi aspetti della nuova disciplina, con una decisione che interessa soprattutto il versante sostanziale della messa alla prova, e dunque rileva particolarmente in questa sede (C. cost., ord. 11.1.2017, n. 54). Secondo il giudice rimettente, la legge non stabilirebbe la durata massima della messa alla prova (intesa quale provvedimento punitivo), e sarebbe così compromessa (unitamente al diritto di difesa) la funzionalità rieducativa della misura. Nel contempo, essendo un identico provvedimento di messa alla prova applicabile per una congerie molto variegata di illeciti penali, si determinerebbe una violazione del principio di uguaglianza, per l’analogo trattamento imposto dalla legge quanto a fattispecie tra loro divergenti. La Corte ha facilmente risolto le questioni nel senso della manifesta infondatezza. L’art. 168 bis, unitamente alle altre norme sostanziali e processuali che regolano la vita del nuovo istituto, delinea un procedimento speciale nel cui ambito i contenuti della messa alla prova e la stessa durata della sospensione sono stabiliti (entro limiti dati) dal giudice del caso concreto, in base ai criteri indicati all’art. 133 c.p. Non è vero, d’altra parte, che la legge non regoli la durata del trattamento che può indurre l’estinzione del reato: alla fine della sospensione, infatti, il giudice deve valutare il risultato della prova, e la sospensione può avere una durata massima di due anni o di uno, a seconda della specie della pena astrattamente irrogabile (co. 5 dell’art. 464 ter c.p.p.). Di conseguenza, la pretesa inefficienza dell’istituto in chiave rieducativa è palesemente insussistente.
V’è un altro istituto per il quale sta maturando la posizione delle giurisdizioni superiori, ed è quello della non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p., come introdotto dal d.lgs.16.3.2015, n. 28).È ancora utile citare, in proposito, la decisione assunta dalla Corte di cassazione, a sezioni unite, sulla compatibilità della fattispecie riguardo ad ipotesi di reato che prevedano soglie di rilevanza del fatto tipico, per le quali, dunque, l’esclusione della sanzione penale riguardo a condotte scarsamente lesive parrebbe già disposta e (per ciò stesso) altrimenti regolata dal legislatore. Nella specie si discuteva del reato di cui all’art. 186, co. 2, del codice della strada, integrato quando il conducente del veicolo presenta un tasso alcolemico superiore a 0,8 grammi per litro, mentre per intossicazioni meno marcate sussiste la sola responsabilità amministrativa (e restano completamente irrilevanti assunzioni ancor meno cospicue). Ebbene, la Corte ha chiarito che la tenuità del fatto deve essere accertata mediante una «valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza». Da ciò consegue, fermo restando che la speciale causa di non punibilità attiene comunque a fatti tipici ed offensivi, che anche con riguardo alle violazioni formali (di semplice rifiuto od omissione, o di pericolo presunto) il giudice, considerando tutte le circostanze del caso concreto, può stabilire la non punibilità senza violare la volontà legislativa, ed anzi assecondandola in un nuovo e graduato percorso che muove dall’irrilevanza del fatto atipico e perviene all’effettiva suscettibilità di sanzione della condotta tipica. Quanto ai reati con soglia di rilevanza, in particolare, il nuovo istituto chiama il giudice ad una verifica di meritevolezza della pena per i casi nei quali la soglia stessa risulti superata, con esiti tanto più facilmente sfavorevoli al reo, com’è ovvio, quanto maggiore sarà lo scostamento dai valori minimi. Nell’occasione le Sezioni Unite hanno anche focalizzato la nozione di abitualità del comportamento che esclude l’esito di non punibilità, affermando che, salvi i casi in cui l’abitualità rappresenta il tratto caratterizzante d’un solo reato, occorre che l’agente, prima o dopo il fatto, abbia commesso almeno due reati della stessa indole (anche ed eventualmente non puniti ex art. 131 bis), accertati incidentalmente dal giudice che procede (Cass. pen., S.U., 25.2.2016, n. 13681). Più recenti le novità venute, sempre a proposito della non punibilità del fatto tenue, dalla Corte costituzionale. Per la verità una prima questione, mirata ad introdurre la possibilità per l’imputato di opporsi alla soluzione di non punibilità ex art. 131 bis c.p., sul modello di quanto disposto per il similare istituto concernente i reati di competenza del giudice di pace (art. 34, co. 3, d.lgs. 28.8.2000, n. 274), non ha potuto essere esaminata nel merito. Il rimettente, infatti, aveva omesso la descrizione dei fatti sottoposti al suo giudizio e non aveva considerato, anche solo per escluderla, l’eventualità che fosse applicabile, nel procedimento a quo, proprio e solo la disciplina dell’art. 34 del d.lgs. n. 274/2000 (C. cost., 24.2.2017, n. 46). Molto più significativo un secondo provvedimento della stessa Consulta, con il quale è stata dichiarata non fondata una questione mirata ad estendere la clausola di non punibilità all’ipotesi della ricettazione «di particolare tenuità» (art. 648, secondo comma, c.p.), sebbene il valore edittale della pena per la figura circostanziale (sei anni) superi quello fissato, in linea generale, nel censurato art. 131 bis c.p. La Corte ha osservato anzitutto che, se anche la previsione di specifiche attenuanti per i casi di particolare tenuità del danno o del pericolo non esclude l’applicazione della causa di non punibilità (quinto comma dell’art. 131 bis c.p.), è vero pure che detta previsione non impone al legislatore, sul piano logico, di consentire in ogni caso l’applicazione della stessa causa di non punibilità. Non v’è in effetti coincidenza, come già posto in luce dalle Sezioni Unite, tra i criteri di identificazione delle figure circostanziali attenuate e dell’ipotesi generale di fatto lieve non punibile. Per il resto, le doglianze del rimettente s’erano risolte in critiche all’individuazione della soglia di pena fissata per la selezione dei fatti non punibili, in ragione della quale la ricettazione “lieve” resta esclusa e sono potenzialmente sottratti alla sanzione, invece, fatti ben più gravi e socialmente riprovati. La Corte ha ritenuto l’argomento generico e pertinente all’uso della discrezionalità legislativa. Le scelte di politica criminale non appaiono più insindacabili, ma occorre la precisa e congrua individuazione di tertia comparationis perché possa essere invocato, in modo ammissibile, un intervento di manipolazione del giudice costituzionale. D’altra parte, la fissazione di soglie generali per l’applicazione di un istituto, nella specie costruite sull’indice più sintomatico della gravità dei fatti sanzionati (cioè l’entità della pena edittale), costituisce espressione di una discrezionalità legislativa ragionevolmente esercitata. Il problema, in effetti, risiede semmai nei valori di pena fissati per la ricettazione “lieve”, anomali anche per l’ampiezza della forbice che separa il massimo edittale da un minimo davvero esiguo (quindici giorni di reclusione), tale da porre in evidenza che la fattispecie può colpire condotte di significato molto modesto, accomunate ad altre più consistenti (per quanto “tenui”) nel medesimo regime preclusivo della nuova causa di non punibilità. La Corte non ha esitato a definire irragionevole la situazione descritta, ma l’ha considerata emendabile solo attraverso un intervento legislativo meditato ed altamente discrezionale (C. cost., 17.7.2017, n. 207).
V’è un altro istituto per il quale sta maturando la posizione delle giurisdizioni superiori, ed è quello della non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p., come introdotto dal d.lgs.16.3.2015, n. 28).È ancora utile citare, in proposito, la decisione assunta dalla Corte di cassazione, a sezioni unite, sulla compatibilità della fattispecie riguardo ad ipotesi di reato che prevedano soglie di rilevanza del fatto tipico, per le quali, dunque, l’esclusione della sanzione penale riguardo a condotte scarsamente lesive parrebbe già disposta e (per ciò stesso) altrimenti regolata dal legislatore. Nella specie si discuteva del reato di cui all’art. 186, co. 2, del codice della strada, integrato quando il conducente del veicolo presenta un tasso alcolemico superiore a 0,8 grammi per litro, mentre per intossicazioni meno marcate sussiste la sola responsabilità amministrativa (e restano completamente irrilevanti assunzioni ancor meno cospicue). Ebbene, la Corte ha chiarito che la tenuità del fatto deve essere accertata mediante una «valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza». Da ciò consegue, fermo restando che la speciale causa di non punibilità attiene comunque a fatti tipici ed offensivi, che anche con riguardo alle violazioni formali (di semplice rifiuto od omissione, o di pericolo presunto) il giudice, considerando tutte le circostanze del caso concreto, può stabilire la non punibilità senza violare la volontà legislativa, ed anzi assecondandola in un nuovo e graduato percorso che muove dall’irrilevanza del fatto atipico e perviene all’effettiva suscettibilità di sanzione della condotta tipica. Quanto ai reati con soglia di rilevanza, in particolare, il nuovo istituto chiama il giudice ad una verifica di meritevolezza della pena per i casi nei quali la soglia stessa risulti superata, con esiti tanto più facilmente sfavorevoli al reo, com’è ovvio, quanto maggiore sarà lo scostamento dai valori minimi. Nell’occasione le Sezioni Unite hanno anche focalizzato la nozione di abitualità del comportamento che esclude l’esito di non punibilità, affermando che, salvi i casi in cui l’abitualità rappresenta il tratto caratterizzante d’un solo reato, occorre che l’agente, prima o dopo il fatto, abbia commesso almeno due reati della stessa indole (anche ed eventualmente non puniti ex art. 131 bis), accertati incidentalmente dal giudice che procede (Cass. pen., S.U., 25.2.2016, n. 13681). Più recenti le novità venute, sempre a proposito della non punibilità del fatto tenue, dalla Corte costituzionale. Per la verità una prima questione, mirata ad introdurre la possibilità per l’imputato di opporsi alla soluzione di non punibilità ex art. 131 bis c.p., sul modello di quanto disposto per il similare istituto concernente i reati di competenza del giudice di pace (art. 34, co. 3, d.lgs. 28.8.2000, n. 274), non ha potuto essere esaminata nel merito. Il rimettente, infatti, aveva omesso la descrizione dei fatti sottoposti al suo giudizio e non aveva considerato, anche solo per escluderla, l’eventualità che fosse applicabile, nel procedimento a quo, proprio e solo la disciplina dell’art. 34 del d.lgs. n. 274/2000 (C. cost., 24.2.2017, n. 46). Molto più significativo un secondo provvedimento della stessa Consulta, con il quale è stata dichiarata non fondata una questione mirata ad estendere la clausola di non punibilità all’ipotesi della ricettazione «di particolare tenuità» (art. 648, secondo comma, c.p.), sebbene il valore edittale della pena per la figura circostanziale (sei anni) superi quello fissato, in linea generale, nel censurato art. 131 bis c.p. La Corte ha osservato anzitutto che, se anche la previsione di specifiche attenuanti per i casi di particolare tenuità del danno o del pericolo non esclude l’applicazione della causa di non punibilità (quinto comma dell’art. 131 bis c.p.), è vero pure che detta previsione non impone al legislatore, sul piano logico, di consentire in ogni caso l’applicazione della stessa causa di non punibilità. Non v’è in effetti coincidenza, come già posto in luce dalle Sezioni Unite, tra i criteri di identificazione delle figure circostanziali attenuate e dell’ipotesi generale di fatto lieve non punibile. Per il resto, le doglianze del rimettente s’erano risolte in critiche all’individuazione della soglia di pena fissata per la selezione dei fatti non punibili, in ragione della quale la ricettazione “lieve” resta esclusa e sono potenzialmente sottratti alla sanzione, invece, fatti ben più gravi e socialmente riprovati. La Corte ha ritenuto l’argomento generico e pertinente all’uso della discrezionalità legislativa. Le scelte di politica criminale non appaiono più insindacabili, ma occorre la precisa e congrua individuazione di tertia comparationis perché possa essere invocato, in modo ammissibile, un intervento di manipolazione del giudice costituzionale. D’altra parte, la fissazione di soglie generali per l’applicazione di un istituto, nella specie costruite sull’indice più sintomatico della gravità dei fatti sanzionati (cioè l’entità della pena edittale), costituisce espressione di una discrezionalità legislativa ragionevolmente esercitata. Il problema, in effetti, risiede semmai nei valori di pena fissati per la ricettazione “lieve”, anomali anche per l’ampiezza della forbice che separa il massimo edittale da un minimo davvero esiguo (quindici giorni di reclusione), tale da porre in evidenza che la fattispecie può colpire condotte di significato molto modesto, accomunate ad altre più consistenti (per quanto “tenui”) nel medesimo regime preclusivo della nuova causa di non punibilità. La Corte non ha esitato a definire irragionevole la situazione descritta, ma l’ha considerata emendabile solo attraverso un intervento legislativo meditato ed altamente discrezionale (C. cost., 17.7.2017, n. 207).
Sul terreno della disciplina comune delle circostanze un ruolo di primo piano, nell’evoluzione del diritto vivente, ha rivestito come al solito la recidiva. Le sezioni unite della Cassazione (Cass. pen., S.U., 23.6.2016, n. 31669) hanno ribadito che gli effetti indiretti della recidiva reiterata si producono anche quando il giudice, ritenuta la necessità della sua “applicazione”, paralizza poi l’effetto di incremento della pena, attraverso un giudizio di equivalenza con circostanze di segno opposto (nella specie si discuteva del minimo di aumento della pena per il reato continuato, ex art. 81, comma quarto, c.p.: cfr. infra, § 4). Quanto alla Consulta, si registrano due pronunce pertinenti al quarto comma dell’art. 69 c.p., cioè alla regola che preclude il giudizio di subvalenza della recidiva reiterata nella comparazione con circostanze concorrenti di segno attenuante. Si tratta del più contestato, forse, tra gli effetti indiretti della recidiva, perché può produrre gravi squilibri sanzionatori, specie quando il legislatore affida a circostanze indipendenti il compito di mitigare, nei casi lievi, il severo trattamento previsto per determinate condotte criminose: i casi restano lievi, ma s’impongono per la pena i valori edittali ordinari, il che implica la dominanza assoluta della recidiva nella determinazione complessiva del trattamento, a scapito dei profili oggettivi del fatto e di altri fattori rilevanti sul piano della colpevolezza e finanche dell’imputabilità. Non a caso, a partire dal 2012, la Consulta aveva già imposto il recupero della discrezionalità giudiziale per la comparazione tra la recidiva reiterata e diverse circostanze attenuanti: quella di cui all’art. 73, co. 5, d.P.R. 9.10.1990, n. 309, disposizione concernente i fatti di lieve entità in materia di produzione, detenzione e cessione di sostanze stupefacenti (C. cost., 15.11.2012, n. 251); quella di cui all’art. 648, secondo comma, c.p., concernente l’ipotesi di particolare tenuità del delitto di ricettazione (C. cost., 18.4.2014, n. 105); quella di cui all’art. 609 bis, terzo comma, c.p., relativa ai casi di violenza sessuale dalla “minore gravità” (C. cost., 18.4.2014, n. 106); infine, la circostanza di cui all’art. 73, co. 7, d.P.R. n. 309/1990, cioè la previsione per la quale tutte le pene previste nello stesso art. 73 sono sensibilmente diminuite nei confronti di chi assume atteggiamenti collaborativi (C. cost., 7.4.2016, n. 74). Il tema è stato riproposto, in tempi recenti, anzitutto per la circostanza di cui all’art. 89 c.p., e cioè relativamente alla diminuzione di pena per il soggetto in stato di imputabilità parziale per vizio di mente. La Corte tuttavia non ha potuto affrontarlo nel merito, perché il rimettente, nella specie, non ha documentato la rilevanza della questione, omettendo di indicare le ragioni che imporrebbero l’applicazione della recidiva nel caso sottoposto al suo giudizio (C. cost., 22.5.2017, n. 120). Si è concluso invece con un nuovo giudizio di illegittimità parziale del quarto comma dell’art. 69 c.p. l’esame della regola di comparazione tra recidiva reiterata e attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, della cd. legge fallimentare (r.d.16.3.1942, n. 267), per effetto della quale sono ridotte fino ad un terzo le pene previste per la bancarotta (semplice o fraudolenta) e per il ricorso abusivo al credito, quando le relative condotte abbiano «cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità» (C. cost.,17.7.2017, n. 205). Si può chiudere il tema delle circostanze, lasciando il terreno della recidiva, col citare una decisione delle sezioni unite della Cassazione a proposito dell’art. 61, n. 4, c.p., e dunque della condotta tenuta adoprando sevizie o agendo con crudeltà verso le persone (Cass. pen., S.U., 23.6.2016, n. 40516). La Corte ha chiarito che per “sevizie” devono intendersi modalità di attuazione del reato finalizzate a cagionare sofferenze ulteriori e gratuite, rispetto alla «normalità causale» del fatto, a seguito di una determinazione studiata e preordinata. Ad una scelta operativa non preordinata, per quanto capace di infliggere male aggiuntivo rispetto alle modalità tipiche della lesione, sarebbe invece riferita la nozione dell’agire con crudeltà, sintomatico della spietatezza della volontà illecita manifestata dall’agente. In questa seconda declinazione, l’applicazione dell’aggravante non è preclusa nei casi di dolo d’impeto.
A proposito dei criteri per identificare unità o pluralità di reati, riguardo a condotte che evocano più fattispecie, le sezioni unite della Cassazione hanno recentemente ribadito che, fuori dai casi espressi di sussidiarietà, il rapporto di specialità tra le norme è l’unico fattore idoneo ad escluderne la concomitante applicazione. La soluzione si è imposta da tempo in giurisprudenza, pur dopo molte oscillazioni ed incertezze (da ultimo, Cass. pen., S.U., 28.10 2010, n. 1963, dep. 21.1.2011; Cass. pen., S.U., 23.6.2016, n.18621, dep. 14.4.2017). È interessante, comunque, che sia stata ribadita anche ragionando in modo articolato sull’attuale tendenza ad un rafforzamento del principio di ne bis in idem sostanziale. Nella specie, applicando la regola di rilevanza esclusiva della specialità, la Cassazione ha stabilito che il reato di malversazione in danno dello Stato (art. 316 bis c.p.) concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c. p.). Si sono registrate novità anche a proposito del reato continuato e del concorso formale. Molto rilevante, anzitutto, il ribaltamento che le Sezioni Unite hanno compiuto della giurisprudenza più recente circa il riconoscimento in executivis della continuazione tra reati (Cass. pen., S.U., 18.5.2017, n. 28659). In particolare si è affermato che, nel procedere alla rideterminazione della pena, il giudice dell’esecuzione deve rispettare non solo il limite stabilito al co. 2 dell’art. 671 c.p.p. (cioè la somma delle pene inflitte con le sentenze da eseguire), ma anche quello posto dai primi due commi dell’art. 81 c.p. (cioè il triplo della pena stabilita per il reato più grave). V’è poi un’ulteriore decisione sul cumulo giuridico di pene, che riguarda però i livelli minimi dell’aumento previsto per il recidivo reiterato. È previsto, in particolare (comma quarto dell’art. 81 c.p.), che la pena in aumento sia pari almeno ad un terzo di quella comminata per il più grave tra i reati in concorso. Era sorto in giurisprudenza un contrasto a proposito della valenza della regola per i casi di recidiva ritenuta equivalente a circostanze di segno opposto. Il contrasto è stato superato dalle Sezioni Unite richiamando quanto già stabilito, in tempi non lontani (Cass. pen., S.U., 27.5.2010, n. 35738), circa il concetto di “applicazione” della recidiva: situazione integrata non solo quando il giudice, considerata la rilevanza dei precedenti, applica la circostanza e vi connette un aumento di pena, ma anche quando, in esito alla stessa valutazione di rilevanza, omette poi l’aumento per l’effetto di attenuanti equivalenti alla stessa recidiva. Dunque, il livello minimo dell’aumento di pena a titolo di cumulo giuridico va osservato, nei confronti del recidivo reiterato, anche quando la pena stessa non sia aumentata ai sensi dell’art. 99 c.p. per l’effetto neutralizzante esercitato da circostanze di segno opposto (Cass. pen., S.U., 23.6.2016, n. 31669).
Nel corso del 2016 è stata esercitata la delega in materia di depenalizzazione conferita al Governo, tra le altre, con l’art. 2, co. 2, della l. 28.4.2014, n. 67. Tale ultima norma stabiliva che fossero trasformati in illeciti amministrativi tutti i reati per i quali fosse prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, salvo che per alcune materie, partitamente elencate. Con l’art. 1, co. 3, del d.lgs. 15.1.2016, n. 8, il Governo ha inteso escludere ulteriori fattispecie dalla depenalizzazione, preservando in particolare la rilevanza penalistica delle figure criminose inserite nel codice penale, quand’anche punite con la sola pena pecuniaria (e salve, ancora una volta, talune eccezioni). La decisione ha deluso le aspettative di chi contava sulla depenalizzazione più radicale, producendo tra l’altro alcune questioni di legittimità costituzionale. Con sent. 26.5.2017, n. 127, la Consulta ha escluso che l’opzione del legislatore delegato abbia comportato una violazione dell’art. 76 Cost., dichiarando inoltre l’inammissibilità di questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 77 Cost. (per ragioni essenzialmente attinenti a carenze di argomentazione dei giudici rimettenti). La Corte ha convenuto che la restrizione concernente le previsioni codicistiche non è stata esplicitamente richiesta dal Parlamento, notando comunque che la legge di delegazione pare sottendere, in altri passaggi, proprio l’esclusione delle figure previste dal codice penale (non avrebbero senso, altrimenti, le indicazioni espresse per la derubricazione di reati compresi nel codice e puniti con la sola pena pecuniaria). In una situazione di obiettiva incertezza, il Governo avrebbe esercitato quel margine di discrezionalità che una delega non può mai sopprimere, individuando nel tessuto della legge una volontà di contenimento dell’effetto depenalizzante, che emerge anche da qualche passaggio dei lavori parlamentari e vale, in ogni caso, ad escludere che si producano evidenti irrazionalità di sistema (come ad esempio l’eliminazione dell’importante figura delittuosa contestata nel giudizio a quo – l’art. 372 c.p. – in un contesto che registrerebbe invece la conservazione di figure contravvenzionali più marginali e sostanzialmente meno gravi). Legittimamente, dunque, conserva la propria rilevanza penalistica la condotta di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (e con essa, tutte le ipotesi di reato contenute nel codice penale punite solo con pene pecuniarie, salvi i casi di depenalizzazione espressa, come per le previsioni degli artt. 659, secondo comma, e 726 c.p.).