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Reato e pene
La Corte di cassazione è tornata a precisare il ruolo delle lineeguida nell’accertamento della colpa medica (Cass., 2.3.2011, n. 8254). A venire in rilievo è l’ipotesi in cui il medico si sia comportato in modo conforme alle linee-guida (relative, nel caso di specie, alle dimissioni dall’ospedale del paziente ricoverato per infarto acuto del miocardio). La Suprema Corte ha ribadito il principio (cfr. Cass., 9.5.2007, n. 26442) secondo cui il rispetto delle linee-guida non esclude di per sé la responsabilità colposa del medico per l’evento lesivo occorso al paziente (nel caso di specie, la morte immediatamente successiva alle dimissioni dall’ospedale, dopo nove giorni di ricovero). Può infatti accadere che un comportamento conforme alle lineeguida sia, nondimeno, contrario alle regole dell’arte, che in un dato caso imponevano una diversa condotta. Il medico deve discostarsi dalle linee-guida quando il particolare quadro clinico lo imponga: egli ha infatti il dovere di curare il paziente utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura o da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive non pertinenti rispetto al predetto compito. Tanto più quando, come nel caso di specie, le linee-guida, in tema di dimissioni dal ricovero ospedaliero, non sembrano essere altro che «uno strumento per garantire l’economicità della gestione della struttura ospedaliera». Nell’annullare una sentenza di assoluzione, la Suprema Corte ha dunque rimesso al giudice del rinvio una nuova valutazione della condotta del medico, che tenga in conto non già la mera conformità alle linee-guida, bensì le condizioni del paziente di cui si tratta (in relazione alla gravità dell’infarto che lo ha colpito, alle patologie preesistenti e a tutte le criticità che rendevano precario lo stato di salute), al fine di verificare se la decisione di dimetterlo dall’ospedale a nove giorni dal ricovero, pur conforme alle linee-guida, sia stata corretta ovvero affrettata.
Meritano di essere segnalate due sentenze della Cassazione, depositate nel 2011, relative, rispettivamente, alle scriminanti dell’esercizio di un diritto e dell’adempimento di un dovere, di cui all’art. 51 c.p. Con una prima pronuncia, in tema di diffamazione a mezzo stampa, la Suprema Corte è tornata a precisare i limiti del diritto di cronaca giudiziaria che, per avere efficacia scriminante, presuppone il rispetto non solo dei tradizionali limiti propri del diritto di cronaca (verità della notizia; interesse pubblico alla conoscenza del fatto; correttezza delle modalità espressive delle notizie, ecc.), ma anche di un ulteriore limite: i fatti e i giudizi critici devono essere correlati all’effettivo svolgimento del procedimento penale; il giornalista deve cioè limitarsi a «riferire atti di indagini e atti censori provenienti dalla pubblica autorità». Al cronista non è pertanto consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni «tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura, indipendentemente dai risultati di tale attività». È dunque «in stridente contrasto con il diritto/dovere di narrare fatti già accaduti, senza indulgere a narrazioni e valutazioni «a futura memoria», l’opera del giornalista che confonda cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire, in quanto, in tal modo, egli, in maniera autonoma, prospetta e anticipa l’evoluzione e l’esito di indagini in chiave colpevolista, a fronte di indagini ufficiali né iniziate né concluse, senza essere in grado di dimostrare l’affidabilità di queste indagini private e la corrispondenza a verità storica del loro esito, realizzando la funzione investigativa e valutativa rimessa all’esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria a fronte di indagini in corso preordinate all’accertamento della verità» (Cass., 1.2.2011, n. 3674). Con una seconda pronuncia la Suprema Corte ha affrontato il problema della configurabilità, in relazione ai reati colposi, della scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo della pubblica autorità. La soluzione cui è pervenuta la Cassazione – in un procedimento che vedeva imputati due generali italiani per il reato militare di distruzione colposa di opere militari, contestato nella forma omissiva impropria (la vicenda processuale è relativa alla tristemente nota strage di Nassirya) – è che la scriminante di cui si tratta è configurabile nel caso in cui la condotta colposa dell’agente derivi dall’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline imposta da direttive o disposizioni superiori – cioè in ipotesi di colpa specifica –, mentre la stessa non può essere riconosciuta nelle ipotesi di delitto colposo, quando la condotta riferibile all’agente che ricopre una posizione di garanzia sia caratterizzata da un atteggiamento di negligenza o imprudenza – cioè in ipotesi di colpa generica (Cass., 20.1.2011, n. 20123). Per la Suprema Corte non si può essere negligenti, imprudenti o incapaci per comando o direttiva di un superiore: l’esecuzione di un comando, in particolare, implica sempre una condotta cosciente e volontaria, indirizzata consapevolmente secondo le direttive ricevute e, dunque, intenzionale.
Due le novità: a) l’introduzione di una nuova circostanza aggravante comune, nel nuovo art. 61, n. 11 quater, c.p.; b) la parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disciplina delle attenuanti generiche, riformata dalla legge «ex Cirielli» nel 2005, nella parte in cui impediva al giudice di applicare quelle attenuanti in taluni casi di recidiva reiterata sulla base del buon compotamento tenuto dal reo dopo la commissione del fatto. La nuova aggravante comune di cui all’art. 61, n. 11 quater, c.p. è stata inserita dall’art. 3 l. 26.11.2010, n. 199 (cd. legge svuota-carceri) e riguarda «l’avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso a una misura alternativa». La ragione contingente che ne ha comportato la configurazione è l’introduzione, da parte della medesima l. n. 199/2010, di una nuova misura alternativa alla detenzione in carcere – la «esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a dodici mesi» –, che presenta rapporti molto stretti con la detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter ord. penit. Riferendosi a una condizione personale del colpevole – quella, appunto, di persona ammessa a una misura alternativa allorché commette un delitto non colposo –, l’aggravante ha natura soggettiva ai sensi dell’art. 70 c.p.; non rientrando tra quelle disciplinate dall’art. 118 c.p. può comunicarsi ai concorrenti, alle condizioni fissate in via generale dall’art. 59, co. 2, c.p. Il suo fondamento risiede nella maggior colpevolezza per il fatto commesso tradendo l’atto di fiducia dell’ordinamento, rappresentato dall’ammissione ad una misura alternativa alla detenzione al carcere, per l’esecuzione di una pena detentiva riportata in occasione della condanna per un precedente reato. Quanto all’ambito di applicazione, per espressa previsione legislativa l’aggravante è riferibile ai soli delitti non colposi – cioè ai delitti dolosi e preterintenzionali: non può pertanto trovare applicazione in relazione alle contravvenzioni e ai delitti colposi. Può inoltre trovare applicazione in relazione a qualsiasi misura alternativa alla detenzione in carcere, compresa la detenzione domiciliare introdotta dalla medesima legge. Da notare che l’aggravante non è configurabile – in base alla regola generale stabilita dall’incipit dell’art. 61 c.p. – in relazione ai reati che contemplano tra i loro elementi costitutivi, ivi compresi i presupposti della condotta, la commissione del fatto nel periodo di tempo in cui l’agente è ammesso a una misura alternativa alla detenzione in carcere. Non sarà pertanto aggravato ex art. 61, n. 11 quater , il delitto di evasione (artt. 385 c.p. e 47 ter, co. 8, ord. penit.) commesso dal condannato in stato di detenzione domiciliare allontanandosi dal proprio domicilio, ovvero dal condannato in regime di semilibertà (cfr. art. 51, co. 2, ord. penit.) che si assenti senza giustificato motivo per più di dodici ore dall’istituto penitenziario. L’ammissione a una misura alternativa alla detenzione, nei casi anzidetti, è infatti un presupposto della condotta di evasione. Potrà invece essere aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 11 quater, c.p. il delitto non colposo, diverso da quello di evasione e con questo concorrente – ad es., la rapina –, commesso da chi si allontana dal luogo in cui è in stato di detenzione domiciliare, ovvero da chi, essendo in stato di semilibertà, non rientra per tempo nell’istituto. Peraltro, non è forse inutile precisare che l’aggravante in esame non postula necessariamente la commissione del delitto di evasione, ben potendo chi è sottoposto a una misura alternativa commettere un delitto non colposo – quale che sia – senza al contempo realizzare un fatto di evasione: si pensi, per tutti, al caso di chi, trovandosi in stato di detenzione domiciliare, maltratti o uccida nel domicilio una persona convivente. Da segnalare, infine, che ogni qualvolta un soggetto abbia commesso un delitto non colposo durante il periodo di ammissione a una misura alternativa alla detenzione, conseguente a una condanna definitiva per un altro delitto non colposo, si pone il problema del concorso, reale o apparente, tra l’aggravante di cui al n. 11 quater e la recidiva aggravata ex art. 99, co. 2, n. 3, che riguarda, tra l’altro, l’ipotesi in cui il recidivo commetta un delitto non colposo «durante l’esecuzione della pena». Da un lato, infatti, la recidiva, al pari dell’aggravante in esame, riguarda (dopo la riforma del 2005) i soli delitti non colposi; dall’altro lato, le misure alternative alla detenzione rappresentano indubbiamente modalità di «esecuzione » della pena ai sensi dell’art. 99, co. 2, n. 3 c.p. Tale problema sembra doversi risolvere, in base alla regola stabilita per il concorso apparente di cir costanze dall’art. 68, co. 1, c.p., nel senso dell’applicazione, nell’ipotesi considerata, della sola aggravante della recidiva, che comporta un aumento di pena maggiore (fino alla metà) e «comprende in sé» l’altra, della quale assorbe l’intero disvalore. Se tale soluzione è corretta, l’ambito applicativo della nuova aggravante comune, parzialmente sovrapponibile a quello della recidiva aggravata ex art. 99, co. 2, n. 3 c.p., risulta significativamente eroso. La nuova aggravante potrà infatti trovare applicazione, in ultima analisi, nelle due seguenti ipotesi: a) quando la misura alternativa alla detenzione, durante l’esecuzione della quale viene commesso un delitto non colposo, consegue alla condanna per un precedente delitto colposo o per una contravvenzione: in questo caso la recidiva, che presuppone la commissione di un delitto non colposo dopo la commissione di un altro delitto non colposo, è senz’altro fuori gioco; b) quando il giudice ritenga di non applicare la contestata aggravante della recidiva. In questo caso, infatti, non si porrà il problema del concorso tra le due aggravanti in esame, e dovrà trovare applicazione quella prevista dall’art. 61 n. 11 quater, c.p. A un esito opposto – applicazione obbligatoria della recidiva ed esclusione, ai sensi dell’art. 68, co. 1, c.p., dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 11 quater , c.p. – si dovrà invece pervenire ogni qualvolta il (secondo) delitto non colposo commesso dal recidivo è uno di quelli indicati nell’art. 407, co. 2, lett. a) c.p.p. (ad es., l’omicidio o l’associazione di tipo mafioso): in tal caso, infatti, l’applicazione dell’aggravante della recidiva è obbligatoria ai sensi dell’art. 99, co. 5, c.p. Quanto alle circostanze attenuanti generiche, la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 62 bis, co. 2 c.p., nella parte in cui stabiliva che, ai fini dell’applicazione di quelle attenuanti, il giudice non potesse tenere conto della condotta del reo susseguente al reato nei confronti del recidivo reiterato autore di uno dei gravi delitti elencati nell’art. 407, co. 2, lett. a) c.p.p. (per i quali la recidiva è obbligatoria ex art. 99, co. 5, c.p.), punito con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni (C. cost., 10.6.2011, n. 183). La questione era stata sollevata, per contrasto con gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost., nell’ambito di un procedimento per omicidio, nel quale il giudice, per effetto della disposizione impugnata, si è vista preclusa la possibilità di concedere le attenuanti generiche all’imputato, recidivo reiterato, nonostante la collaborazione prestata nel corso delle indagini: una condotta susseguente al reato che, in assenza della deroga stabilita dalla disposizione medesima, non sarebbe stata valutabile al fine del riconoscimento di quelle attenuanti (cfr. Cass., 14.5.2009, n. 33690). La Corte ha ravvisato nell’art. 62 bis, co. 2, c.p. «un duplice automatismo sanzionatorio, basato su presunzioni»: il primo – che la Corte non ha voluto, né poteva nel caso di specie sindacare – deriva dal quinto comma dell’art. 99 c.p., che nel caso di commissione da parte di un recidivo di uno dei reati previsti dall’art. 407, co. 2, lett. a) c.p.p. rende obbligatoria l’applicazione della recidiva; il secondo concerne la necessaria prevalenza della recidiva rispetto alla condotta dell’imputato susseguente al reato. Per la Corte si tratta di una presunzione irragionevole, perché non rispondente a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. Di qui la contrarietà all’art. 3 Cost. L’irragionevolezza di questa – come di tutte le altre presunzioni assolute che incidono sui diritti fondamentali della persona – si coglie allorché risulta «agevole» formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta alla base della presunzione stessa (cfr. anche C. cost., 16.4.2010, n. 139; C. cost., 21.7.2010, n. 265; C.cost., 12.5.2011, n. 164; C. cost., 22.7.2011, n. 231): e «non può disconoscersi» che sia «agevole» ipotizzare il caso del condannato, recidivo reiterato e autore di uno dei delitti richiamati dall’art. 62 bis, co. 2, c.p., che dimostri una nulla o non particolarmente significativa capacità a delinquere. Da un lato, osserva infatti la Corte, «la recidiva può basarsi anche su fatti remoti e privi di rilevante gravità» e, dall’altro, «la decisione può intervenire anche a distanza di anni dalla commissione del fatto per cui si procede e successivamente l’imputato potrebbe aver tenuto comportamenti sicuramente indicativi di una risocializzazione in corso, o interamente realizzata, e potrebbe anche essere divenuto una persona completamente diversa da quella che a suo tempo aveva commesso il reato». La disposizione impugnata è d’altra parte, secondo la Corte, doppiamente illegittima: inasprire il trattamento sanzionatorio dei recidivi reiterati, autori di determinati reati, senza la possibilità di tener conto, al fine dell’attenuazione della pena, del loro comportamento successivo alla commissione del reato, «anche quando è particolarmente meritevole ed espressivo di un processo di rieducazione intrapreso, o addirittura già concluso », contrasta infatti con l’art. 27, co. 3, Cost. Il principio di rieducazione rappresenta infatti una fondamentale finalità della pena non solo nella fase esecutiva e dell’astratta previsione normativa, ma anche in quella della commisurazione della pena (cfr. C. cost., 3.7.1990, n. 313). È una finalità che certo coesiste con le altre pure assegnate alla pena dalla Costituzione – in particolare con quelle di prevenzione generale e di difesa sociale –, ma che il legislatore non può eludere: «il privilegio di obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale non può spingersi fino al punto da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione».
Le Sezioni unite della Corte di cassazione sono intervenute su una questione, lungamente controversa, a proposito della remissione della querela e della relativa «accettazione» (Cass., S.U., 25.5.2011, n. 27610). In realtà, nonostante la sua (impropria) rubrica (Accettazione della remissione), l’art. 155 c.p. non richiede, affinché la remissione produca il suo tipico effetto estintivo del reato, che il querelato esprima una propria adesione. È necessaria piuttosto una «ricusa», eventualmente tacita, perché non si determini l’estinzione del reato. Tuttavia, proprio in relazione all’eventualità di una ricusa implicita, un consistente indirizzo giurisprudenziale aveva finito con l’imporre nei fatti un negozio adesivo del querelato, esigendo la prova che il silenzio di questi si innestasse sulla pregressa conoscenza della remissione, così da risolversi, appunto, in una accettazione tacita. In pratica, nei giudizi contumaciali, e nell’assenza di elementi che documentassero la consapevolezza dell’imputato in merito alla remissione, quest’ultima si considerava improduttiva di effetti. Sull’opposto versante, si negava la necessità dell’accettazione, affidando al giudice il solo compito di verificare l’assenza di un rifiuto anche implicito dell’effetto estintivo. In questa prospettiva, nei giudizi contumaciali segnati dal silenzio del querelato, l’estinzione del reato veniva dichiarata pur nell’assenza di prove della sua consapevolezza circa l’intervenuta rimessione. Con la decisione in esame, le Sezioni Unite hanno accreditato il secondo indirizzo, ma con effetti pratici piuttosto peculiari. Per brevità si può trascrivere anzitutto la massima ufficiale tratta dal provvedimento: «L’omessa comparizione in udienza del querelato, posto a conoscenza della remissione della querela o posto in grado di conoscerla, integra, ex art. 155, co. 1, c.p., la mancanza di ricusa idonea a legittimare la pronuncia di estinzione del reato». In effetti la Corte ha posto in luce come la legge non richieda un negozio di accettazione (neppure implicita) da parte del querelato. E la conclusione dovrebbe legittimare l’effetto estintivo a prescindere da ogni indagine sulla consapevolezza sottesa alla scelta di silenzio. Nel contempo, nel caso dell’imputato che omette volontariamente di intervenire nel procedimento a suo carico, non è certo possibile individuare per implicito quell’interesse alla prosecuzione del giudizio che la legge tutela accordando la possibilità di ricusa. Le implicazioni del ragionamento sono state però neutralizzate, all’atto pratico, dall’assunto che non sarebbe possibile la condanna del querelato al pagamento delle spese processuali (art. 340, co. 4, c.p.p.) se non in presenza della prova che questi abbia avuto conoscenza della remissione, o almeno che sia stato messo in condizioni di conoscerla. Solo a queste condizioni, dunque, l’atto di rinuncia del querelante produrrebbe il suo effetto estintivo. Così impostata la questione, diviene ovviamente cruciale il riferimento alla procurata «possibilità», per l’imputato, di prendere cognizione della remissione. Il concetto è ripetuto più volte nella sentenza, senza ulteriori specificazioni, che pure sarebbero sembrate assai opportune. In ogni caso, la Corte non ha inteso certo riferirsi alla regolare citazione per il giudizio nel cui ambito la persona offesa formalizza il proprio atto remissivo. In una situazione siffatta, nel caso di specie, il pubblico ministero ricorrente aveva contestato la sentenza dichiarativa della sopravvenuta estinzione del reato, e la tesi è stata espressamente avallata dalle Sezioni Unite (a poco rilevando che l’impugnazione sia stata poi dichiarata inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse). Insomma, nella più ricorrente delle situazioni poste ad oggetto del contrasto giurisprudenziale (silenzio dell’imputato, giudizio contumaciale e remissione di querela), ha finito col prevalere nei fatti l’indirizzo che nega la possibilità per il giudice di rilevare la estinzione del reato.
Nel corso del 2011 sono intervenute molte significative novità, sul piano normativo come su quello giurisprudenziale, in materia di pene e misure di sicurezza. A proposito delle pene detentive, presenta sicuro interesse una recente decisione della Suprema corte a proposito dell’isolamento notturno, che dovrebbe caratterizzare l’esecuzione dell’ergastolo (art. 22 c.p.), la reclusione (art. 23 c.p.) e l’arresto (art. 25). A differenza dell’isolamento diurno (art. 72 c.p.), che rappresenta una forma di sanzionamento aggiuntivo per l’ergastolano, l’isolamento notturno dovrebbe rappresentare solo una modalità esecutiva delle pene detentive, ma non vi sono dubbi circa la finalità afflittiva della sua previsione. Il paradosso vuole che, nella degradata situazione del sistema carcerario italiano, la disponibilità di un ambiente riservato per la notte rappresenti un privilegio per i detenuti, che con relativa frequenza, dunque, chiedono l’applicazione delle norme relative. In diverse occasioni, la Cassazione ha giudicato corretta la reiezione delle istanze indicate, che, alla luce della pretesa afflittività della misura, sarebbero carenti di interesse (tra le altre, Cass., 1.12.2009, n. 50005). Ma da ultimo si è affermato, più radicalmente, che le disposizioni sull’isolamento notturno del detenuto sarebbero abrogate (Cass., 25.2.2011, n. 22072). L’effetto discenderebbe dall’art. 89 della l. 26.7.1975, n. 354, in forza del quale deve considerarsi abrogata, appunto, ogni norma incompatibile con la legge di ordinamento penitenziario. Le disposizioni sull’isolamento notturno sarebbero incompatibili con l’art. 6, co. 2, della citata l. n. 354, secondo cui i detenuti devono pernottare in «camere dotate di uno o più posti», senza tra l’altro distinguere a seconda della tipologia di pena. Restando in tema di pene principali, nel 2011 si è acquisita consapevolezza di un tema della massima rilevanza pratica, grazie anche ad una sentenza della Cassazione che sembra aver finalmente impostato la difficile materia. Si tratta dei limiti entro i quali il principale criterio di temperamento posto dall’art. 78 c.p. per il caso di pene concorrenti, e cioè il divieto di applicare una sanzione superiore al quintuplo di quella irrogata per il fatto più grave, deve operare nel caso di cumulo effettuato in executivis. Il problema concreto si percepisce con immediatezza. Per coloro che delinquono con frequenza, il passaggio in giudicato di nuove condanne durante l’esecuzione di sentenze precedenti comporta l’adozione di sempre nuovi provvedimenti esecutivi. Se il limite del quintuplo si applicasse riguardo a tutte le pene poste in esecuzione a partire dal primo di tali provvedimenti, vi sarebbero vantaggi potenzialmente enormi per l’interessato, perché le nuove sanzioni potrebbero essere applicate solo fino alla soglia indicata, sottratto l’intero valore delle pene già eseguite, e dunque con una «capienza» residua sempre più ridotta. L’art. 80 c.p. stabilisce, in effetti, che le disposizioni di cui agli articoli precedenti si applicano anche nel caso di concorso tra pene inflitte con sentenze o con decreti diversi. Al fine evidente di evitare la progressiva vanificazione delle sentenze di condanna deliberate nei confronti di soggetti plurirecidivi, la giurisprudenza ha ritenuto che vadano escluse dal computo, come pene rilevanti per il computo del multiplo, quelle già interamente eseguite al momento del nuovo provvedimento di cumulo. Quindi, la sanzione (la più grave) da utilizzare per stabilire la soglia del quintuplo deve essere individuata tra quelle ancora da eseguire. Inoltre si è affermato che il residuo della pena da scontare in forza del precedente provvedimento di cumulo non deve essere apprezzato al fine di verificare se, con il nuovo provvedimento, la pena eseguibile superi la soglia massima determinata secondo il criterio indicato. In sostanza, non è possibile includere tutte le pene in un cumulo unitario, soggetto al criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p. e prodromico ad una globale detrazione del presofferto per la determinazione della pena ancora esigibile. Occorre invece unificare il residuo del cumulo precedente con la pena inflitta per il nuovo reato, dalla cui data di commissione (o dalla data del successivo arresto, se il reato non è stato commesso in corso di detenzione) ha inizio l’espiazione della pena così unificata. In ogni caso, il predetto art. 78 c.p. esplica la sua efficacia nell’ambito e nei limiti di ciascuna delle singole operazioni di cumulo. Per altro verso, la pena esigibile secondo il moltiplicatore del quintuplo va calcolata prima di aggiungere, per determinare la durata effettiva della sanzione a partire dal nuovo provvedimento, il residuo delle sanzioni contemplate nel cumulo precedente. In altre parole, per effetto di questa sommatoria, la pena esigibile dopo le nuove condanne può anche essere superiore al quintuplo della più grave tra le nuove sanzioni poste in esecuzione (Cass., 29.3.2011, n. 15806). Passando al tema delle pene accessorie, va segnalata la nuova e radicale riforma della normativa in materia di pubblicazione della sentenza di condanna (art. 36 c.p.). In origine era disposto che la conoscenza dei provvedimenti indicati dalla legge fosse assicurata, oltre che mediante le affissioni, attraverso la pubblicazione su uno o più giornali indicati dal giudice. In tempi recenti, era stata aggiunta la pubblicazione presso il sito internet del Ministero della giustizia (art. 67, co. 1, l. 18.6.2009, n. 69). Nel 2011, in una logica di riduzione della spesa pubblica (e sebbene la divulgazione debba avvenire a spese del condannato, fermo restando il problema del recupero), il legislatore ha deciso di sopprimere ogni forma di pubblicazione sulla stampa. Stabilisce infatti il terzo comma dell’art. 36 c.p. – come novellato ex art. 37, co. 18, n. 1, della lett. a), del d.l. 6.7.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla l. 15.7.2011, n. 111 – che la sentenza venga pubblicata sul solo sito istituzionale del Ministero, per un periodo non superiore a trenta giorni (e pari a quindici giorni, in caso di mancata specificazione del giudice al riguardo). La nuova disciplina si riferisce tanto alle sentenze di condanna alla pena dell’ergastolo, la cui pubblicazione è prescritta dal primo comma dello stesso art. 36 c.p., tanto ai provvedimenti per i quali la pubblicazione è richiesta da norme particolari, come ad esempio in tema di delitti di pericolo commessi mediante frode (art. 448 c.p.). Venendo infine al tema delle misure di sicurezza, va segnalata una rilevante decisione delle Sezioni Unite della Corte suprema, che ha ribaltato l’orientamento in precedenza accolto dalla giurisprudenza di legittimità. La questione concerne il trattamento di persone sottoposte a libertà vigilata. Si tratta di stabilire se l’art. 232 c.p. – che consente la sostituzione della misura non detentiva con il ricovero in una casa di cura e custodia per l’infermo che risulti di nuovo pericoloso – possa legittimare il giudice a disporre il trattamento custodiale anche nel caso di patologia mentale sopravvenuta. Va ben chiarito, a tale proposito, che il quesito non riguarda soggetti che siano stati posti in libertà vigilata per la riscontrata cessazione della infermità posta alla base di una precedente misura detentiva (art. 212, co. 3, c.p.), ma soggetti pervenuti al regime di vigilanza a prescindere da una patologia (in genere, perché dichiarati delinquenti abituali), e poi risultati affetti da una infermità sopravvenuta che ne incrementa la pericolosità. La giurisprudenza aveva in passato accolto la tesi favorevole alla sostituzione (cfr. soprattutto Cass., 3.10.2007, n. 39498). In una recente occasione, però, la questione è stata rimessa al massimo Collegio, sul presupposto che, invece, la legge non consentirebbe l’aggravamento prospettato. Nell’ordinanza di rimessione (Cass., 23.11.2010, n. 6899) si è osservato che, nell’attuale sistema, l’applicazione di misure di sicurezza custodiali pertinenti ad infermità mentali è subordinata all’accertata commissione di un reato, ed alla verifica della patologia quale fattore determinante, in concreto, della condizione di pericolosità. Misure fondate sui rischi indotti dalla malattia di mente, fuori dai casi indicati, dipendono dall’autorità civile, e naturalmente prescindono dalla commissione di un reato. Non a caso, d’altra parte, l’art. 232 c.p. allude alla persona inferma che «si rivela di nuovo pericolosa», chiaramente evocando la sola ipotesi che si debba tornare al trattamento custodiale in origine stabilito dal giudice, per la constatata recidivanza di una patologia preesistente. Come si anticipava, le Sezioni Unite hanno poi avallato la tesi sostenuta nell’ordinanza di rimessione, negando la legittimità della sostituzione in un caso di libertà vigilata applicata dopo la dichiarazione di delinquenza abituale (Cass., S.U., 28.4.2011, n. 34091).
La Corte di cassazione ha affrontato per la prima volta la seguente questione: se al direttore di un periodico telematico sia applicabile o meno l’art. 57 c.p. che, con specifico riferimento ai «reati commessi col mezzo della stampa periodica», sancisce un’autonoma responsabilità – «a titolo di colpa» – del direttore che «omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati» (Cass., 16.7.2010, n. 35511). La Suprema Corte ha risolto la questione negando l’applicabilità dell’art. 57 c.p. per una serie di ragioni. Tra queste assume un rilievo assorbente, nel contesto dell’articolata motivazione della sentenza, oltre all’interpretazione storica della disposizione, dettata dal codice del 1930, il dato testuale: l’art. 57 c.p. si riferisce infatti alla «carta stampata», e, perché possa parlarsi di stampa in senso giuridico (cfr. art. 1 l. n. 47/1948), è tra l’altro necessario che vi sia una riproduzione tipografica, assente nel caso delle comunicazioni telematiche. Il divieto di analogia in materia penale impedisce, d’altra parte, che la lacuna normativa possa essere colmata dal giudice.
Note * Il contributo è dovuto alla riflessione congiunta degli autori. I §§ 1, 2, 3, 6 sono stati redatti da Gian Luigi Gatta; i §§ 4 e 5 da Guglielmo Leo.