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Reato e pene
Si è posta nel corso del 2013 una interessante questione, che coniuga il tema della successione di leggi penali nel tempo a quello della abrogazione parziale di una fattispecie incriminatrice mediante riduzione dei soli profili soggettivi del fatto. Il caso riguarda una figura criminosa in materia di immigrazione, inizialmente delineata come contravvenzione, e riferita alla condotta di chiunque occupasse alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi di un valido permesso di soggiorno (art. 22, co. 12, d.lgs. 25.7.1998, n. 286). Per effetto di modifiche introdotte nel 2008, l’identica fattispecie è stata trasformata in un delitto.
Ora, per il principio espresso all’art. 42, co. 2, c.p., nell’assenza di una esplicita previsione di responsabilità a titolo di colpa, l’attuale incriminazione deve intendersi riferita solo a condotte dolose. In precedenza invece, per effetto del principio altrettanto noto di cui al co. 4 del citato art. 42, erano rilevanti anche condotte colpose. Si è posto dunque il problema della disciplina di fatti antecedenti alla novella, ove ad esempio il datore di lavoro avesse ignorato per negligenza la condizione di soggiorno irregolare del proprio dipendente.
Alcuni giudici di merito hanno letto il fenomeno in termini di mera successione di leggi penali regolatrici del medesimo fatto, irrogando le pene previste per il reato contravvenzionale in base alla regola della necessaria applicazione della legge più favorevole tra quelle succedutesi nel tempo (art. 2, co. 4, c.p.). La Cassazione invece, correttamente, ha individuato nei casi in esame un caso di parziale abolitio criminis, con l’ovvia conseguenza della irrilevanza penalistica sopravvenuta delle condotte colpose (Cass. pen., 19.4.2013, n. 21362).
In primo luogo va rilevato come, di recente, il catalogo delle circostanze aggravanti «comuni» si sia arricchito di una nuova previsione, grazie all’art. 1 del d.l. 14.8.2013, n. 93 ed alle modifiche recate in sede di conversione (l. 15.10.2013, n. 119). Con le norme indicate è stato introdotto nell’art. 61 c.p. un nuovo n. 11-quinquies, che collega l’usuale aumento di pena al fatto dell’agente il quale, nel commettere un qualunque delitto non colposo contro la vita e l’incolumità individuale o contro la libertà personale, oppure il delitto di cui all’art. 572 c.p., abbia operato in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza. La previsione, frutto delle modifiche apportate in sede di conversione, estende ad un rilevante numero di fattispecie la disciplina in materia di «violenza assistita» che il d.l. n. 93/2013 aveva inizialmente riservato al reato di maltrattamenti in famiglia.
Altre novità sono venute da alcuni rilevanti interventi della giurisprudenza di legittimità. Si segnala anzitutto una presa di posizione delle Sezioni Unite della Corte Suprema. Nella specie si trattava di stabilire se la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità (art. 62, n. 4, c.p.) sia applicabile al delitto di tentato furto (artt. 56 e 624 c.p.). La questione investiva però, com’è ovvio, l’intera materia dei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, e, su un piano ancor più generale, il tema dei rapporti tra delitto tentato ed elementi circostanziali. Va subito detto che la Corte non si è sottratta ad una considerazione complessiva della materia.
La giurisprudenza di orientamento restrittivo, storicamente minoritaria, osserva in genere che, non essendo il danno un elemento costitutivo del delitto di furto, e mancando comunque un danno quando la condotta si arresta in fase di tentativo, l’entità del pregiudizio patrimoniale (ed in particolare la sua tenuità) sarebbe strutturalmente irrilevante: dunque, una ragione di specifica pertinenza al furto, ed un’altra proponibile per ogni ipotesi di tentativo, almeno quanto a reati con un unico evento di danno patrimoniale. Le Sezioni Unite hanno preso le mosse proprio dalla pretesa incompatibilità strutturale tra tentativo ed elementi circostanziali del reato, riprendendo la distinzione, proposta in dottrina, tra tentativo di delitto circostanziato (gli elementi della circostanza verrebbero integrati se il reato fosse consumato) e tentativo circostanziato di delitto (la condotta, per quanto incompleta o improduttiva dell’evento, integra la fattispecie circostanziale). La seconda figura, secondo la Corte, vale a dimostrare che non v’è incompatibilità logica tra tentativo e circostanze, ben potendosi verificare una integrazione multilaterale tra la norma incriminatrice, l’art. 56 e, per esempio, l’art. 62 c.p. Quanto al caso del tentativo di delitto circostanziato, l’incompletezza del fenomeno criminoso sul piano materiale non esclude che l’azione venga concepita e diretta verso un evento antigiuridico comprensivo degli elementi costitutivi di una figura circostanziale. È necessario – si prosegue – che ricorrano anche per questo verso i requisiti dell’univocità e della idoneità, e che le specifiche fattispecie di volta in volta considerate non si trovino in stato di incompatibilità logica. Fuori da quest’ultima ipotesi, però, l’applicazione della norma circostanziale sarebbe condizionata solo da problemi di prova.
Su queste premesse generali, le Sezioni Unite hanno avallato l’orientamento maggioritario che ammette la rilevanza del danno di speciale tenuità nel delitto tentato di furto: nella prospettiva tipica del tentativo, dovrà essere dimostrato che, ove l’azione fosse stata coronata da successo, la persona offesa avrebbe subito, appunto, un danno patrimoniale molto lieve. Per le stesse ragioni, incidentalmente, si afferma nella sentenza che il tentativo di furto ben potrebbe essere aggravato a norma dell’art. 61, n. 7, c.p., a fronte di una condotta idonea ed univocamente diretta a provocare, per la persona offesa, un danno patrimoniale di rilevante gravità (Cass. pen., S.U., 28.3.2013, n. 28243).
Sempre a proposito di circostanze, va segnalata anche una ulteriore deliberazione delle Sezioni Unite, concernente i presupposti per l’applicazione di attenuanti generiche (Cass. pen., S.U., 24.5.2012, n. 36258). La pronuncia – principalmente dedicata ai criteri per l’identificazione della «ingente quantità» che aggrava il trattamento sanzionatorio delle condotte di narcotraffico – interessa in questa sede per le considerazioni relative alla qualità dell’atteggiamento processuale assunto dal reo, ed ai suoi riflessi sul piano circostanziale. Secondo la Corte, non può negarsi all’interessato la libertà di non praticare un atteggiamento collaborativo, e finanche la libertà di mentire, ma ciò non implica la possibilità di tenere impunemente «una condotta processuale ambigua … atteggiamenti processualmente ‘obliqui’ e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale, che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento … e la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice del merito». Tale ultima valutazione – si è stabilito – può ben sostenere a livello motivazionale il diniego di applicazione delle attenuanti generiche.
Un’ultima segnalazione sul regime generale di applicazione delle circostanze, riguardo ad un aspetto concernente il reato pluripersonale e, dunque, la “diffusione” tra i correi dell’effetto aggravante o attenuante di singole fattispecie. Dopo la riforma attuata con la l. 7.2.1990, n. 19, l’art. 118 c.p. stabilisce che si applicano solo al diretto interessato le circostanze pertinenti ai motivi a delinquere, all’intensità del dolo, al grado della colpa e, infine, le «circostanze inerenti alla persona del colpevole». Per l’ultima delle categorie in questione esiste, com’è noto, una risalente definizione normativa: si tratta delle fattispecie riguardanti la imputabilità e la recidiva (art. 70, co. 2, c.p.).
Dal raccordo tra le norme citate la giurisprudenza maggioritaria desume l’applicabilità nei confronti di tutti i partecipi del reato concorsuale di circostanze che, pur riguardando la qualità o la posizione di un singolo agente, non possono ricondursi agli istituti della recidiva e dell’imputabilità. Un caso frequente è quello della condizione di latitanza (n. 6 dell’art. 61 c.p.), la quale dovrebbe comportare, in base all’indirizzo in questione, un aumento di pena per tutti i responsabili del reato, sempreché costoro conoscessero od ignorassero per colpa la condizione del correo.
Proprio riguardo alla latitanza, per altro, una recente ed innovativa decisione della Cassazione ha elaborato un diverso principio di carattere generale. Le circostanze di carattere soggettivo, per quanto non «inerenti alla persona del colpevole», si estenderebbero ai concorrenti solo quando abbiano agevolato la commissione del reato pluripersonale (Cass. pen., 19.2.2013, n. 22136). Alla base dell’assunto una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 118 c.p., che nella versione originaria conteneva espressamente il limite indicato («le circostanze soggettive … stanno a carico anche degli altri … quando hanno servito ad agevolare la esecuzione del reato»). La restrittiva definizione delle «circostanze inerenti alla persona del colpevole» ben si raccordava con il testo originario dell’art. 118, ma risulta ormai inadeguata, e produce conseguenze paradossali, se intesa quale riferimento letterale a recidiva e imputabilità. Ad esempio, dovrebbero estendersi a tutti i correi le attenuanti generiche riconosciute a taluno di essi per il buon comportamento processuale. Altro esempio: la generalizzazione dell’effetto aggravante delle circostanze indicate ai nn. 2, 3 e 4 dell’art. 112, co. 1, c.p., in contraddizione con la funzione loro assegnata, che è proprio quella di distinguere tra i correi a seconda del ruolo rispettivamente assunto. Insomma, la lettura tradizionale dell’art. 118 c.p. finisce col produrre un effetto opposto a quello perseguito con la riforma (cioè una riduzione dei casi di estensione tra i correi degli aggravamenti di pena), e comunque risultati applicativi privi di ragionevolezza. Di qui, sempre secondo la Corte, la necessità di una interpretazione adeguatrice, che renda di nuovo corrispondente l’effetto generalizzato di aggravamento della pena alla rilevanza del fattore circostanziale nell’economia complessiva del fatto criminoso.
Nuove importanti deliberazioni risultano assunte, nella giurisprudenza dell’ultimo anno, a proposito della confisca.
Un primo profilo attiene all’applicazione retroattiva delle norme che introducono nuovi casi di confisca. Le radici del problema, e l’evoluzione della materia, sono ormai fin troppo note. L’art. 200 c.p. si atteggia a legge regolatrice dell’applicabilità rispetto al tempo delle misure di sicurezza, nella prospettiva segnata dal co. 3 dell’art. 25 Cost., e dunque affrancata dal divieto di applicazione retroattiva. Le misure di sicurezza, per la loro stessa funzione (almeno originaria), sono disposte se così è stabilito al momento della decisione, e dunque, in ipotesi, anche riguardo a fatti commessi prima della relativa previsione. Tuttavia la giurisprudenza europea sui diritti umani, relativamente al principio di non retroattività stabilito all’art. 7 della Convenzione EDU, considera coperta dalla garanzia ogni previsione di «pena», secondo un criterio sostanziale che esula dalle qualificazioni proprie dei sistemi nazionali. Di qui le note pronunce sull’istituto italiano della confisca (a partire dalla sent. 20.1.2009, Sud Fondi v. Italia), e sulla necessaria estensione alla stessa confisca dei principi di colpevolezza e di non retroattività. Sempre di qui le conformi prese di posizione della giurisprudenza nazionale, costituzionale ed ordinaria. A proposito di quest’ultima, va ricordato soprattutto il caso della confisca per equivalente introdotta, quanto ai reati tributari previsti dal d.lgs. 10.3.2000, n. 74, con il co. 143 dell’art. 1 della l. 24.12.2007, n. 244. La Corte di legittimità ha ben presto stabilito, con più decisioni, che la misura, per la sua natura «eminentemente sanzionatoria», non può applicarsi relativamente a fatti commessi, appunto, prima del 10.1.2008, data di entrata in vigore della legge istitutiva (da ultimo, Cass. pen., 26.1.2010, n. 11288; per la giurisprudenza costituzionale, in precedenza, C. cost. 11.3.2009, n. 97).
Una prima novità è che il principio è stato ribadito, e dunque definitivamente sancito, anche dalle Sezioni Unite della Corte Suprema, in occasione di un provvedimento principalmente dedicato alla disciplina dei reati transnazionali (Cass. pen., S.U., 31.1.2013, n. 18374). Ma la decisione si segnala soprattutto per l’estensione del principio, considerata ovvia, ad ulteriori previsioni di confisca per equivalente: nella specie, appunto, la misura istituita per i reati transazionali dall’art. 11 della l. 16.3.2006, n. 146.
Del resto, il fenomeno si estende ben oltre la figura della confisca di valore. La stessa Suprema Corte ha stabilito recentemente, con una ulteriore sentenza, che «sostanza di sanzione» va riconosciuta anche alla confisca di prevenzione, ormai applicabile a prescindere dalla valutazione di attuale pericolosità dell’interessato (art. 2 bis della l. 31.5.1965, n. 575, come modificato dalla l. 15.7.2009, n. 94), con la conseguenza che la misura non è utilizzabile per fattispecie maturate prima della relativa novella (Cass. pen., 12.11.2012, n. 14044).
Tornando alla confisca per equivalente, l’ormai conclamata «natura di sanzione» del provvedimento è valsa anche ad orientare i giudici di legittimità verso la conclusione che la confisca stessa non può essere applicata in caso di reato estinto per intervenuta prescrizione.
È noto che la sentenza liberatoria non preclude radicalmente l’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale, e che anzi è frequente, in giurisprudenza, l’affermazione contraria riguardo ai casi di confisca obbligatoria, a norma del co. 2 dell’art. 240 c.p. (nel caso delle cose di cui siano vietate penalmente la fabbricazione e la detenzione, la norma citata prescrive l’adozione della misura «anche se non è stata pronunciata condanna»). Si tratta però di orientamento non univoco, tanto che, rispetto al prezzo del reato (per il quale il co. 2 dell’art. 240 non reitera il riferimento espresso al caso della sentenza assolutoria), altra parte della giurisprudenza, ancorché si tratti ancora di confisca obbligatoria, nega la possibilità del provvedimento ablatorio con riferimento a reati estinti per prescrizione (in questo senso anche le Sezioni Unite, che non sono per altro riuscite a dirimere il contrasto: Cass. pen., S.U., 10.7.2008, n. 38834; nel senso opposto della confiscabilità, da ultimo, Cass. pen., 25.1.2013, n. 31957).
Superando di slancio la controversia, una recente sentenza ha stabilito, sempre riguardo al reato prescritto, che la confisca non è mai applicabile quando sia prevista quale misura per equivalente, come ad esempio nell’art. 322 ter c.p. (Cass. pen., 6.12.2012, n. 18799/13). Alla base dell’assunto, come si accennava, la trasparente matrice sanzionatoria dell’istituto, sganciato, per effetto della completa soluzione del nesso di pertinenza tra la res ed il reato, da ogni forma di pericolosità intrinseca del bene da confiscare. Se la prevalente «natura di pena» della misura deve impedirne l’applicazione in chiave retroattiva (supra), altra conseguenza della sua metamorfosi, secondo la Corte, deve appunto essere tratta a proposito dei reati prescritti: non è possibile applicare una «pena» senza che venga affermata la responsabilità dell’interessato, quand’anche la legge configuri la confisca come misura «obbligatoria».
Per quanto attiene alla rilevanza del principio di proporzionalità – rilevanza ancora una volta suggerita dalla natura «sanzionatoria» della confisca – va segnalata una importante pronuncia della Consulta, esplicitamente riferita anche alla misura che consegue ad un illecito penale, sebbene relativa, nella specie, al provvedimento ablatorio di cui all’art. 187 sexies del d.lgs. 24.2.1998, n. 58, per un caso di insider trading.
La norma censurata impone la confisca non solo con riguardo al profitto del reato, ma anche in riferimento ai mezzi finanziari utilizzati per commetterlo, che possono essere di enorme consistenza, perfino nei casi risoltisi senza alcun illecito vantaggio per l’operatore. Si comprendono dunque i rilievi critici del giudice rimettente in punto di proporzionalità della risposta sanzionatoria delineata dal legislatore, rilievi il cui fondamento non è stato disconosciuto dalla Consulta. La Corte, comunque, ha dichiarato inammissibile la questione sollevata, per il carattere asistematico (e dunque certamente discrezionale) della «soluzione» proposta dal rimettente, cioè la previsione che l’Autorità (amministrativa e/o giudiziaria) possa disporre la confisca anche solo parziale dei valori in questione. La misura – si è notato – può essere obbligatoria o facoltativa, ma, anche nel secondo caso, non può che riguardare nella sua interezza il bene “pericoloso”. Questo, almeno, è l’attuale profilo dell’istituto, compatibile più con l’originaria funzione che con la natura di sanzione (ove invece la variazione edittale tra minimo e massimo è la norma). Solo il legislatore, ovviamente, potrebbe variarlo, deviando definitivamente l’istituto, per inciso, dalla sua funzione preventiva (C. cost., 15.11.2012, n. 252).
Da ultimo, è opportuno tornare per un momento alla recente decisione delle Sezioni Unite in materia di confisca per equivalente (n. 18374/2013), allo scopo di segnalare come la Cassazione sia intervenuta, nell’occasione, sul concetto di profitto del reato, quale misuratore del valore dei beni confiscabili. La Corte ha ribadito che nel caso dei reati tributari il profitto è costituito da qualunque vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla realizzazione dell’illecito, e può consistere, dunque, anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, nonché degli interessi e delle sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito tributario.