REATO (fr. crime; sp. crimen; ted. Reat; ingl. crime)
Cenni storici. - Non è facile cogliere il concetto giuridico del reato presso i popoli dell'antichità: spesso questo concetto trova le sue origini in credenze religiose; quasi sempre, poi, il diritto penale primitivo riferisce gli atti del singolo non tanto all'agente, quanto al gruppo sociale di cui esso fa parte, né dà importanza alla circostanza se il turbamento portato all'ordine è doloso o accidentale. È necessario distinguere fra due generi di reato: quello compiuto contro un membro del medesimo gruppo sociale, quello compiuto contro persona appartenente a un altro gruppo.
Diritti orientali. - Nelle leggi hittite la formazione delle norme penali sembra essersi svolta sotto l'influenza di due concetti diversi: la vendetta privata e la vendetta pubblica, la quale ha un'indubbia origine religiosa. I reati sono tassativamente fissati (omicidio, lesioni, procurato aborto, ratto, reati contro i costumi; furto, incendio, danno; ribellione e sortilegio). In taluni casi si comincia a distinguere l'elemento dell'internazionalità e della volontarietà. Anche le leggi assire non prevedono che un piccolo numero di reati (furto, maleficio, diffamazione, adulterio, violenza, reato sessuale, procurato aborto, omicidio). Il concetto, che sembra ispirare questa legislazione, è la responsabilità individuale dell'agente. I medesimi concetti sembrano guidare anche il codice di Hammurabi. Qui l'elemento della volontarietà affiora solo in alcune norme, come, ad esempio, nella distinzione fra le lesioni (§ 206, 207), mentre in altre sembra ignorato. La condizione giuridica dell'offeso e dell'offensore rende più o meno grave il reato e, di conseguenza, la pena.
Nel diritto mosaico il concetto di reato perseguito dall'autorità pubblica risiede nell'infrazione dell'ordine stabilito dal patto fra Dio e il popolo ebreo e dalla legge data da Dio all'uomo. Chi viola queste norme, in quanto cade sotto la sanzione divina, è impuro e come tale viene reciso dal popolo o deve sottoporsi all'espiazione per purificarsi. Il reato privato, così come configurato dal Pentateuco, trova invece il suo fondamento nell'offesa all'integrità del singolo e di conseguenza dell'ordine sociale, e porta alla vendetta privata nelle sue varie forme o alla composizione. In tempi più recenti, varî reati privati vengono repressi dall'autorità, ma conservano il ricordo dell'antico carattere. In varie norme affiora l'elemento della volontà e dell'intenzionalità.
Diritto greco. - Le numerose fonti giuridiche e letterarie permettono di meglio studiare il concetto del reato e l'evoluzione di esso. Il reato secondo i Greci, è la violazione dell'ordine, opera degli dei. Nel diritto primitivo vi è una distinzione netta fra il caso in cui l'atto, che reca un pregiudizio ad alcuno, sia commesso contro persona appartenente a γένος diverso o invece contro persona appartenente al medesimo gruppo. Nel primo caso, la questione viene risolta fra i due gruppi, cui appartengono l'offensore e l'offeso, mediante la vendetta, il taglione o la composizione. Nel secondo caso, il gruppo tende a restringere la responsabilità al solo autore dell'atto. La prima forma di giustizia è la δίκη che riposa sul costume, la seconda la ϑέμις che ha un carattere patriarcale e che diverrà più tardi sinonimo di equità, di giustizia divina di fronte a quella umana. Di solito, il gruppo si sbarazza del colpevole, espellendolo.
Mentre il taglione sembra ignoto ai poemi omerici, la vendetta appare essere la base del sistema penale. L'offensore di un membro estraneo al suo gruppo attira sui membri del suo gruppo, con lui solidali, l'ira degli offesi: ciò che induce spesso l'offensore ad allontanarsi dal gruppo. La vendetta è un dovere che si deve compiere a ogni costo: secondo le credenze religiose greche, lo spirito dell'ucciso tormenta tanto l'offensore quanto il vendicatore. Nell'esercizio della vendetta si applica pienamente il principio della solidarietà attiva e passiva della famiglia. Presto alla vendetta si sostituisce la composizione, il trattato di pace privata e la possibilità di dare a nossa il colpevole del reato, liberando così il gruppo dagli effetti del reato medesimo. A poco a poco il vincolo della solidarietà si estende anche al gruppo sociale. Via via che declina il regime patriarcale, i reati perdono il carattere di offesa privata e, senza ancora apparire come vere e proprie infrazioni sociali, prendono il carattere di peccati. Secondo la concezione greca, se gli uomini non puniscono, è la divinità che esegue la vendetta, la quale può travolgere anche i prossimi del colpevole. Così sorge il nuovo concetto dell'atto che porta con sé come conseguenza l'espiazione e la necessità della purificazione, e in tal modo si completa l'antica giustizia del γένος, giacché molti atti, che prima non erano punibili, ora rendono necessaria la purificazione e quindi l'espiazione dell'agente. Mentre il diritto religioso assorbe una gran parte della ϑέμις famigliare per trasmetterla alla δίκη, la giurisdizione dello stato perde il suo carattere di puro arbitrato e comincia a reprimere direttamente gli atti nocivi alla compagine sociale e ai singoli. Ormai, ha proprî tribunali e obbliga gli offesi a ricorrere ad essi per ottenere giustizia. L'antico concetto del reato non sparisce del tutto e si conserva anche in questa fase, dando luogo a caratteristiche proprie del diritto penale greco. In Atene, nel periodo che corre tra la legislazione attribuita a Dracone e quella attribuita a Solone, si può seguire il progressivo trasformarsi della vendetta, che da privata diviene sempre più vendetta pubblica. A Solone si attribuisce il principio che ogni atto di violenza compiuto su di una persona è un atto contro la società, che chiunque può perseguire, anche se non colpito dall'atto stesso. L'omicidio è, però, per lungo tempo considerato reato privato. Nel caso di tradimento e di sacrilegio, la pena colpisce l'intera famiglia; ma anche questi ultimi avanzi del periodo primitivo vanno sparendo e l'atto del reato viene sempre più attribuito alla persona del colpevole. In epoca storica, in Atene erano considerati reati pubblici i seguenti atti (seguiamo l'elenco fornito da J. J. Thonissen): 1. usurpazione del diritto di cittadinanza; matrimonio fra Ateniesi e stranieri; non adempimento delle obbligazioni imposte ai meteci; 2. frodi in tema d'imposte; irregolarità nell'iscrizione dei debitori dello stato; 3. atti contro la ricchezza pubblica; 4. Iesioni, oltraggi, soppressione di stato, maltrattamenti contro genitori, orfani, atti contro la libertà individuale; 5. atti contro l'assemblea e i giochi scenici, contro l'amministrazione della giustizia e la legislazione; 6. reati contro i costumi; violazione delle leggi relative ai sepolcri; alcune specie di furti; incendio; violazione del deposito; falso; rottura di sigilli; cambiamento arbitrario del nome; rifiuto di testimonianza e falsa testimonianza.
È interessante anche vedere come i maggiori filosofi hanno considerato il reato. Secondo Platone, il reato sarebbe il prodotto di una malattia dell'animo, che trova la sua medicina nella pena prescritta dal giudice. Le fonti di esso sarebbero la collera, il piacere e l'ignoranza. Per Aristotele, invece, il reato è l'atto compiuto da un nemico della società che bisogna colpire senza pietà. Entrambi prendono in esame, sia pure vagamente, l'elemento della volontà dell'atto.
Diritto romano. - Per indicare il reato, i Romani adoperano varî termini: scelus; fraus; peccatum; probrum; maleficium; delictum; crimen; flagitium. I primi quattro non sembrano avere un preciso significato tecnico, ma sono usati promiscuamente: diversamente, invece, gli ultimi. Delictum e maleficium presso i giuristi classici indicherebbero l'atto illecito punito dallo ius civile con pena privata: crimen l'atto illecito punito con pena pubblica (E. Albertario: tesi non del tutto accolta da G. Segrè); flagitium indicherebbe in senso generale cosa turpe e vergognosa e in senso più ristretto il reato militare e il reato contro il buon costume (E. Volterra). Il diritto postclassico e giustinianeo non serba un esatto uso tecnico di queste parole, onde spesso sono adoperate promiscuamente, o in espressioni concettualmente nuove, quali crimen publicum, delictum privatum, ecc. Assai discussa è l'etimologia di crimen: più probabilmente da κρίνω = cerno, oggetto di ricerca, di esame e quindi azione penale, accusa.
Fra i giuristi romani abbiamo un concetto ben chiaro del reato: essi considerano tale l'infrazione di una norma giuridica (Dig., XXXXVIII, 4, ad leg. Jul. maiest., 7, 3). Da qui discende il principio dell'irretroattività della norma penale (Cic., In Verr., II, 1; Nov., VII, 13 e LXXVII, 2, 2). Si deve, però, distinguere la vera e propria pena dal semplice provvedimento di polizia: distinzione assai attenuata in diritto giustinianeo. Il reato deve consistere in un atto positivo oppure, benché qualcuno lo neghi per il più antico diritto, in un'omissione (Dig., XXV, 3, de agnosc., 4). Tale omissione si deve, però, riferire a una norma giuridica generale che imponga di operare e quindi non si ammette che per casi singoli determinati (Dig., L, 16, de verb. sign., 131, pr.).
Riguardo all'elemento soggettivo del reato, i classici richiedono la volontà antigiuridica dell'agente diretta a ledere la norma e quindi il diritto altrui. Gli scrittori non sono però d'accordo sul concetto esatto del dolo nel diritto penale romano (K. Binding; C. Ferrini). Con Adriano si comincia a tener conto di alcuni elementi discriminanti quali l'impetus, la rixa, l'ebrietas, ecc. Anche nei riguardi dei reati colposi abbiamo un mutamento nel diritto imperiale: infatti, mentre nell'antico diritto si richiedeva sempre l'elemento doloso per applicare la pena, dopo Adriano anche l'omicidio colposo viene colpito extra ordinem.
Subbietto del reato è solo l'uomo inteso come persona fisica: non quindi le persone giuridiche, ma le persone fisiche che le costituiscono e le rappresentano.
Alcune delle condizioni fisiche o giuridiche della persona possono costituire attenuanti in determinati reati. La forza maggiore esclude il reato: la ignorantia iuris, invece, non aveva alcun rilievo nei reati pubblici (E. Volterra), e solo nel diritto postclassico comincia a sorgere la dottrina che ammette una scusante per alcune categorie di persone. Esclude poi il reato il consenso del danneggiato. Sino da epoca antica i Romani avevano preso in considerazione il caso del concorso di più reati. Sembra che nei reati pubblici si riunissero di solito insieme i varî reati in una sola pronunzia: non mancano però le eccezioni. Nei reati privati è ammesso invece il cumulo. Le medesime regole pare si applichino anche nel caso del concorso formale, cioè quando con la medesima azione si siano violate più norme. Assai discussa fra i romanisti è la questione circa i gradi del reato, soprattutto in ordine al tentativo. Taluni (E. Costa) sostengono che la dottrina classica ravvisasse sufficiente, per applicare la pena, la volontà criminosa manifestata con atti concludenti di preordinazione ed esecuzione: nel diritto giustinianeo si sarebbe, invece, richiesto il raggiungimento dell'esito criminoso voluto dall'agente o la violazione del diritto tutelato dalla legge penale.
Col nome di crimina nel diritto classico si designano i reati perseguiti dallo stato, e che sono di competenza delle quaestiones; delicta sarebbero invece gli atti puniti con pena privata; nell'età imperiale soprattutto sorgono i crimina extraordinaria, cioè atti criminosi perseguiti dai magistrati imperiali, non contemplati dalle leggi costitutive delle quaestiones o contemplati in modo diverso. Nel diritto giustinianeo si può dire che tutti i crimina sono extraordinaria. Abbiamo poi i crimina communia e i propria: questi ultimi sono reati speciali di una categoria di persone. Si distinguono ancora i reati in atroci e lievi rispetto al medesimo atto; capitalia o non capitalia secondo che portano, o no, a una condanna che implichi la morte o la perdita della libertà o della cittadinanza (eximere caput de civitate).
I reati si estinguono: 1. con l'espiazione della pena, tranne per quanto riguarda taluni effetti della condanna; 2. con la remissione; 3. con la grazia; 4. con la restitutio, che si distingue in principalis e specialis; 5. con la prescrizione. È sconosciuta la prescrizione per i reati nel diritto classico, tranne alcuni casi tassativamente fissati: nel diritto giustinianeo viene introdotta una generale prescrizione ventennale; anche qui non mancano però le eccezioni (E. Volterra); 6. con la morte del reo. In quest'ultimo caso abbiamo però varie eccezioni: a) i cadaveri dei condannati a morte non possono essere trasferiti per la sepoltura; b) la morte non impedisce l'esecuzione delle pene pecunarie pronunciate; c) il giudice può inchoare post mortem contro il perduellis e il colpevole di crimen maiestatis o del crimen repetundarum: più tardi anche contro il colpevole di manicheismo e di altri reati religiosi; d) il suicida è equiparato al damnatus quando sia postulatus, delatus o deprehensus in reatu e quando il suicidio sia compiuto allo scopo di sfuggire alla condanna. Questo sistema, che appare essere nuovo di fronte all'antico diritto, subisce alcune variazioni nel diritto postclassico (E. Volterra); e) si può agire contro gli eredi nel caso di contrabbando; di supposizione di stato; di falso; nel caso della lex Acilia repetundarum; 7. il patto remissorio estingue le azioni penali di furto e ingiuria.
Per quanto riguarda la composizione dei reati, v. composizione. È da ricordare inoltre come operativa di effetti giuridici l'abolitio, la quale però estingue la sola azione penale in corso.
Bibl.: E. Cuq, Études sur le droit babylonien, ecc., Parigi 1929; G. Förster, Das mosaische Strafrecht, ecc., Lipsia 1900; J. J. Thonissen, Le droit pénal de la république Athénienne, Parigi 1875; G. Glotz, La solidarité de la famille dans le droit criminel en Grèce, ivi 1904; C. Ferrini, Dir. pen. romano, Milano 1899; id. Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, Torino 1902; id., Quid conferat ad iuris crimin. hist. Homer. Hesiodeorumque poematum studium, in Opere, V, p. i segg.; id., Il tentativo nelle leggi, ecc., ibid., p. 51; id., Ancora sul tentativo, ecc., ibid., p. 107; Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Lipsia 1899; K. Binding, Die Normen und ihre Uebertretung, voll. 4, ivi 1916-1919; E. Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Bologna 1921; id., Il conato criminoso in diritto romano, in Bull. ist. dir. rom., 1921; E. Albertario, Delictum e crimen, in Pubbl. Univ. Cattolica, Milano 1924; id., Maleficium, in Studi Perozzi, Palermo 1917; G. Segrè, Obligatio obligare, ecc., in Studi Bonfante, III, Milano 1930; E. Volterra, Intorno alla prescr. dei reati in dir. rom., in Bull. ist. dir. rom. 1929; id., Delinquere nelle fonti giuridiche romane, in Riv. ital. per le scienze giuridiche, 1930; ad., Osservazioni sull'ignorantia iuris nel diritto penale romano, in Bull. ist. dir. rom., 1930; id., Sulla confisca dei beni dei suicidi, in Riv. st. dir. ital., 1933; id., Flagitium nelle fonti, ecc., in Arch. giur., 1934; E. Levy, Die röm. Kapitalstrafe, in Sitzungsber. Akad. Heidelberg, 1930; U. Brasiello, La pena capitale romana, in Rassegna bibl. sc. giur. e soc., 1934, ecc.
Diritto moderno.
I. - La parola "reato" serve a indicare un fenomeno della vita sociale contrario alle morali e materiali esigenze della vita sociale stessa, e oggetto di particolare considerazione scientifica fuori e dentro la cerchia delle discipline giuridiche. Svariate nozioni si possono avere del reato: tante distinte nozioni per quanti sono i punti di vista sotto i quali il fenomeno si presta a essere studiato. Così, una nozione sociologica porrà in rilievo, nel reato, quel che lo rivela espressione delle particolari condizioni ambientali (economiche, igieniche, culturali, politiche, ecc.) di un popolo in un determinato momento storico. L'antropologia, e specialmente la psicologia (antropologia criminale, psicologia criminale), indicheranno il reato quale manifestazione delle caratteristiche organiche (somatiche, psichiche) dell'uomo delinquente. La filosofia studierà il reato come fenomeno intimamente legato ai più alti problemi di ordine etico, lo segnalerà come negazione di un'esigenza di giustizia, come un fatto individuale che la coscienza morale di un popolo sente passibile di particolare riprovazione giuridica (concezione razionale del reato), definendolo, ad es., con G. Maggiore (Principî di diritto penale, Bologna 1932, p. 127) come "un atto che offende la coscienza etica di un popolo in un dato momento storico, e che per la sua gravità si presenta degno di quella speciale sanzione che è la pena". Del reato come fenomeno politico, come fenomeno, cioè, interessante in misura elevatissima quelli che sono i compiti statali di protezione e difesa delle condizioni imprescindibili di vita e di sviluppo dell'aggregato sociale, si occupa la politica criminale, che, sulle orme di R. Jhering, potrà definirlo come fatto violatore di quelle condizioni fondamentali di vita in comune che soltanto mediante la pena può lo stato adeguatamente tutelare; oppure, secondo la nozione che ne offre S. Longhi (di natura politico-criminale, a nostro avviso, più che giuridica), come "il fatto antigiuridico cui corrisponde e si fa corrispondere una pena per insufficienza o difetto di altra sanzione". Dal punto di vista giuridico (che dagli altri punti di vista completamente si distacca), il reato, in astratto, è il fatto come tale dichiarato dal legislatore; in concreto esso è tutto e soltanto in un rapporto di contraddizione della condotta ribelle del suddito con la sovrana volontà dello stato contenuta nella norma penale. Il campo di osservazione, entro cui è studiato il reato dal punto di vista giuridico, non è più la vita sociale nelle sue caratteristiche ambientali, nelle sue esigenze materiali e morali, nelle sue necessità protettive, non è più l'uomo nelle sue tare ereditarie, nella sua struttura somatica, nel suo temperamento; il campo di osservazione è soltanto il diritto penale positivo, il diritto vigente: è quest'ultimo che offre, magari in disaccordo con le altre definizioni, la definizione giuridica del reato. Fuori del diritto penale positivo non si può fissare una definizione giuridica del reato; la nozione del cosiddetto "reato naturale" ("violazione - come si espresse R. Garofalo - dei sentimenti altruistici fondamentali della pietà e probità, secondo la misura media in cui si trovano nell'umanità civile, per mezzo di azioni nocive alla collettività") coglie quello che si può dire storicamente il profilo politico-sociale normale del reato, ma non il profilo giuridico essenziale che riconduce il fatto dell'uomo sotto la norma che è espressione della sovrana, illimitata potestà statale incriminatrice.
II. - Un'esatta nozione del reato ne distingue il concetto dal contenuto.
a) Nel "concetto" del reato si fissano quelli che sono i caratteri indispensabili e differenziali del reato stesso, i caratteri che servono a distinguere il reato, come illecito penale, dagli altri illeciti giuridici; e, siccome non è dato rintracciare la caratteristica differenziale del reato fuori della "specialità della sanzione" che la legge per esso commina, il reato non si può sotto questo aspetto definire altrimenti che come il fatto per il quale la legge commina una pena criminale o pena in senso proprio (nozione astratta), come il fatto violatore di una norma sanzionata con pena criminale, ossia (V. Manzini) come "il fatto individuale con cui si viola un precetto giuridico munito di quella sanzione specifica di coercizione indiretta, che è la pena in senso proprio" (nozione concreta). Una concezione del reato, dunque, che, in quanto è giuridica, è concezione autonoma (vale a dire indipendente da ogni altra concezione politica, etica, sociologica, ecc.), relativa (ossia vincolata al contenuto del diritto oggettivo penale vigente; v. art. 1 cod. pen.: nullum crimen sine lege), formale (cioè estranea al contenuto antisociale del fatto, ai motivi politici dell'astratta incriminazione del fatto). Una concezione sostanziale del reato, intesa a distinguere, fuori della specialità della sanzione, l'illecito penale dagli altri illeciti giuridici, si accamperebbe fuori della realtà giuridica. Sono pertanto fuori della realtà giuridica - ancorché esse colgano quello che è il profilo storicamente normale del reato o quello che può essere il suo contenuto razionalmente desiderabile - la teoria del Garraud, per cui il reato sarebbe un illecito doloso o colposo, mentre l'illecito civile consisterebbe solo in un illecito incolpevole, la teoria di F. Carrara, per cui il reato, a differenza del torto civile, produrrebbe un danno sociale e irreparabile, la teoria di Art. Rocco, secondo la quale il torto civile produrrebbe soltanto un danno sociale, mentre il reato produrrebbe anche un pericolo sociale, teoria anch'essa inaccettabile quando si pensi, come è stato giustamente osservato (G. Maggiore), che vi sono inadempimenti di obbligazioni civili che, cagionando la rovina di un uomo, di una famiglia, di un'azienda, suscitano nella coscienza sociale maggiore sdegno e sgomento di una insignificante contravvenzione, creando più di questa pericolo di reazioni e imitazioni antigiuridiche. Sostanzialmente, insomma, l'illecito penale non ha, come illecito penale, caratteri assoluti che lo distinguano dall'illecito civile e dall'illecito amministrativo: la qualifica (penale, civile, amministrativa) di un illecito giuridico è rimessa, evidentemente, all'arbitrio del legislatore.
b) Dal punto di vista del "contenuto" il reato si può definire un comportamento dell'uomo, libero e colpevole, produttivo di un evento (violazione dell'interesse penalmente protetto) e attuato nelle condizioni e circostanze previste nella norma che ne delinea l'astratto modello. La nozione del contenuto del reato riassume gli estremi sostanziali che concorrono a comporre il reato in genere; quegli estremi fuori dei quali - eccetto casi eccezionalissimi previsti dalla legge - non è dato concepire un reato. Fuori, infatti, della libertà (che è normalità psichica, che è capacità, nel soggetto, d'intendere e di normalmente utilizzare il meccanismo della volontà), fuori della colpevolezza (che è corrispondenza della volontà individuale al contenuto del fatto modellato nella norma), non è pensabile un reato come illecito giuridico. In difetto delle mentovate condizioni soggettive, il comportamento dell'uomo potrà esprimere "pericolosità" (considerazione sintomatica del fatto, come indice di pericolosità), ma non mai "illiceità". Gli estremi o elementi del reato si sogliono distinguere in materiali (azione od omissione, e relative modalità, quindi la produzione di un determinato evento dannoso o pericoloso) e psichici (dolo, colpa, preterintenzionalità - secondo i casi -; talora è necessario un fine specifico).
Dagli estremi o elementi del reato devono distinguersi: i presupposti del reato, le condizioni di punibilità, le circostanze del reato.
1. Sono presupposti del reato - secondo l'esatta definizione del Manzini - quegli elementi giuridici o materiali, positivi o negativi, anteriori all'esecuzione del fatto, la cui sussistenza è richiesta perché il fatto costituisca reato o costituisca un certo determinato reato (così, ad es., il delitto di procurato aborto suppone la gravidanza; il delitto di peculato suppone nel soggetto attivo la qualità di pubblico ufficiale).
2. Sono condizioni di punibilità quegli eventi estrinseci al fatto violatore del precetto penale, quegli eventi richiesti dalla norma per l'esistenza del reato, ma non necessarî all'obiettività giuridica che caratterizza il reato; così, ad es., il pubblico scandalo nel delitto d'incesto (art. 564 cod. pen.). Nei loro confronti è indifferente il requisito della volontarietà; basta la loro obiettiva esistenza. Ciò è espresso nell'articolo 44: "Quando per la punibilita del reato (ossia del fatto) la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato anche se l'evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto".
3. Sono circostanze del reato (accidentalia delicti) quegli elementi accessorî del reato che ne aggravano o attenuano l'entità e conseguentemente la pena, non confondibili, dunque, con gli estremi costitutivi del reato nella sua ipotesi tipica o fondamentale. Dal punto di vista della loro aderenza al reato, si distinguono in estrinseche (posteriori o, comunque, estranee all'esecuzione e consumazione del reato, come, ad es., la riparazione del danno, la recidiva) e intrinseche (relative all'esecuzione o consumazione del reato come, ad es., la premeditazione). Dal punto di vista del loro effetto sul reato, e quindi sulla responsabilità penale, si distinguono in aggravanti e attenuanti, non essendo esatto parlare anche di circostanze che fanno mutare il titolo del reato (causa di esclusione, le prime; di produzione, le seconde, del reato). Nella loro natura le circostanze sono: oggettive (per es. modalità dell'azione), inerenti alla persona del colpevole (quelle riguardanti l'imputabilità e la recidiva), o soggettive non inerenti alla persona del colpevole (per es., rapporti fra il colpevole e l'offeso, art. 70 cod. pen.), distinzione, questa, interessante specialmente in riguardo alla cosiddetta comunicabilità delle circostanze nel concorso criminoso (articoli 118; 119). Nella loro previsione, infine, si distinguono in generali o comuni (per es., il motivo abietto o futile, la provocazione: v. articoli 61 e 62) e particolari o speciali (per es. destrezza nel furto: art. 625, n. 4), valutabili, le prime, come cause di aggravamento o di attenuazione del reato, solo quando non siano del reato stesso elementi costitutivi (per es., articoli 578; 62, n. 1) o circostanze speciali (per es., articoli 551 e 62, n. 1; v., in particolare, più sotto, in questa stessa voce: Reato circostanziato).
III. - Nel reato troviamo sempre: un soggetto attivo, un soggetto passivo, un'oggettività giuridica; spesso: un oggetto materiale.
a) Soggetto attivo del reato non può essere che la persona fisica. La persona giuridica, come non può essere valida destinataria di precetti penali, così non può essere soggetto attivo di reato (societas delinquere non potest), non solo per ragioni attinenti ai limiti della sua riconosciuta volontà giuridica, quanto soprattutto perché difetta in essa quella coscienza unitaria, quella suscettibilità d'inibizione, presupposti fondamentali della funzione repressiva (v. anche art. 197). Parimenti non sono soggetti attivi di reato coloro che mancano di personalità giuridico-penale, coloro per i quali la legge penale non è regola di condotta (re, reggente durante la reggenza, sommo pontefice).
Gl'individui psichicamente incapaci, i non imputabili, ossia coloro che non hanno la capacità d'intendere e di volere, non possono essere soggetti attivi del reato inteso come illecito penale, ma solo soggetti attivi del fatto astrattamente previsto dalla legge come reato, concretamente considerato nel suo valore sintomatico, vale a dire non come violazione della norma, come illecito giuridico, ma come indice di pericolosità, come fatto giuridico produttivo di quella conseguenza giuridica di carattere preventivo e non repressivo che è la misura di sicurezza.
b) Soggetto passivo del reato è (secondo l'esatta definizione del Manzini) "il titolare dell'interesse leso o esposto a pericolo con il reato stesso, cioè colui (persona fisica o giuridica, persona capace o incapace) che sopporta concretamente le conseguenze immediate dell'azione o dell'omissione delittuosa". Una stessa persona non può che apparentemente essere soggetto attivo e soggetto passivo del reato: del delitto di "aborto procuratosi" (art. 547) soggetto attivo è la donna, ma soggetto passivo della lesione giuridica è lo stato. Il consenso del soggetto passivo, diretto o esclusivo titolare dell'interesse penalmente protetto, esclude la violazione dell'interesse e, perciò, esclude il reato: volenti et consentienti non fit iniuria; per modo che, ad es., la mutilazione del consenziente non potrà mai, in virtù del consenso, costituire reato di lesione personale, pur potendo concretare un diverso delitto (ad es., delitto di provocata impotenza alla procreazione: soggetto passivo, lo stato; delitto di mutilazione fraudolenta: soggetto passivo, la società di assicurazione).
c) Oggetto giuridico del reato è "il bene o interesse protetto da una norma giuridica imposta sotto sanzione penale e violata mediante un'azione delittuosa" (Art. Rocco). Oggetto giuridico del reato è sempre un interesse pubblico, statale; interesse, talvolta, di diretta immediata pertinenza statale (p. es., reati contro la personalità interna ed esterna dello stato, reati contro la pubblica amministrazione, reati contro l'integrità e sanità della stirpe), talora d'indiretta, riflessa pertinenza statale (per es., reati contro la persona): riflessa pertinenza statale nel senso che la violazione dell'interesse statale (reato) è subordinata alla violazione dell'interesse del privato soggetto passivo: per questo la lesione personale del consenziente non costituisce il reato dell'art. 582. È in base al criterio dell'oggettività giuridica (esclusiva o prevalente) che il codice penale, nella sua parte speciale, ha proceduto alla classificazione dei reati. Il codice (libro secondo) ripartisce i delitti in tredici titoli: I. Delitti contro la personalità dello stato (titolo comprendente i delitti contro la personalità iriternazionale dello stato, i delitti contro la personalità interna dello stato, i delitti contro i diritti politici del cittadino, infine i delitti contro gli stati esteri, i loro capi e i loro rappresentanti); II. Delitti contro la pubblica amministrazione (comprendente i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione); III. Delitti contro l'amministrazione della giustizia (comprendente i delitti di tutela arbitraria delle private ragioni); IV. Delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti (comprendente i delitti contro la religione dello stato e i culti ammessi, e i delitti contro la pietà dei defunti); V. Delitti contro l'ordine pubblico; VI. Delitti contro l'incolumità pubblica (comprendente i delitti di comune pericolo mediante violenza, i delitti di comune pericolo mediante frode, e i delitti colposi di comune pericolo); VII. Delitti contro la fede pubblica (comprendente i delitti di falsità in monete, in carte di pubblico credito e in valori di bollo, i delitti di falsità in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento, i delitti di falsità in atti e i delitti di falsità personale); VIII. Delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio (comprendente i delitti contro l'economia pubblica e i delitti contro l'industria e il commercio); IX. Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume (comprendente i delitti contro la libertà sessuale e i delitti di offesa al pudore e all'onore sessuale); X. Delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe; XI. Delitti contro la famiglia (comprendente i delitti contro il matrimonio, i delitti contro la morale famigliare, i delitti contro lo stato di famiglia e i delitti contro l'assistenza famigliare); XII. Delita contro la persona (comprendente i delitti contro la vita e l'incolumità individuale, i delitti contro l'onore, i delitti contro la libertà individuale); XIII. Delitti contro il patrimonio (comprendente i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone e i delitti contro il patrimonio mediante frode). Nel libro terzo, il codice divide in due titoli le contravvenzioni: I. Contravvenzioni di polizia; II. Contravvenzioni concernenti l'attività sociale della pubblica amministrazione.
d) Oggetto materiale del reato è l'uomo o la cosa "in quanto l'uno o l'altra formino la materia su cui cade l'attività fisica del colpevole" (Rocco): es., l'uomo nell'omicidio, la cosa mobile nel furto.
Lo stesso individuo può essere soggetto attivo e oggetto materiale (per es., art. 547: aborto procuratosi dalla donna); oppure soggetto passivo e oggetto materiale (p. es., omicidio comune); può l'individuo essere soltanto oggetto materiale (p. es., art. 579: omicidio del consenziente). Mentre ogni reato presenta un oggetto giuridico, non tutti i reati hanno un oggetto materiale (p. es., delitto di bigamia, art. 556).
Da distinguere concettualmente dall'oggetto materiale del reato è il corpo del reato: cioè quel particolare mezzo di prova consistente in un quid materiale su cui è stato commesso il reato, o che ha servito come mezzo per commettere il reato, o che del reato è il prodotto, o che, infine, può dimostrare la esecuzione del reato. Così, ad es., nell'omicidio sono corpo del reato non solo il cadavere, ma anche l'arma adoperata dal colpevole, le vesti insanguinate trovate in casa del supposto reo, ecc.; nel delitto di concussione, corpo del reato è il denaro che il soggetto passivo è stato costretto a consegnare al pubblico ufficiale. L'importanza del corpo del reato, come mezzo di prova, fa sì che la legge, mentre da un lato detta norme processuali relative alle modalità di reperto e conservazione del corpo del reato stesso (v., ad es., articoli 222 cap., 267 cap., 332, 372, ecc., cod. proc. pen.), d'altro lato incrimini fatti diretti a sottrarre, sopprimere, distruggere, disperdere, deteriorare corpi di reato (v. art. 351 cod. pen.), oppure ad alterarne l'essenza allo scopo d'ingannare il giudice o il perito (art. 374 cod. pen., cap.). Come, però, avverte la stessa relazione sul progetto preliminare del cod. di proc. pen. (p. 66) "l'esistenza, la scoperta, il sequestro e la presentazione del corpo del reato, non costituiscono condizioni necessarie per l'accertamento della colpevolezza, se la legge non disponga diversamente in modo espresso"; perciò, come ha ritenuto la Corte di cassazione, "per ammettere la responsabilità penale dell'imputato di furto, non è indispensabile il sequestro e la presentazione del corpo del reato, se per altri mezzi di prova sia possibile accertare la sussistenza del fatto".
IV. - Delitti e contravvenzioni. - Alla vecchia tripartizione dei reati in "crimini", "delitti" e "contravvenzioni", seguita dal codice penale sardo-italiano, il codice del 1930 (art. 39), come quello del 1889, sostituisce la bipartizione in delitti e contravvenzioni, partendo dal criterio differenziale ontologico che vede, nell'illecito contravvenzionale, la violazione di una norma di polizia intesa a tutelare le condizioni ambientali d'integrità e di sviluppo dei beni direttamente protetti dalle norme sui delitti, e fissando la nota giuridica distintiva nella diversa specie delle pene stabilite per i due gruppi di reati (art. 17). È necessario, in pratica, sapere con sicurezza distinguere un delitto da una contravvenzione, al quale scopo servirà il su indicato criterio ontologico quando non sia praticamente utilizzabile il criterio formale della specie della pena. È necessario, perché la contravvenzione, a differenza del delitto, non ammette il tentativo; perché una condanna per contravvenzione può non costituire nesso di recidiva con una condanna per delitto; perché può essere concessa la sospensione condizionale della pena a chi abbia riportato una precedente condanna per contravvenzione, mentre non può essere concessa a colui che ha riportato una precedente condanna per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione, ecc.
V. Delitto o reato politico. - Eliminando ogni discussione dottrinaria sul concetto di delitto politico, il codice del 1930, ai fini pratici di cui all'art. 8, 1° e 2° comma, ne dà, nel terzo comma del citato articolo, la seguente nozione: "Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello stato ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici". E la relazione ministeriale (I, 39) così commenta: "Tutti i delitti contro la personalità dello stato, fra cui... i delitti contro i diritti politici del cittadino, e altri disseminati in leggi speciali, saranno pertanto da considerare come delitti oggettivamente politici,... avendosi riguardo all'indole del bene giuridico leso, costituito da un interesse politico rispetto allo stato o da un diritto politico rispetto al cittadino. Sempre per questa categoria di delitti politici, appunto perché per essi si ha riguardo esclusivamente alla natura del bene giuridico leso, è indifferente il motivo che abbia determinato il colpevole ad agire: anche se il motivo sia di lucro o di vendetta, il delitto dovrà egualmente considerarsi, agli effetti della legge penale, come delitto politico. La qualità del motivo è presa in considerazione per la seconda categoria di delitti politici, trattandosi in realtà di delitti comuni che la legge soltanto considera come delitti politici, allo scopo di assoggettare i colpevoli allo stesso trattamento di rigore adoperato contro coloro che abbiano commesso un vero e proprio delitto politico, cioè un delitto politico oggettivo. E quel che maggiormente pone in rilievo la differenza fra la vecchia e la nuova concezione del delitto politico, si è che, per espressa disposizione... il delitto comune è da considerarsi come politico anche quando sia stato commesso soltanto in parte per motivi politici. Né potrebbe essere diversamente. Per uno stato che sia consapevole della propria forza e della propria autorità e che per il conseguimento dei proprî fini voglia difendere l'una e l'altra contro qualsiasi attentato, dovunque e da chiunque commesso, e quale sia il mezzo adoperato dal colpevole, è indifferente la circostanza che ad armare il braccio di costui, a determinarlo all'azione siano concorsi, oltre che motivi politici, anche motivi d'ordine privato. Data la direzione della volontà dell'agente, sussisterà, anche in tal caso, quella offesa agli interessi politici dello stato, che per il bene della collettività, che lo stato rappresenta, dev'essere repressa". Motivi politici (secondo la precisa definizione che ne dà il Manzini, Tratt., I, p. 425), sono "gl'impulsi psichici tendenti a favorire, a realizzare o a combattere idee o imprese di partito, nell'opinato interesse dello stato o della società in generale". Anche i "delitti anarchici" e i cosiddetti "delitti sociali" sono delitti politici per eccellenza: "L'organizzazione sociale - ha scritto recentemente il Pannain (Riv. it. di dir. pen., V, n. 6, p. 738) - è come lo scheletro di quella politica. Ond'è che legittimamente è da ritenersi che tra gl'interessi politici dello stato moderno italiano sono quelli della conservazione e protezione della costituzione sociale, che ne rappresenta l'inderogabile presupposto". Ciò è espresso chiaramente nella relazione al re (n. 10): "Delitti comuni determinati da motivi sociali si intendono generalmente quelli che, più che attentare a un determinato ordinamento politico, si dirigono contro lo stesso ordinamento sociale su cui l'ordinamento politico si fonda, quali sono per eccellenza i delitti anarchici. Sennonché l'anarchismo, come ogni altra simile attività antisociale, è considerato dal codice delitto contro la personalità dello stato, così che non può dubitarsi che i delitti comuni determinati da motivi anarchici o altrimenti antisociali, siano delitti soggettivamente e oggettivamente politici" (v. art. 270 cod. pen.). Il codice non accenna ai "reati connessi a reati politici", i quali, dunque, nel silenzio del codice, non possono essere considerati reati politici; sono invece equiparati ai reati politici da molte convenzioni di estradizione. L'art. 13 del codice penale del 1930, diversamente dall'art. 9 del codice abrogato, non contiene il divieto di estradizione per i reati politici, sennonché in pratica il divieto può dirsi quasi conservato, in forza di numerose convenzioni internazionali: generi per speciem derogatur (v. art. 656 cod. proc. pen.).
VI. Reato militare. - Nella definizione formale che ne dà il Manzini (Diritto penale militare, Padova 1928, p. 8), reato militare è la "violazione di un precetto - comando o divieto - penalmente sanzionato, preveduto da una legge penale militare". Sostanzialmente, i reati militari, di cui soggetto attivo non può essere che una persona appartenente alla milizia o equiparata, si distinguono in reati esclusivamente militari e reati obiettivamente militari (v. in proposito P. Vico, Diritto penale militare, in Enciclopedia del dir. pen., diretta da E. Pessina, XI, pp. 152, 153): i reati esclusivamente militari sono lesioni di servizio, sono "fatti che, non formando oggetto del diritto comune, non possono confondersi con altre infrazioni, poiché è lo stesso speciale servizio militare violato ciò che li distingue senz'altro dalle violazioni dei doveri comuni" (es. diserzione, abbandono di posto o di comando, mutilazione per esimersi dal servizio, ecc.); i reati oggettivamente militari, invece, sono quelli nei quali "la qualità militare del colpevole conferisce al fatto una speciale essenza giuridica e gli imprime un particolare aspetto, prevalente alla violazione del dovere comune che nel fatto stesso è compenetrata" (es., peculato di cose militari, insubordinazione con vie di fatto). Per il progetto di codice penale militare di pace (1932, art. 27 cap.), "è reato esclusivamente militare quello che, nei suoi elementi materiali costitutivi, non si trova preveduto, in tutto o in parte, fra i reati compresi nella legge penale comune". Il reato militare, in genere, è, dunque, caratterizzato da un duplice elemento militare: soggettivo e oggettivo: se un militare commette un fatto previsto come reato dalla legge penale comune soltanto, sarà punito, dal giudice ordinario, in base a questa legge. A tal proposito è opportuno richiamare l'innovazione contenuta nell'art. 49 del codice di procedura penale del 1930, il quale, allo scopo di mantenere la competenza al giudice che possiede una particolare, specifica attitudine funzionale, delibera che nel caso di connessione fra procedimenti di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria e procedimenti di competenza dell'alta corte di giustizia o dei tribunali militari, la competenza per tutti appartiene al giudlce speciale, il quale tuttavia può ordinare, per ragioni di convenienza, con provvedimento insindacabile, la separazione dei procedimenti.
Tutti i reati militari sono "delitti", nel senso che i codici penali militari non conoscono la bipartizione dei reati fissata nel codice comune. Bisogna non confondere quelle che nel diritto penale comune sono le contravvenzioni, con quelle che sono, nel diritto militare, trasgressioni (illeciti disciplinari aventi per giuridica conseguenza non già l'applicazione di "pene", ma l'applicazione di "punizioni", con esclusione dell'intervento della guarentigia giurisdizionale). I codici militari (art. 2 cod. es.; art. 271 cod. mar.) offrono una definizione a contenuto negativo della trasgressione militare: "Tutte le trasgressioni contro la disciplina militare, che non siano reato, saranno represse in conformità dei regolamenti", il che non esclude che costituiscano "trasgressioni" anche quei fatti, previsti nella legge penale militare, per i quali questa legge commina punizioni disciplinari e non la pena.
Si ricorda, infine, che per il codice penale del 1930 (diversamente da quanto disponeva l'art. 83 del codice penale del 1889) è ammessa recidiva fra i reati previsti nei codici penali militari e i reati previsti nel codice penale comune; il che si desume non solo dal fatto che il codice vigente non contiene, al riguardo, l'esplicito divieto fissato nell'art. 83 dell'abrogato codice, ma anche dal contenuto dell'art. 101 dell'attuale codice che, nel definire, anche agli effetti della recidiva, i "reati della stessa indole", menziona i reati previsti in leggi diverse dal codice.
VII. A prescindere dalle sopra indicate distinzioni, i reati possono essere classificati sotto altri punti di vista, attinenti alla loro intrinseca natura o alla loro posizione processuale. Pertanto:
a) Dal punto di vista dell'elemento soggettivo, il codice distingue i reati (delitti) in dolosi, colposi, preterintenzionali (art. 43). Il delitto è doloso, quando l'evento dannoso o pericoloso che è il risultato dell'azione o omissione e da cu̇i la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione; è colposo, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente, e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline; è preterintenzionale, quando dall'azione o omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente. Esempî: Tizio, a fine di uccidere esplode un colpo di fucile contro Caio e l'uccide; Tizio, scherzando imprudentemente con il fucile carico, fa partire un colpo e cagiona involontariamente la morte al compagno; Tizio con atti esclusivamente diretti a percuotere o ledere cagiona involontariamente la morte a taluno. Solo in vía di espressa eccezione può sussistere il reato in assenza di colpevolezza (v. art. 57 cod. pen.: "responsabilità per reati commessi col mezzo della stampa").
b) Secondo la loro obiettiva natura, i reati si distinguono in reati di azione (positiva) e reati di omissione, a seconda che la colpevole volontà del reo si estrinsechi in un comportamento positivo o in un comportamento negativo; gli uni e gli altri, poi, si distinguono in reati di pura e semplice azione o omissione e reati commessi mediante azione o mediante omissione, a seconda che tutta l'essenza del reato consista nel semplice agere o omittere (es., delitto di percosse, delitto di omissione di soccorso) o in un effetto esteriore prodotto o producibile con l'azione o omissione (es., delitto di omicidio). I primi - reati di pura azione o omissione - si dicono reati formali (reati, cioè, la cui perfezione è nell'esaurimento dell'iter criminis, del comportamento esecutivo descritto nel precetto penale); i secondi - reati commessi mediante azione o omissione - si dicono reati materiali (reati, cioè, nei quali l'evento è cronologicamente distaccato dall'azione o omissione, cui fa seguito come effetto a causa). Fondamentali, nei riguardi del reato materiale, sono gli articoli 40 e 41 del codice: nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione, sola o in concorso con cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se dall'azione o omissione stessa indipendenti; tenuto conto che equivale a cagionare un evento il non impedirlo quando si ha l'obbligo giuridico di impedirlo (es., la madre che cagiona la morte del bambino negandogli i dovuti alimenti). Nei riguardi dei reati formali, interessante è la distinzione in reati semplici, ossia con esecuzione non suscettiva di frazionamento (reati altrimenti detti unisussistenti: es., l'ingiuria verbale) e complessi, cioè a esecuzione scindibile in più atti (es., il delitto di furto).
c) In riguardo al loro grado, i delitti possono essere consumati o semplicemente tentati. Consumazione del reato significa "realizzazione del fatto descritto nel precetto penale, ossia realizzazione dell'evento che concreta l'obiettività giuridica del reato stesso" (es., morte della vittima nell'omicidio); si ha, invece, il tentativo quando l'esecuzione del reato rimase, per cause indipendenti dalla volontà del colpevole, incompleta, oppure, se giunta a compimento, non cagionò l'evento, presenti le condizioni richieste dall'art. 56 del codice penale. Fissare il momento consumativo del reato è essenziale ai fini del diritto (es., art. 158 cod. pen.: prescrizione; art. 39 cod. proc. pen.: competenza territoriale). Ma non bisogna confondere il concetto di "consumazione" del reato con il concetto di "commissione" del reato. Il concetto di "commissione" è concetto relativo agli scopi per i quali esso è dalla legge richiamato, sì che esprimerà talora "esecuzione" (in contrapposto a consumazione: es., articoli 2, 98, 587), talora "realizzazione di una qualsiasi parte costitutiva del reato" (v. art. 6 cod. pen.).
Dal punto di vista del momento consumativo, considerato in quella che può dirsi la sua affermazione temporale, si distinguono i reati in istantanei e permanenti. Si dice istantaneo il reato il cui momento consumativo si esaurisce nell'istante stesso in cui si effettua (es., il furto, l'omicidio, la lesione personale, la bigamia); si dice permanente il reato che, raggiunto il suo momento consumativo, si protrae ininterrottamente nel tempo sino al momento in cui, per ragioni dipendenti o indipendenti dalla volontà del reo, giunge a esaurirsi; e può trattarsi di permanenza necessaria del reato (es., art. 560: concubinato) oppure di eventuale permanenza (es., art. 574: sottrazione di persona minore). Il reato permanente, la cui nozione è particolarmente importante agli effetti della competenza (art. 39 cap. cod. proc. pen.), della prescrizione (art. 158 cod. pen.), della successione di leggi (art. 2 cod. pen.) non va confuso: 1. con i reati, la permanenza del cui momento consumativo non presenta alcun valore giuridico (es., articoli 361, 362, ecc.); 2. con i reati a effetto antigiuridico permanente (es., lesione personale, furto, bigamia, ecc.); 3. con i reati abituali, la cui nozione, come bene osserva il Manzini, "esige, come elemento costitutivo, la reiterazione abitudinaria o professionale di fatti che, presi singolarmente, non sarebbero reati", e di cui abbiamo esempio nel codice agli articoli 534 ("sfruttamento di prostitute") e 572 ("maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli"); 4. con il reato continuato, costituito (art. 81, 1° e 2° cap.) da una pluralità di successive azioni o omissioni determinanti più violazioni della stessa norma penale, anche se di diversa gravità, dipendenti da un medesimo disegno criminoso, e considerate dalla legge (fictio legis) come un solo reato, al solo scopo di evitare l'applicazione delle norme sul concorso materiale di reati e gli effetti giuridici relativi alla delinquenza iterata (es., Tizio, in dipendenza di uno stesso disegno criminoso, commette alcuni furti semplici e un furto aggravato: il giudice considererà tutti questi furti come un solo reato, nel senso che applicherà al reo la pena relativa alla violazione più grave - furto aggravato - aumentata fino al triplo).
d) Sotto l'aspetto dell'evento, si distinguono i reati di danno (reati per la cui consumazione è necessaria l'effettiva lesione del bene giuridico protetto dalla norma che lo prevede: es., omicidio, furto, lesione personale), e i reati di pericolo, che possono essere reati di pericolo presunto (presunto dalla legge nel fatto, con presunzione assoluta: es., articoli 426, 423 1° comma) o reati di pericolo effettivo (cioè di pericolo che deve essere accertato nel fatto concreto: es., art. 423 cap.). Il reato di pericolo può sorgere talora (es., articolo 431) come residuo di un reato di danno (es., art. 430) impedito da desistenza volontaria; dal reato di pericolo si può passare al reato di danno, in cui il primo rimane assorbito, quando dopo l'esecuzione del fatto costituente reato di pericolo, il reo ometta dolosamente d'impedire la prevista conseguenza dannosa (es., dal delitto di abbandono di un neonato - art. 592 - al delitto di omicidio). In considerazione, sempre, dell'"evento" del reato, si profilano le nozioni di reato progressivo e di reato complesso. Si ha progressione criminosa allorché "da un reato più semplice l'attività del soggetto procede verso forme più gravi che comprendono e includono gli elementi costitutivi del reato iniziale più semplice (E. Massari): Tizio, in uno stesso contesto di azione, dalle percosse passa ad atti producenti lesione personale, infine, con intenzione di uccidere, vibra contro lo stesso soggetto passivo un colpo che gli cagiona la morte. È complesso il reato nel quale, per disposizione di legge, si fondono in uno due eventi corrispondenti a due distinti reati (es., la rapina - art. 628 - di cui è elemento costitutivo, oltre al furto, il delitto di violenza privata: art. 610); i reati contribuenti a formare il reato complesso, perdono, nella fusione, la loro autonomia (v. anche articoli 131 e 170, 1° cap.), come esattamente dispone l'art. 84 del codice, per il quale non devono applicarsi le norme relative al concorso materiale di reati (ne bis in idem) "... quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero per sé stessi reato...".
e) In considerazione del soggetto attivo, i reati si distinguono in comuni (reati che possono commettersi da chiunque: es., l'omicidio, la lesione personale, le percosse, l'ingiuria. . .) e speciali (reati che suppongono nel soggetto attivo una determinata qualità: es., il peculato); si distinguono, inoltre, in unilaterali (che possono essere commessi da una sola persona: es., l'omicidio) e collettivi (che richiedono per la loro essenza il concorso - concursus necessarius - di più soggetti attivi, concorso voluto dalla legge o richiesto dalla stessa natura del fatto: es., associazione a delinquere, duello, abbandono collettivo del lavoro).
f) Dal punto di vista processuale, i reati si distinguono in perseguibili di ufficio e perseguibili soltanto a querela, istanza, richiesta o autorizzazione, ossia subordinati nella loro persecuzione giudiziale a una di quelle condizioni di procedibilità che, in virtù dell'art. 17 del cod. di proc. penale, nettamente si distinguono dalle condizioni di punibilità.
VIII. Vi sono cause che a un fatto concreto, simile a quello astrattamente previsto dalla legge come reato, impediscono di costituire reato (cosiddette discriminanti, o cause di giustificazione del fatto, o elementi negativi del reato: consenso del soggetto passivo, legittima difesa, stato di necessità, esercizio di un diritto, adempimento di un dovere), e cause possono intervenire a togliere al fatto, costituente in concreto reato, la qualità di reato (cosiddette "cause estintive di reato" prima chiamate "cause estintive dell'azione penale", distinguibili in generali: morte del reo, amnistia, prescrizione, remissione, oblazione, perdono giudiciale, realizzazione delle condizioni di esperimento nella condanna condizionale; e speciali: es., articoli 544, 563, 641 cod. pen.).
Si vedano anche le voci: colpa: Diritto penale; dolo: Diritto penale; imputabilità; premeditazione; preterintenzionalità e concausa; provocazione. E inoltre: contravvenzioni; delitto: Delitto politico; fisco: Reati fiscali; libertà: Delitti contro l'esercizio delle libertà politiche; tentativo; concorso: Concorso di reati e di pene; Concorso di più persone nel reato. Si veda infine: querela.
Bibl.: A. Rocco, L'oggetto del reato e della tutela giuridica penale, Torino 1913 (ripubblicato in Opere giuridiche, Roma 1932-33); S. Longhi, Contributo alla determinazione dell'illecito penale, Città di Castello 1925; G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova 1930; F. Pergola, Il reato, Roma 1930; O. Vannini, Concetto e contenuto dell'illecito penale, Siena 1932; F. Carnelutti, Teoria generale del reato, Padova 1932; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino 1933.
Reato circostanziato.
È il reato, ai cui elementi costitutivi si aggiungono - come si disse - elementi secondarî o i cui elementi costitutivi presentano deviazione della loro normale essenza. Le circostanze in senso proprio, quelle che aggravano o attenuano la pena - riflettano esse l'elemento soggettivo o oggettivo del reato, l'entità della violazione giuridica o la capacità del reo a delinquere - sono ispirate a un fine di giustizia o al fine pratico di adeguare la gravità della sanzione alla particolare forza inibitoria che questa deve spiegare nella coscienza del soggetto. Finalità la cui considerazione non fu estranea al diritto romano imperiale (C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in Enciclopedia del dir. pen. di E. Pessina, pp. 126-128, 131), e tanto meno al diritto canonico che, sulla base dei principî teologici svolti soprattutto da S. Tommaso d'Aquino, elaborò una vera dottrina delle circostanze del reato (D. Schiappoli, Diritto penale canonico, in Encicl. del dir. pen., di E. Pessina, pp. 751-754).
Le circostanze del reato possono essere classificate - come si è visto - sotto varî punti di vista. La più interessante classificazione ha riguardo all'elemento essenziale del reato cui la circostanza si riferisce (imputabilità, colpevolezza, azione o omissione, evento) e alla persona del colpevole. È giusto che minore pena subisca colui che nel momento in cui commise il reato grandemente diminuita aveva, e non per sua colpa, la capacità intellettiva o la capacità di normalmente manovrare il meccanismo della volontà; perciò sono circostanze (comuni a ogni reato) attenuanti, quando grandemente abbiano ridotta la capacità psichica del colpevole: il vizio di mente, la minore età superiore agli anni quattordici, ma inferiore ai diciotto, l'ubriachezza e la stupefazione accidentali, l'intossicazione cronica da alcool o da stupefacenti, il sordomutismo (v. cod. pen., articoli 85 a 98). Ed è opportuno che fra le circostanze aggravanti figuri la recidiva (articoli 99-101, 106), perché di fronte ai recidivi ossia a coloro che rivelano particolare refrattarietà alla minaccia penale, è neeessario che la sanzione tragga profitto della sua già sperimentata insufficienza. Né possono sulla pena non influire le circostanze attinenti all'elemento soggettivo del reato, dai moventi al grado e all'intensità della colpevolezza, quali indici particolarmente notevoli della personalità del reo e, di conseguenza, guida sicura per una razionale individualizzazione della pena. Pertanto aggravato è il delitto di omicidio, come quello di lesione personale, se commesso con premeditazione, aggravati sono tutti i delitti colposi commessi nonostante la previsione dell'evento; e il motivo abietto o futile, a differenza del motivo di particolare valore morale o sociale che attenua la pena in ogni reato, è di ogni reato circostanza aggravante. Anche le modalità del comportamento colpevole (azione o omissione) e le particolari condizioni nelle quali esso viene a esplicarsi, ben possono assurgere a circostanza del reato, sia come indice di particolare malvagità, e quindi di pericolosità del reo (che abbia, ad es., adoperato sevizie o abbia agito con crudeltà verso le persone), sia in considerazione della necessità di soccorrere con più grave sanzione nei casi nei quali singolarmente facile si profila la materiale esecuzione del delitto e per detta facilità più forte e deciso l'impulso a delinquere (in siffatta guisa si giustifica l'aggravante comune consistente nell'avere il colpevole profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa). Infine, fare dell'entità dell'evento una circostanza del reato, proporzionando la gravità della pena alla gravità delle conseguenze cagionate dal reato, significa rispondere a un saggio criterio di politica criminale; infatti la maggiore entità dell'offesa e il conseguente maggiore interesse sociale a impedirla non possono non consigliare il legislatore a intervenire con un più forte motivo inibitorio, senza contare che al maggiore risentimento suscitato nell'offeso e nei consociati in genere, deve corrispondere per il fine preventivo della pena, attraverso una pena adeguata, un'altrettanto adeguata soddisfazione. Ecco perché (v. articoli 61 n. 7 e 62 n. 4) la particolare gravità o tenuità del danno patrimoniale costituiscono, rispettivamente, circostanza aggravante o attenuante. Né bisogno di giustificazione ha la circostanza del ravvedimento attuoso, idoneo a riparare il danno oppure a elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato, e spontaneo; circostanza consigliata dalla convenienza di favorire gl'interessi del soggetto offeso dal reato e di tenere conto della minore criminosità del colpevole.
In considerazione del loro effetto, si possono distinguere le circostanze in aggravanti, attenuanti ed esimenti (circostanze, queste ultime, in senso improprio). Sotto questo riguardo è da avvertire che non si devono confondere le circostanze vere e proprie, che del reato determinano la specie (reato aggravato o attenuato), con quelle pseudocircostanze dalle quali il giudice (art. 133) deve desumere il grado di gravità del reato o il grado di capacità a delinquere del colpevole, per l'applicazione discrezionale della pena o di benefici di legge (es., della sospensione condizionale della pena, del perdono giudiziale); osserva, anzi, V. Manzini (Tratt. di dir. pen. it., III, p. 16) che, se alcuna delle circostanze indicate nell'art. 133 costituisse nel contempo circostanza aggravante o attenuante, non potrebbe essere valutata per stabilire la pena base, onde non valutarla due volte. Così pure dalle circostanze aggravanti vere e proprie devono tenersi rigorosamente distinte le circostanze che aumentano la pena senza avere alcun riferimento agli elementi essenziali del reato (es. le fortunate condizioni economiche del reo quale motivo di aumento della pena pecuniaria ai fini della prevenzione speciale; v. art. 24 n. c., 26 cap.). La distinzione è importante, perché, mentre agli effetti della competenza si tiene conto, salvo eecezioni, delle circostanze aggravanti, e queste debbono essere contestate all'imputato, la cosiddetta circostanza di mero aumento della pena non influisee sulla competenza e nei suoi riguardi nessun obbligo di contestazione sussiste. Le circostanze esimenti riguardano l'imputabilità (incapacità d'intendere o di volere) o la responsabilità; quelle riflettenti la responsabilità possono essere cause di giustificazione del fatto (es., legittima difesa) oppure semplici cause personali di esenzione da pena (es., furto in danno di un ascendente o discendente: art. 649; percosse a fine di onore: art. 587; desistenza volontaria: art. 56).
Riguardo alla loro estensione le circostanze sono comuni o speciali, queste ultime previste appunto per singoli reati o gruppi di reati. Per l'applicazione delle circostanze comuni vale la regola che esse aggravano o attenuano la pena quando non siano elementi costitutivi o circostanze speciali del reato (ne bis in idem). Così, ad es., non si potrà applicare la diminuente della provocazione (art. 62 n. 2) a colui che si rese causa di omicidio a fine di onore (art. 587). Ohre le disposizioni sull'imputabilità, sulla recidiva, e sulle cause di giustificazione del fatto, il codice del 1930 (innovando sul codice del 1889) contiene negli articoli 61 e 62 elenchi tassativi di circostanze aggravanti e attenuanti comuni, contempla negli articoli 112 e 114 circostanze caratteristiche dell'istituto del concorso criminoso, e abolisce le cosiddette circostanze attenuanti generiche che, sull'esempio francese, erano state accolte dall'art. 59 del codice del 1889.
In tema di valutazione delle circostanze, il codice del 1930, discostandosi dalla regola adottata dal codice passato, per la considerazione che assai pericoloso sarebbe il dovere raggiungere in ogni caso la prova, sempre difficile, sovente impossibile, della conoscenza dell'aggravante da parte dell'agente, dispone che le circostanze aggravanti siano valutate a carico dell'agente anche se da lui non conosciute o per errore ritenute inesistenti (es., il ladro non conosceva il rilevante valore della cosa rubata), a meno che la circostanza riguardi le condizioni o qualità (eccetto l'età e le condizioni o qualità fisiche o psichiche) della persona offesa o i rapporti tra offeso e colpevole (es., non risponde di parricidio colui che per errore uccide il padre in luogo della vittima designata). Per quanto riguarda le circostanze attenuanti, esse sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute o per errore ritenute inesistenti (es., il ladro crede di rubare un gioiello di eccezionale valore, mentre ruba un anello falso di valore pressoché nullo), e così pure le circostanze esimenti. Anche le circostanze meramente puttitive trovano la loro precisa regolamentazione nel codice. Le circostanze aggravanti e attenuanti putative non sono, rispettivamente, valutate né a carico né a favore del colpevole, tranne il caso, per quel che concerne le attenuanti, che le circostanze riguardino le condizioni o qualità della persona offesa (eccetto l'età e le condizioni o qualità fisiche o psichiche) oppure i rapporti tra offeso e colpevole. Le circostanze esimenti putative (es., il credere erroneamente di agire in condizioni di legittima difesa) sono sempre valutate a favore dell'agente; ma se si tratta di errore determinato da colpa, e la qualità del fatto lo consenta, l'agente sarà punito per delitto colposo (es., l'agente, per errore colposo, crede di reagire contro un'illecita aggressione che altro, invece, non è che uno scherzo di cattivo gusto).
Gli aumenti o le diminuzioni di pena derivanti dalla presenza di circostanze nel reato sono generalmente obbligatorî; talvolta, però, sono dalla legge rimessi alla facoltà discrezionale del giudiee. Un esempio di applicazione facoltativa di circostanza diminuente è dato trovare nell'art. 114 del cod. pen., per cui il giudice, qualora ritenga che l'opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato stesso, può diminuire la pena; un esempio di aggravante facoltativa si trova nel primo capoverso dell'art. 24, per cui per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da lire cinquanta a ventimila. Detti aumenti o diminuzioni di regola si effettuano con l'aumento o la diminuzione frazionale della pena che si sarebbe inflitta a prescindere dalla circostanza, oppure applicando una pena diversa in qualità o quantitativamente prevista in modo indipendente da quella comminata per il reato semplice. Nel reato possono concorrere più circostanze aggravanti o attenuanti, o aggravanti con attenuanti. Nel secondo caso, per produrre effetti giuridici, non devono le circostanze essere fra loro incompatibili (sarebbe, ad es., contraddittorio ritenere nel contempo che il colpevole abbia agito per motivi abietti e per causa di onore; come, a nostro avviso, contraddittorio sarebbe ammettere contemporaneamente la presenza della premeditazione e del vizio parziale di mente); nel primo caso non deve trattarsi di circostanze risolventisi in una cosiddetta circostanza complessa. Complessa è la circostanza che, essendo più generica e comprensiva rispetto a un'altra, contiene in sé gli elementi di quest'ultima; nel qual caso, in vista dell'incompatibilità logica alla contemporanea applicazione di ambedue le circostanze, esse vengono a unificarsi, determinando un solo aumento o una sola diminuzione di pena se le circostanze aggravanti o attenuanti importino lo stesso aumento o la stessa diminuzione di pena, determinando l'aumento maggiore o la maggiore diminuzione se le circostanze importino diversi aumenti o diminuzioni. Si avrebbe, ad es., circostanza complessa nel caso che il colpevole, aggravando le conseguenze del delitto commesso (art. 61 n. 8), fosse riuscito a cagionare alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61, n. 7). Concorrendo circostanze aggravanti con circostanze attenuanti, se si tratti di circostanze non inerenti alla persona del colpevole e nei cui confronti la legge non commini una pena autonoma, a sé stante, il giudice, con il nuovo sistema penale, dovrà attenersi ai criterî della prevalenza o della equivalenza, in questo senso: che se le aggravanti sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, facendosi luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti; se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti; che se, infine, fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che si infliggerebbe se non concorresse alcuna di dette circostanze. In base ai criterî della prevalenza e della equivalenza il giudice farà una valutazione dell'episodio criminoso complessiva, integrale, ispirata alla pericolosità del delinquente, anziché frammentaria, parziale, aritmetica: "Si otterrà, così, un giudizio veramente completo e umano che, senza rinnegare il principio della proporzione tra la pena e il reato, ossia senza condurre alla pena indeterminata, terrà tuttavia conto, nel determinare la pena da infliggere in concreto, della particolare personalità del reo, considerata sotto ogni aspetto sintomatico" (Rel. min.).
Bibl.: V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino 1933, II, spec. pp. 147-233; O. Vannini, Lineamenti di diritto penale, Firenze 1933, pagine 141-154.
Flagranza di reato.
Ne dà la precisa nozione l'articolo 237 del cod. di proc. pen. È flagrante il reato che si commette attualmente; se permanente, il reato è flagrante sin che perdura la permanenza (es., l'illecita ritenzione, nel delitto di ratto, della persona rapita). È "colto in flagranza" il reo, quando è colto nell'atto di commettere il reato; ma pure in stato di flagranza (cosiddetta "quasi flagranza") considera la legge colui che immediatamente dopo il reato è inseguito dalla forza pubblica o dall'offeso dal reato o da altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce le quali facciano presumere che egli abbia commesso poco prima il reato. Lo "stato di flagranza" e lo "stato di quasi flagranza" sono equiparati a tutti gli effetti giuridici. Il reo colto in flagranza a seconda dei casi deve o può essere arrestato dagli ufficiali e agenti della polizia giudiziaria e della forza pubblica (presenti le condizioni volute dalla legge) senza ordine o mandato dell'autorità giudiziaria, e all'arresto può talora procedere ogni e qualsiasi persona (v. articoli 235, 236, 242). Quando l'imputato sia stato sorpreso in flagranza di un reato di competenza della corte di assise o del tribunale, si deve procedere a istruzione sommaria (art. 389), e si può procedere a giudizio direttissimo se nella flagranza del reato sia avvenuto l'arresto (art. 502).
Bibl.: V. anche per notizie stor. al riguardo, V. Manzini, Tratt. di dir. proc. penale ital. secondo il nuovo codice, Torino 1932, I, n. 7; IV, n. 383.