Abstract
Prima cancellata, poi relegata in un decreto luogotenenziale, infine reintrodotta nel codice penale: la parabola della “reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale” è singolare, ma riflette (più che i problemi di “convivenza” con la provocazione) le diverse concezioni dei rapporti tra i cittadini e l’Autorità dello Stato. Chiarita la matrice politica dell’istituto, restano tuttora irrisolti (nonostante un intervento apparentemente risolutivo della Consulta risalente al 1998) due nodi: la natura della circostanza (scriminante o esimente?) dalla quale dipende il rilievo del “putativo”; e il rapporto tra illegittimità e arbitrarietà, un’apparente endiadi del legislatore, che segna il contrasto tra le teorie oggettive (confortate dalla Consulta, e perfezionate con i riferimenti ai “modi” sconvenienti ed inurbani del pubblico ufficiale) e le teorie soggettive (che assegnano un ruolo centrale all’“animus” del rappresentante dello Stato).
La circostanza della reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, già presente nel codice Zanardelli del 1889 (artt. 192 e 199), fu abolita dal codice Rocco del 1930, ma fu ripristinata con l’art. 4 del d.lgs.lgt. del 14.9.1944, n. 288, che, senza novellare direttamente il codice, ridescrisse l’istituto e lo ricollegò a fattispecie, tassativamente elencate, di delitti commessi da privati contro la pubblica amministrazione disciplinate nel Capo II del Titolo II del codice stesso. Da ultimo, con la l. 15.7.2009, n. 94, l’intero testo del citato art. 4 è confluito nell’art. 393 bis del codice penale, completando il percorso di reinserimento della circostanza nel nostro ordinamento giuridico.
L’abolizione, temporanea, dell’istituto è stata tecnicamente spiegata (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1982, 430) con la presenza nel nostro ordinamento della scriminante generale della legittima difesa che ben avrebbe potuto disciplinare anche le reazioni dei privati agli abusi dei pubblici funzionari, come, peraltro, auspicava la relazione ministeriale al codice Rocco.
In realtà, si è osservato, l’abolizione del 1930 era il prodotto di una precisa opzione di politica legislativa: l’istituto in oggetto era in contrasto con i principi che avrebbero dovuto disciplinare, in quell’epoca, i rapporti tra il cittadino e lo Stato autoritario fascista (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, Parte speciale., I, Bologna, 1997, 303).
La lettura politica delle vicende storiche della reazione legittima agli atti arbitrari del p.u. ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte Costituzionale, in occasione di una sentenza interpretativa di rigetto (C. cost., 23.4.1998, n. 140), che ha tracciato le coordinate fondamentali dell’istituto, tuttora vincolanti per l’interprete, sulla quale, dunque, più volte ci si soffermerà.
In questa sede rileva anzitutto l’affermazione, da parte della Consulta, che le traversie storiche dell’istituto sono sintomatiche della diversa concezione dei rapporti tra cittadino e autorità sottesa agli ordinamenti liberal-democratici rispetto ai regimi totalitari, e che, dunque, così come la scelta abolitrice del 1930 fu effettuata «in nome di una malintesa tutela del prestigio e della “infallibilità” degli agenti della pubblica autorità», la modifica dell’ordinamento penale del 1944, operata prima ancora della fine della guerra di Liberazione, fu introdotta unitamente ad altre «ritenute coessenziali al passaggio dal regime autoritario al nuovo ordinamento democratico e alla nuova impostazione dei rapporti tra autorità e cittadino».
Si consideri, poi, il richiamo della Corte all’art. 13 del d.P.R. 3.5.1957, n. 3 e ai principi della l. 7.8.1990, n. 241, «volti ad impostare in un contesto di lealtà e di reciproca fiducia e collaborazione i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione». O si pensi, soprattutto, al richiamo alla sentenza C. cost. 19.7.1994, n. 341 (con la quale la Consulta dichiarò illegittimo il minimo edittale di sei mesi di reclusione fissato per il delitto di oltraggio), che la pronuncia del 1998 promuove e valorizza come proprio naturale antecedente, per le lapidarie e fondamentali affermazioni ivi espresse, prima tra tutte quella che censurava l’elevata sanzione per l’oltraggio «come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell’epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima».
A proposito dell’inquadramento sistematico dell’istituto, la sentenza interpretativa della Consulta non è stata risolutiva, “battezzando” la circostanza reintrodotta nel 1944 a volte come scriminante (o causa di giustificazione), a volte come esimente, a volte come causa di non punibilità.
Resta, pertanto, aperto il dibattito tra la dottrina schierata per lo più per la tesi della causa di esclusione dell’antigiuridicità (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, Milano, 1982, 744), e la prevalente giurisprudenza di legittimità che, fatta salva l’illiceità sostanziale del fatto commesso dal privato, configura una causa di esclusione della punibilità in senso stretto.
Attestato su una posizione più radicale è, poi, un terzo indirizzo interpretativo che tratta la reazione legittima del privato alla stregua di limite interno delle norme incriminatrici elencate dall’art. 4 del decreto luogotenenziale, e, quindi, ritiene che la circostanza in esame sia fonte di caducazione dello stesso fatto tipico dei reati ascrivibili al privato (Vassalli, G., Cause di non punibilità, in Enc. dir., VI, 1960, 627; Morselli, E., La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, Padova, 1966, 96).
La disputa è tutt’altro che accademica, dipendendo dalla predetta alternativa non solo la questione della punibilità del privato per reati diversi da quelli tassativamente indicati dall’art. 4 cit. (e/o per illeciti civili, con conseguenti obblighi restitutori e risarcitori), ma anche, e soprattutto, la rilevanza del “putativo”, vale a dire la possibile operatività dell’ultimo comma dell’art. 59 c.p., dettato per le scriminanti in senso proprio.
Soltanto, dunque, se in tale categoria si faccia rientrare anche la reazione del privato al p.u. che con atto arbitrario abbia ecceduto i limiti delle sue attribuzioni, il reo potrà invocare a sua discolpa la erronea supposizione della sussistenza di un elemento della fattispecie in esame (primo tra tutti, l’arbitrarietà dell’atto della sua “controparte”), e potrà beneficiare dell’esclusione della pena sotto ogni profilo. Nessuna, infatti, delle fattispecie elencate dall’art. 4, d.lgs. n. 288/1944 contempla la forma colposa, sicché il privato, in caso di errore determinato da colpa, non rischierebbe neppure l’incriminazione residuale di cui all’ultimo periodo dell’ultimo comma dell’art. 59 c.p.
È comprensibile, allora, che la giurisprudenza prevalente, qualificando la reazione del privato come scriminante in senso atecnico, abbia costantemente ribadito in materia il principio della irrilevanza del “putativo”, escludendo la pena solo in caso di reazioni private ad atti che obbiettivamente, e non soltanto nell’opinione dell’agente, concretino una condotta arbitraria.
È altrettanto comprensibile che a conclusioni opposte pervengano i fautori della tesi della scriminante in senso proprio, impostasi in dottrina, ma anche presso i giudici di merito. Comune a queste impostazioni è l’opposizione al “dogma” della esecutorietà degli atti amministrativi, e della correlata presunzione di legittimità, presupposto della svalutazione di qualsiasi difetto di rappresentazione della realtà in cui incorra il privato destinatario dell’atto del pubblico funzionario.
Talvolta questa opposizione si spinge fino al punto di inserire la non arbitrarietà dell’atto nel “cuore” del thema probandum, tra gli elementi strutturali delle fattispecie delittuose: rivive, così, quell’indirizzo interpretativo radicale già illustrato che, in questa sede, non può che comportare l’applicazione dell’art. 47 c.p. e la qualificazione dell’errore del privato sulla arbitrarietà dell’atto pubblico in termini di rappresentazione di un fatto diverso da quello reale.
La già tratteggiata ambiguità della sentenza della Consulta sulla “proprietà” della scriminante in esame non ha di certo contribuito a sopire il dibattito sulla invocabilità dell’errore sull’arbitrarietà dell’atto causativo della reazione del privato, questione di rilevante interesse per le strategie difensive dell’imputato di violenza, minaccia, resistenza a p.u., ecc. Nulla quaestio, comunque, sul carattere soggettivo, ex art. 70, n. 2, c.p., della circostanza in commento: pertanto, essa avrà effetto, ex art. 119, co. 1, c.p., soltanto riguardo alla persona o alle persone cui si riferisce, e non si estenderà agli altri concorrenti eventuali nel reato.
Il primo elemento strutturale della fattispecie in commento è costituito dalla condotta posta in essere, nei confronti del pubblico ufficiale (o degli altri soggetti ad esso equiparati) autore dell’atto arbitrario, da parte del privato, ma, a rigore, anche da un agente pubblico gerarchicamente subordinato alla vittima della reazione.
La reazione, verbale o materiale, del reo in tanto potrà essere “scriminata”, in quanto integri le fattispecie, semplici o aggravate, tassativamente indicate dall’art. 4, d.lgs. n. 288/1944, vale a dire: violenza o minaccia a p.u. (art. 336 c.p.), resistenza a p.u. (art. 337 c.p.), violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario (art. 338 c.p.), oltraggio a p.u. (art. 341 c.p., abrogato dalla l. 25.6.1999, n. 205, e reintrodotto dalla l. 94/2009 con l’art. 341 bis c.p.), oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario (art. 342 c.p.) e oltraggio a magistrato in udienza (art. 343 c.p.).
Si pone la questione della punibilità del reo sotto altro titolo di reato, che a sua volta chiama in causa il requisito della proporzionalità tra reazione ed atto arbitrario. Per dottrina e giurisprudenza maggioritarie, è la stessa legge, nel prevedere che l’atto del p.u. abbia “dato causa” alla reazione, ad aver imposto innanzitutto un nesso di causalità determinante (e non meramente efficiente o strumentale), e ad avere implicitamente richiesto un rapporto di proporzionalità tra atto arbitrario e fatto reattivo. Di qui le due ipotesi alternative di risposta alla questione della punibilità aliunde del privato: negativa, se tra provocazione e reazione si riscontri la predetta proporzione; positiva, se il reato commesso dal reagente rappresenti un eccesso rispetto alla violenza reattiva.
Altri corollari si collegano al peculiare nesso di causalità tra reazione e fatto arbitrario. Su tale nesso, ad esempio, ha fatto leva la Suprema Corte per ammettere, sfidando la dottrina in prevalenza contraria, che possa essere scriminato anche l’intervento del terzo, specialmente se legato da vincoli di amicizia o di parentela con la vittima dell’atto arbitrario del pubblico ufficiale (cfr. Cass., pen., 10.10.1980, Pirellas).
Al tema della causalità si collega anche, e soprattutto, il requisito della simultaneità della reazione. Se, infatti, non si vuole “declassare” l’atto arbitrario a mera occasione del fatto, è necessario richiedere che la reazione sia immediata, o, quanto meno, intervenga quando l’illegittimità dell’attività del pubblico agente non si sia esaurita e non sia stata sostituita da una condizione di legittimità.
La tesi del requisito implicito dell’immediatezza della reazione ha ottenuto la più autorevole consacrazione nel 1998, con il “decalogo” dell’istituto tracciato dalla Consulta nella sentenza interpretativa di rigetto già ricordata. Nella parte finale della pronuncia, infatti, dedicata al confronto tra la reazione agli atti arbitrari e la provocazione, sub specie di scriminante speciale dei delitti contro l’onore, la Corte ha riscontrato un rapporto di “causalità psichica” tra il comportamento arbitrario del pubblico ufficiale e la reazione del privato “non diverso” dal rapporto di immediatezza tra fatto ingiusto e stato d’ira richiamato dall’art. 599, co. 2, c.p., e ulteriormente confermato dalla struttura del delitto di oltraggio, ove si richiedeva che l’offesa all’onore o al prestigio del pubblico ufficiale avvenisse «in presenza di lui e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni».
Se, dunque, per usare le parole della Consulta, la reazione del privato all’atto arbitrario «si accompagna per lo più ad uno stato di concitazione e di alterazione, assimilabile ad una risposta ‘ab irato’», risultano confermate le coordinate di quella reazione già tracciate dai precedenti commentatori in rapporto all’atto arbitrario: conseguenzialità diretta, proporzionalità, attualità.
«Può ragionevolmente sostenersi che arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all’atto illegittimo e della illegittimità dell’atto in sé considerato». Con queste parole la Corte Costituzionale nel 1998 ha ricostruito il binomio “eccesso/arbitrarietà” come un’endiadi, censurando le interpretazioni che, non paghe della mera illegittimità dell’atto del pubblico ufficiale, vi sovrapponevano un quid pluris che, a seconda delle opinioni, restringevano o dilatavano l’ambito della fattispecie, complicando comunque l’opera dell’interprete.
Diverse opinioni, invero, assegnavano all’arbitrarietà un posto autonomo nella fattispecie, facendone un quid pluris rispetto alla illegittimità dell’atto.
Uscito ufficialmente “sconfitto” dall’esame della Consulta è l’indirizzo soggettivo, che identificava l’arbitrarietà con la mala fede del pubblico agente, e che richiedeva, pertanto, una volontà dell’atto illegittimo non imposto da necessità o comando, o una consapevolezza di abusare della propria funzione e con modalità talmente provocatorie da giustificare la reazione del privato (Morselli, E., La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, cit., 33-66; Spizuoco, R., La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale nel diritto penale, Napoli, 1951, 71-83); o, ancora, nella versione giurisprudenziale pur successiva alla sentenza della Consulta, l’atteggiamento psicologico di chi sostituisce il proprio capriccio e i propri fini personali alla volontà della legge e alle esigenze dell’ordine pubblico, oppure un intento vessatorio palesato da modalità comportamentali improntate al malanimo, alla villania, alla settarietà e alla prepotenza (cfr. Cass., pen., sez. VI, 14.4.2011, n. 18841; Cass., pen., sez. VI, 23.1.2009, n. 5414).
Ripudiando l’indirizzo soggettivo, la Consulta (imitata di recente da Cass., pen., sez. VI, 13.1.2012, n. 7928) ha implicitamente avallato tutte le obiezioni che erano state avanzate nei suoi confronti, afferenti, soprattutto, alla mancanza di tutela del privato rispetto ad atti compiuti dal p.u. per colpa e non per dolo, e alla gravosità dell’onere probatorio dell’imputato, chiamato a decifrare l’elemento soggettivo del suo interlocutore.
Nella pronuncia della Consulta, invece, non vi sono cenni ad un altro indirizzo “autonomistico” del concetto di “atto arbitrario”, di impronta, stavolta, oggettiva (cfr. Venditti, R., La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, Milano, 1954, 1055 ss). L’esigenza di ricavare uno spazio per atti oggettivamente arbitrari, anche se non affetti dai vizi di legittimità mutuabili dalla nomenclatura amministrativa, ha, in effetti, ispirato un tentativo di integrare la casistica dell’art. 4 d.lgs. n. 288/1944 sotto diversi versanti: quello del malgoverno del potere discrezionale (purché non tradottosi in vizio di merito insindacabile), o delle modalità illecite, o della violazione di una norma extrapenale, o, infine, dei modi villani o scortesi.
Ebbene, l’irragionevolezza del sistema denunciata dal giudice a quo riguardava proprio comportamenti del pubblico ufficiale connotati da “estrema animosità verbale” e da “patente scorrettezza” rispetto ai quali l’imputato di oltraggio non avrebbe potuto invocare né la scriminante in commento (non essendo tali comportamenti qualificabili come “atti arbitrari”), né la provocazione ex art. 599 co. 2 c.p. (di cui può beneficiare solo l’imputato di ingiuria o diffamazione, per ciò irrazionalmente “privilegiato”).
La Corte Costituzionale ha rigettato la questione confutando il suo stesso presupposto interpretativo (l’incompatibilità tra i modi maleducati e la nozione di atti arbitrari), “figlio”, a giudizio della Consulta, della predetta concezione soggettiva dell’arbitrarietà. È evidente, infatti, che non poteva esserci spazio per “semplici” ed involontari comportamenti inurbani, scorretti o sconvenienti nella casistica di quella giurisprudenza che, in ossequio alla formula “arbitrarietà = illegittimità + malafede”, giustificava solo le reazioni del privato ad atti dolosamente aggressivi, vessatori e sopraffattori, ed ispirati da ragioni di malanimo, prepotenza o capriccio.
A tratti, però, si era fatto largo un altro fronte giurisprudenziale, che, ritenendo la convenienza e l’urbanità dei modi comunque doverose anche in difetto di esplicita disposizione legislativa, stigmatizzava i comportamenti scorretti e sconvenienti dei pubblici ufficiali quali modalità di esercizio di un’attività formalmente a norma di legge ma eseguita in un eccesso dai limiti delle attribuzioni del suo autore (cfr. Cass., pen., 19.4.1996, n. 5564, in relazione ad una perquisizione domiciliare compiuta ex art. 41 t.u.l.p.s. nonostante la consapevolezza dell’inesistenza di indizi sulla presenza di armi).
È a questo secondo fronte giurisprudenziale che è andato l’esplicito plauso della Consulta, per poi approdare alla rilettura costituzionalmente aggiornata del concetto di “atti arbitrari” sulla base di quattro argomenti: uno storico-politico (tratto dalle già illustrate vicende della scriminante in oggetto con le relative ideologie di riferimento), uno letterale-semantico (tratto dalla formulazione dell’art. 4 del decreto del 1944, che non osta alla qualificazione dell’arbitrarietà e dell’eccesso come aspetti dello stesso fenomeno), uno sistematico (tratto dalle già indicate norme amministrative che impongono doveri di correttezza ai pubblici impiegati e alla intera azione della p.a.), e uno giurisprudenziale (tratto dalla “autocitazione” del precedente del 1994, con cui la Corte aveva bocciato il minimo edittale del delitto di oltraggio).
Tutti questi argomenti hanno militato per un’accezione elastica della categoria di “atto arbitrario” tale da ricomprendere “il comportamento scorretto, incivile, inurbano, sconveniente”, assimilabile, peraltro, al fatto ingiusto provocatorio di cui al secondo comma dell’art. 599 c.p.p. Tale “assonanza”, unitamente alla già illustrata analogia tra i nessi causali e cronologici sottesi alle due scriminanti, ha consentito alla Corte di ricostruire la reazione del privato agli atti arbitrari in termini di speciale provocazione e di cancellare ogni dubbio di discriminazione tra chi reagisce alle offese di un privato e chi oltraggia un pubblico ufficiale perché provocato dalla sua condotta maleducata.
È stato, poi, il legislatore ad inserire un altro tassello sulla strada della “democratizzazione” dei rapporti tra cittadino e p.a., abrogando, con la l. n. 205/1999, la norma incriminatrice del delitto di oltraggio (poi riconfluita nell’art. 341 bis c.p.).
Il sistema delle provocazioni scriminanti (e non meramente attenuanti, ex art. 62 n. 2 c.p.) si è così ricomposto ed allineato su di un “doppio binario”: quello del vigente art. 393 bis c.p., che giustifica tutte le reazioni materiali e verbali provocate da corpi pubblici o pubblici funzionari; e quello dell’art. 599 co. 2 c.p., che giustifica solo le reazioni verbali offensive dell’onore provocate da un comportamento di identico tenore, non importa se tenuto da un agente pubblico o da un quisque de populo.
Art. 393 bis c.p.
Art. 4 d.lgs. n. 288/1944.
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