recidiva
s. f. – Dal punto di vista tecnico, una circostanza aggravante del reato, applicabile a chi dopo essere stato condannato per delitto non colposo, ne commette un altro. Il dibattito attorno alla r., sopito per lungo tempo, è stato di recente vivacizzato dalla riforma che nel 2005, lasciando intatti i suoi caratteri originari, ha tuttavia ampliato e potenziato gli effetti della sua dichiarazione. Gli inasprimenti del trattamento sanzionatorio, oggi non più solo di tipo quantitativo, a essa collegati, trovano tradizionalmente giustificazione nella ritenuta maggiore rimproverabilità e pericolosità di un autore che, ricadendo nel reato, si mostra ‘insensibile’ o comunque poco sensibile alle finalità preventive della precedente condanna. Se questo fondamento può essere in linea di principio condiviso, non si può tuttavia tacere degli effetti distorsivi che la peculiare disciplina della r. nel nostro ordinamento rischia di innescare, in ragione della sua natura, allo stesso tempo, generica e perpetua: generica, perché la sua dichiarazione consegue alla commissione di un qualsiasi delitto doloso, dopo che il soggetto ha riportato una condanna definitiva per un altro qualsiasi delitto doloso, e in questo caso si parla di r. semplice e la natura eventualmente omogenea dei delitti commessi (r. specifica) condiziona la gravità delle conseguenze, ma non la dichiarazione di r. (semplice); perpetua, in quanto il tempo intercorrente tra i vari delitti condiziona, ancora una volta, soltanto la gravità delle conseguenze (se il nuovo delitto è commesso entro i cinque anni dal precedente), ma non la sua dichiarazione, che può dunque avvenire anche a distanza di moltissimi anni dalle precedenti condanne. Si tratta di un modello di r. pressoché sconosciuto agli altri ordinamenti europei, che, quando non hanno rinunciato del tutto alla figura, hanno comunque delimitato l’ambito dei presupposti della relativa dichiarazione, in funzione proprio della tipologia dei reati commessi e del tempo della loro commissione. La recente riforma, conserva invece il predetto modello, aggravando in maniera rilevantissima le conseguenze connesse alla dichiarazione, in particolare della cosiddetta r. reiterata (che si ha quando chi, già dichiarato recidivo, commette un nuovo delitto doloso). La riforma inoltre, pur confermando il carattere facoltativo della dichiarazione di r., ha (re)introdotto alcune, sia pur limitate, ipotesi di r. obbligatoria. L’ampiezza dei presupposti non consente di identificare una categoria criminologica che possa essere utilizzata come punto di riferimento per valutare la ragionevolezza delle scelte legislative: in astratto, a subire le pesantissime conseguenze collegate alla dichiarazione di r. reiterata possono essere sia soggetti portatori di un'elevata pericolosità sociale (si pensi a un rapinatore seriale), sia autori che non corrispondono affatto a questo modello criminologico (si pensi a chi, condannato per due piccoli furti commessi in gioventù e dunque già recidivo, dopo venti anni viene condannato per una diffamazione). L'ovvia necessità di distinguere questi due ipotetici imputati, entrambi corrispondenti al ‘tipo astratto’ di autore recidivo (reiterato), è interamente affidata alla discrezionalità giudiziale e dunque esposta a un'inevitabile incertezza. Questo stato delle cose è reso più grave dal fatto che, dopo la riforma del 2005, la dichiarazione di r. è la chiave di accesso a un ‘girone infernale’, che si snoda lungo l’intero percorso punitivo: in particolare, la dichiarazione della r. di tipo reiterato, oltre a comportare l’aumento della misura della pena (che può arrivare, nell’ipotesi più grave a due terzi della pena), condiziona, limitandola o impedendola, l’applicazione di istituti o regimi sanzionatori più favorevoli, compresa, sul versante esecutivo, la concedibilità di numerosi benefici penitenziari. La rilevata irragionevolezza del rigore repressivo ‘automatico’ innescato dalla dichiarazione di r. e l'estraneità di molte delle conseguenze alla sua ratio, hanno prodotto in questi anni numerose censure da parte della Corte costituzionale, intervenuta ripetutamente a ridisegnare i confini applicativi della nuova disciplina.